Il teatro di Kane è noto per motivazioni diverse a seconda del luogo in cui se ne parla. Perlopiù il teatro kaneano è rinomato per i grossi scandali che ha offerto: le trame dei cinque lavori dell’autrice sono piene di avvenimenti sul margine del depravato. La malattia mentale è infatti una tematica ricorrente, tavolo di gioco delle storie narrate, della quale Kane può dire molto avendo sofferto di una grave depressione che verrà incanalata in un euforico teatro inscenato sulla sporgenza dell’abisso umano.
Non intendo commentare l’opera kaneana quanto approcciarla come occasione teoretica: le cinque rappresentazioni possono essere intese come un filtro da cui notare la frammentazione dell’umano contemporaneo. Mi piacerebbe operare secondo il dettame heideggeriano per cui l’analisi dell’autore riguarda perlopiù “la cosa in questione del suo pensiero”: non procederemo con bisturi e camice sulla produzione di Kane, ma ne discuteremo l’essenza.
Il teatro di Kane ci interessa dunque per una diagnosi del soggetto dei giorni nostri. Ci sono alcune motivazioni che orientano a una lettura profonda del teatro kaneano, prima fra tutte il modo in cui la scabrosità di ogni messinscena fa emergere la materia più intima dell’animoumano. Specialmente gli ultimi due drammi lavorano su un lento inabissamento della psiche: un’inesorabile riduzione del soggetto a pensiero ed esistenza vegetativi. Non è uno scandalo di maniera: la poetica kaneana è imbevuta di un’oscenità che riguarda scandalosamente l’umano perché l’umano stesso è uno scandalo. È perché “un orrore così profondo può essere frenato solo da un rito” (Febbre in S. Kane, Tutto il teatro, a cura di L. Scarlini, tr. it. di B. Nativi, Einaudi, Torino 2000, p. 161) che il teatro diventa l’unico modo per contrassegnare le crepe dell’individuo; il rito delle tende che si aprono, del pubblico che coincide col palco: il tono emotivo del gioco teatrale può fermare l’orrore di essere umani.
Cala il soggetto
Lo si vede a occhio nudo: nelle cinque opere che costituiscono l’apparato letterario di Kane, c’è una lenta ma inesorabile dipartita della soggettività o, in chiave più teatrale, del protagonismo. Al di là di ogni critica di teatro, il punto è che tra un dramma e l’altro, mano a mano che cala il sipario sul soggetto, a calare è proprio il soggetto. La soluzione di eclissare il protagonismo negli ultimi drammi non è solo una stoccata di stile, ma una vera e propria scelta filosofica: più ci si immerge nella malattia e più il dolore soffoca il soggetto al punto di fargli balbettare la propria identità.
È opportuno dare qualche coordinata. Sfogliando Cleansed (1998), Crave (1998) e 4:48 Psychosis (2000, postumo) [1], gli ultimi tre drammi di Kane, si nota bene la sparizione del soggetto: se nel primo, tra gli altri, abbiamo Graham e Grace come personaggi identificati, negli altri due si assiste a una dipartita evidente quando ci sono solo lettere a indicare chi parla (Crave) o addirittura una voce senza identità (4:48 Psychosis). Deve essere detto che lo scheletro delle opere di Kane proviene direttamente dalla sua vita: l’ambiente estetico ed emotivo entro il quale si sviluppano gli avvenimenti è partorito dall’irripetibile identità dell’autrice. Il teatro non è di Kane ma è Sarah Kane.
I personaggi, i dialoghi e gli eventi (Ereignisse) sono frutto di un’identità che si fa teatro, che si cede alla messinscena forse nella speranza che il marchingegno melodrammatico restituisca quel briciolo di sanità per riconoscersi prima come umani, poi come sé stessi. D’altronde “Questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere” (Psicosi delle 4 e 48 in op.cit., p. 188) e “la caratteristica tipica della metafora è che è reale” (ivi, p. 189); cosa è mai il teatro se non la tecnica di trasportare la propria esistenza sul palcoscenico? Non direi che Kane sperasse che il teatro potesse salvarla quanto piuttosto che credesse nella potenza di un teatro autentico dove il gap tra il mettere in scena e l’umano si restringesse sempre di più [2]. Ecco perché Kane è il suo teatro: 4:48 Psychosis ne è la drastica conferma. È per questo che proponevo di maneggiare teoreticamente l’opera kaneana, perché è un’occasione come poche altre di ragionare nuovamente sull’umano e, più nello specifico, sul soggetto contemporaneo.
