In exitu Israel de Aegypto – attorno all’ultimo libro di Jan Assmann

“Prima che la terza Rivoluzione Industriale/Provochi l’ultima grande esplosione nucleare/Prepariamoci per l’esodo/Il grande esodo/Un esodo/Per noi giovani del futuro”, cantava Franco Battiato ne L’esodo, una canzone di più di quarant’anni fa.

In questo lasso di tempo non molto è cambiato, se mai la pertinenza di certi archetipi si è radicalizzata: in quella grandiosa cornucopia di narrazioni che è la Bibbia cristiano-giudaica, il “libro di tutti i libri” secondo Goethe, forse solo l’Apocalisse ha la stessa pregnanza universale e la stessa pan-flessibilità di applicazione a infinite situazioni microscopiche o geopolitiche dell’Esodo veterotestamentario.

Illustrazione: Dall-e Mini/Ludovico Cantisani

Esodo, exodus, ἔξ-οδος: la via d’uscita, la via-fuori-da, ma anche fuori-dalla-via, fuoristrada, far from any road. Mosè che conduce gli ebrei via dall’Egitto, alla Terra a loro o meglio a lui (ri-)Promessa da Dio dopo il lungo esilio egiziano: ex captivitate salus, anche se Mosè, questa Terra Promessa, non la vedrà mai. L’Esodo, il secondo, grande libro dell’Antico Testamento: ancor più enigmatico della Genesi, se è vero che, in tempi diversi della storia dell’ermeneutica occidentale, spiriti magni come Goethe e Freud, tra gli altri, si sono convinti di leggere, tra i versetti del testo biblico, tracce smaccate di un omicidio di Mosè ad opera degli ebrei, poi sublimato nel racconto ambivalente ed enfatico di una sorta di assunzione dal monte Tabo. “Il deserto stimola la fantasia. L’oasi è il giardino per eccellenza. Essa fiorisce lungo i margini del Sinai”, scriveva Ernst Jünger ne La fionda.

È nel deserto che il popolo ebraico trova la sua specificità radicale, le Tavole della Legge, ed è nel deserto che, per la prima volta come comunità, gli ebrei vissero quel rapporto ambivalente, polare e spesso agonale con il loro Dio che, per chi ancora crede, si è riverberato lunga tutta la storia chiaroscura del cosiddetto popolo eletto.

L’ottuagenario egittologo Jan Assmann, che già aveva suscitato controversie ed epifanie accademiche con i suoi due precedenti saggi Mosè l’egizio e La distinzione mosaica, in Esodo tenta il suo corpo-a-corpo definitivo con il testo veterotestamentario, anche a costo di ritrattare alcune delle sue precedenti affermazioni. Pubblicato nel 2015 in Germania, il saggio esce ora in Italia per l’Adelphi all’interno della prestigiosa collana de Il ramo d’oro. L’operazione di Assmann è rigorosamente filologica e intraculturale, riflette sull’importanza archetipica della narrazione biblica concedendosi tutt’al più excursus su come musicisti quali Händel e Schönberg, o i già citati Freud e Goethe, abbiano rielaborato il racconto al cuore del Pentateuco: ma lo sguardo di Assmann, educato ormai da decenni di critica biblica e di studio delle fonti dell’egittologia, rende la sua ultima interpretazione dell’Esodo biblico una clamorosa parafrasi che illumina di uno scorcio raro e nuovo uno dei testi più letti di tutto il patrimonio culturale umano. Forse dietro l’opera della tarda maturità di Assmann non è scorretto leggervi una rielaborazione laica ed accademicamente ineccepibile dell’antica tradizione talmudica del commentario.

Jan Assmann, Esodo, (Adelphi Edizioni, 428 pag, 42€, 2023)

“Il racconto dell’Esodo implica un triplice distacco: dall’Egitto, la quintessenza del vecchio sistema, che bisogna lasciarsi assolutamente e definitivamente alle spalle; dai Cananei, abitanti della Terra Promessa, che praticano una religione falsa ed empia; e dai ‘padri’, ossia dal proprio passato peccaminoso”. Lo stesso percorso simboleggiato dall’Esodo biblico è, verrebbe da dire, quello tracciato da Assmann come interprete del testo sacro: la sua prospettiva certamente non è fideistica, e soprattutto per il saggio del suo exploit, Il Mosè egizio, era stato attaccato per lo più da un ambito clericale. L’approccio di Assmann alle scritture si è sempre proposto di reinterpretarle abbandonando i “padri”, tanto le tradizioni rabbiniche e cristiane quanto le letture più atee e critiche che proprio la Germania ha partorito a cavallo tra Ottocento e Novecento: facendosi scudo dei metodi e della forma mentis di un “egittologo che opera nel campo delle scienze culturale”, come Assmann si è sempre autodefinito, lo studioso tedesco si è immerso via via in profondità sempre più complesse delle scritture sacre della nostra tradizione.