È difficile negare l’attualità emotiva dei drammi di Kane: anche da Scarlini l’autrice viene vista come eroina della “new angry generation” [3], emblema britannico di una generazione di giovani che rifuggivano dai valori tradizionali. Malgrado si trattasse di uno slogan dispregiativo usato dai giornali per descrivere l’emergente rosa di autori, la verità è che una penna tanto tagliente dovrebbe essere considerata ben più profondamente di così, essendo indice di un tenore emotivo e culturale a tratti incandescente. Il messaggio latente nelle opere kaneane è molto più vicino a noi di quanto si voglia credere: non serve guardare oltre la siepe del sociale per notare oggi la stessa rabbia [4]. Il teatro di Kane esprime una disposizione emotiva attuale, evoluta in qualcosa di ben peggiore: una rabbia non più limitata all’ambito intellettuale ma estesa a sentire della società.
Ora al di là di questo, o forse proprio per questo, bisogna interrogare il mondo kaneano: bisogna, in senso forte, ritornare a Kane. Probabilmente, come pure Scarlini evidenzia [5], si deve ancora trattare con rigore teoretico la sua opera. Gli eventi (Ereignisse) portati in scena non sono “solo” un’occasione per riflettere sulla malattia mentale, ma esprimono una forma della soggettività contemporanea già nota. Sull’argomento è oracolare il testo di Benasayag e Schmit, L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, Milano 2013), dove si tratta l’insanabile tristezza dell’individuo di oggi. I protagonisti kaneani sono individui irrimediabilmente tristi, sfaldati, rotti, spaccati, bucati – “Sono triste Sento che il futuro è senza speranza e le cose non possono migliore Sono stufa e insoddisfatta di tutto” (Psicosi delle 4 e 48 in op.cit., p. 184), sono soggetti in carne e ossa, persone che ogni giorno incontriamo nella quotidianità: l’uomo incravattato in treno che ti è seduto di fronte, la ragazza con le cuffiette che ti è seduta affianco.
Non è semplicemente una generazione di giovani quella che Kane porta sul palco, ma è il dolore dell’essere-nel-mondo, è quanto Sartre voleva rappresentare letterariamente con Le mur (1939): cala il sipario sui protagonisti e la scena si apre al dolore, quello ontologico, che inabissa il soggetto e scolorisce il mondo che lo circonda, rendendolo inospitale; un cortocircuito sistemico che disintegra l’individuo scaraventandolo in un imbuto emotivo tanto striminzito da strozzarne l’identità: è lo snodo teoretico di 4:48 Psychosis – “Posso riempire uno spazio riempire una giornata ma niente può riempire il vuoto del mio cuore” (Ivi, p. 197).
La risposta di Kane al male di vivere è il suicidio: non solamente 4:48 Psychosis si conclude col suicidio della voce parlante ma Kane stessa, poco dopo la stesura, si toglie la vita. Di grazia, non ci pare una strada sperabile: la risposta al morire dell’essere non è l’apnea nel nulla. Non si tratta di una strada solo teoreticamente discutibile, ma anche esistenzialmente problematica: pure quando il soggetto perde sé stesso tanto che l’abisso non ha più nessuno da scrutare, l’imbuto può essere ripercorso come un monte. E infatti “Non ho nessuna voglia di morire nessun suicida ne ha mai avuta” (Ivi, p. 219): se ci fosse un modo per alleviare la sofferenza è probabile che anche chi voglia lasciarsi morire, viceversa, si lasci vivere.
A ogni modo, eviterei una analisi intellettuale del suicidio nella poetica kaneana. A Kane non importava nulla di un’ontologia del suicidio, né tanto meno credeva che la filosofia potesse dissuadere un suicida. C’è qualcosa di più profondo e tremendo in tutto questo, qualcosa che il filosofare e l’intellettualità non possono toccare: il tedio emotivo di cui è preda il soggetto. È qualcosa che sfugge al concetto e aborrisce ogni categoria, straripando in una landa concettuale che non esagererei pensandola al di là della siepe – “guardatemi scompaio guardatemi scompaio guardatemi guardatemi guardate” (ibidem).
Secolo kaneano
In una celebre sentenza, Foucault sperava in un secolo deleuziano. Noi vogliamo rilanciare il messaggio dicendo che il nostro attuale secolo sia insostenibilmente kaneano. Benasayag e Schmit dicono qualcosa di tagliente:
Le passioni tristi, l’impotenza e il fatalismo non mancano di un certo fascino. È una tentazione farsi sedurre dalle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica che, dalla minaccia nucleare alla minaccia terroristica, cala come un manto a ricoprire ogni altra realtà (M. Benasayag, G. Schmit, op.cit., p. 127).
C’è una accalappiante estetica nel lasciarsi morire, una aberrante seduzione nella disperazione, e forse è per questo che leggere Kane fa risuonare certi tracolli dell’animo. Non si tratta di un’attualità solo cronologica, poggiata nei giorni nostri: è qualcosa di più interno, ontologico, sempre attuale indicando l’intimità dell’essere umano. Si potrebbe azzardare una interpretazione psicoanalitica dei drammi di Kane, ma si rischia di ridurre la potenza degli intrecci elaborati. E in più si farebbe un torto all’autrice [6].
Per Benasayag e Schmit la tristezza è compensata dalla creazione [7]: “ciascuno di noi deve resistere… creando” (ibidem), ma non viene subito chiarito che cosa si intenda con ciò. Dobbiamo pensare alla creatività, dunque – coi termini della psicologia – al pensiero divergente, oppure all’immaginazione, che riassembla gli accadimenti con logiche originali? O magari potrebbe trattarsi di una creatività intellettuale, e allora letteraria, che inscena eventi (Ereignisse) per trarne qualcosa dal loro simbolo? È probabile che per Schmit e Benasayag andrebbero bene tutte queste forme (e altre) di immaginazione, giacché bisogna salvare l’umano dalla situazione di negligenza esistenziale in cui è gettato. A maggior ragione se, come nel caso di Kane, si tratta di una creazione che fa capo alla più profonda delle distruzioni: quella della psiche. I due autori, in linea col freudismo classico, vedono la Destrudo controbilanciata dall’Eros della creatività, e se quella di Kane viene dal baratro più buio, la creazione che ne deriva gode di una potenza sconfinata.
Non è necessario impantanarsi nella sociologia per constatare che il nostro secolo sia popolato da personaggi kaneani. Potrebbe essere interessante, ma mi rendo conto per un lavoro ben più ampio di questo, avvicinare la scrittura di 4:48 Psychosis ai messaggi sui social: il ritmo forsennato dei pensieri della voce parlante nel dramma non è lontano dalla tachicardia dei testi nei luoghi virtuali. Ancora Benasayag e Schmit concorderebbero visto che, per loro, uno dei lasciti più grandi della psicoanalisi freudiana è l’aver inteso la malattia non solo come fatto individuale ma sociale [8].
La “new angry generation” non è uno slogan antipatico per indicare certi letterati di una certa zona ma una categoria epistemologicamente valida per indagare un’umanità in procinto di esplodere. Il disagio odierno della fetta più giovane della civiltà sarà domani quello degli adulti nella politica, nell’economia e nelle istituzioni. Abbiamo già proposto di vedere uno dei punti di sfaldatura dell’umano contemporaneo nella globalizzazione [9], e crediamo che Kane lo sottoscriva: il suo teatro è il prodotto di un contesto globalizzato e spersonalizzante che frammenta l’individualità fino a ciò che si legge in 4:48 Psychosis. Non solo, la perdita di una meta di valori fissa – di cui il nichilismo è una prognosi importante – sfocia nelle grottesche violenze di quasi ogni personaggio dei drammi: sarebbe riduttivo ricondurre tutto alla malattia mentale.
In conclusione leggere il teatro di Sarah Kane significa infilarsi nel tessuto filiforme della società contemporanea e dell’umano dei giorni nostri, inquietandosi per le smagliature che li caratterizzano. Al contempo, comprendere la sofferenza del soggetto odierno è un’occasione di ricodificarne lo statuto. Per questo dicevamo che in questione, al di là del valore letterario dei drammi, ci fosse la cosa del teatro kaneano. Quella cosa è l’umanità nella perniciosa condizione di scompostezza in cui attualmente riversa. Oggi come mai si deve ripartire dall’umano, in un’epoca di grosse incertezze e grande tristezza; in un mondo spossato che continua a vivere dopo “la fine della storia” [10], nella saturazione soffocante di un’umanità che vive per inerzia disgiungendosi strada facendo.
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[1] Rispettivamente Purificati, Febbre e Psicosi delle 4 e 48 nella traduzione di B. Nativi che stiamo considerando.
[2] Dà man forte a questa tesi l’introduzione di Scarlini, che scrive: “È indubbio che la vita in comune e il degrado esistenziale siano temi comuni nelle sue opere ma […] Il qui e ora di una esistenza sociale disintegrata sono solo aspetti di una problematica del vivere più ampia” (Introduzione in op.cit., pp. VIII-IX).
[3] Cfr. ivi, p. VIII.
[4] Cfr. Z. Williams, Why are we living in an age of anger – is it because of the 50-year rage cycle?, in “The Guardian”, 16 Maggio 2018; dal punto di vista bibliografico, è suggerita la lettura di M. Nussbaum, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr. it. di R. Falcioni, il Mulino, Bologna 2017 e la tanto recente quanto interessante ricerca di F. Palazzi, La politica della rabbia. Per una balistica filosofica, Nottetempo, Milano 2021.
[5] Cfr. Introduzione in op.cit., p. V.
[6] Un altro dei leitmotiv del teatro kaneano è il ruolo della psicoterapia per la cura della malattia mentale. A più riprese, ossessivamente soprattutto in 4:48 Psychosis, Kane sottolinea con una penna di sangue l’incapacità dei dottori di risolvere l’ingarbuglio emotivo dei pazienti. Cfr. S. Kane, Psicosi delle 4 e 48 in op.cit., p. 187; ancora è destabilizzante l’elenco delirante dei psicofarmaci e delle loro proprietà, a voler dire che i φάρμᾰκᾰ inducano all’inabissamento. Cfr. ivi, p. 201.
[7] È il tema centrale di M. Benasayag, Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Feltrinelli, Milano 2018.
[8] Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, op.cit., p. 38.
[9] S. Santamato, Individui bucati e attualità spersonalizzate, in “Scenari”, 5 Maggio 2023.
[10] Già nei primi del Novecento si diffonde questo mito culturale: la storia – perlomeno dell’Occidente – si trova ai titoli di coda. I valori tradizionali tramontano, l’impostazione socio-economica muta radicalmente con l’introduzione della macchina nei luoghi di lavoro, il senso dell’uomo perde i suoi baricentri. La letteratura sul tema è sconfinata, trovandosi al confine tra la filosofia e la letteratura, dunque ci limitiamo a suggerire Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte di O. Spengler (1918-1923), Le sens de l’histoire (1923) e l’Essai de métaphysique eschatologique (1941) di A. Kojève, e infine il noto Über die Linie (1950) di E. Jünger a cui risponderà più tardi, nel 1955, Heidegger; i due testi sono raccolti insieme nell’edizione Adelphi (tr. it. di A. La Rocca, F. Volpi, Oltre la linea, Milano 1989).