L’Esodo di Assmann è, in quanto punto di approdo di una ricerca tanto lunga, la radicalizzazione e al tempo stesso il superamento di tutto il “sistema” ermeneutico approntato dall’egittologo nei saggi precedenti – un po’ come Vedo Satana cadere come la folgore di René Girard, ma con più autocritica. Il secondo libro della Bibbia viene da Assmann dissodato fino alle sue più minute ambiguità, che ne rivelano le più profonde implicazioni.

Nell’Esodo biblico non è in gioco soltanto il futuro politico e religioso dell’Occidente: il quarantennale cammino del popolo ebraico nel deserto è, per gli ebrei e per l’Occidente intero, il necessario campo di battaglia dove sperimentare una nuova forma di temporalità.

“Agli occhi degli Egizi la storia non è tanto un progetto che si sviluppa in un succedersi di promesse e adempimenti, bensì un processo che, attraverso l’azione plasmatrice della cultura, deve essere sempre in armonia con gli archetipi mitici e va tenuto quindi al riparo dai cambiamenti”, evidenzia Assmann. “Il mito dell’Esodo narra invece dei figli d’Israele che Dio libera dalla servitù egizia e sceglie fra tutti i popoli per realizzare con loro il progetto di una società giusta. È difficile immaginare una differenza più grande”.

È nel deserto che nasce la Storia come la conosciamo adesso, e che il popolo ebraico scopre tanto la trascendenza della divinità quanto il divenire delle cose del mondo; ma il deserto è, per gli ebrei del Libro, anche un apprendistato alla verità, e un apprendistato a una verità a tratti ben più violento di quanto la sensibilità moderna sappia apprezzare. “Mosè significa monoteismo, su questa semplice formula si troveranno rapidamente d’accordo ebrei, cristiani e musulmani”, scrive Assmann, e qui l’egittologo si ricollega alle sue tesi più note, quelle che sul finire dello scorso millennio gli provocarono lo sdegno dei credenti. “Al nome di Mosè si collega la proclamazione normativa dell’unico Dio, normativa nel senso di un’inderogabile esclusività e di una rigorosa distinzione fra l’unico vero Dio e i molti ‘altri’ dèi, stranieri, proibiti, falsi, inventati. Ricordare Mosè significa ricordare la distinzione di cui stiamo parlando, comunque essa venga a raffigurarsi muovendo dalle angustie e tribolazioni di un qualsivoglia presente: la distinzione tra fedeltà e tradimento, libertà e servitù, giustizia e ingiustizia, puro e impuro, ordine e assenza di legge, civiltà e barbarie, sensualità e spiritualità oppure verità e non-verità”. Di qui il dovere assoluto di non mischiarsi con i cananei e gli altri popoli idolatri, ma di qui anche una delle maggiori ambiguità di tutta quanta la Bibbia, su cui Assmann più volte torna a riflettere: per come Dio parla lungo tutto il libro dell’Esodo, per lo sdegno con cui Dio reagisce tutte le volte che il popolo variamente lo tradisce, il testo biblico non sembra tanto prospettare un monoteismo ontologico; semplicemente c’è un Dio che pretende dal suo popolo una fedeltà esclusiva, il che non inficia, e se mai rafforza, l’idea che esistano altri dèi e altri spiriti.

Illustrazione: Dall-e Mini/Ludovico Cantisani

Ma come Assmann stesso riconosce nelle ultime pagine del volume, nella storia dell’Esodo non si sono identificati soltanto gli Ebrei, ma dozzine di popoli che, in momenti variegati delle rispettive storie nazionali, hanno dovuto ideologizzare la propria lotta per la liberazione: dai tedeschi luterani in lotta con la Chiesa di Roma agli americani pre-1776, dai puritani di Cromwell al Civil Rights Movement, passando per i molti popoli africani che si sono affrancati dal colonialismo europeo negli ultimi due secoli, per non parlare dei teologi della liberazione in America Latina. “Nella sua dimensione politica”, evidenzia Assmann, l’esodo “si presenta come distacco violento e rivoluzionario dal sistema politico delle monarchie sacralizzate dell’antico Oriente e come nascita di Israele, il popolo eletto di Dio nel senso di una forma totalmente nuova di associazione politica”. E nell’Esodo non c’è solo quel passo rivoluzionario e anche assassino che fu la teologizzazione del diritto, da intendersi come “l’idea di intendere Dio non solo come giudice e garante del diritto, ma anche come legislatore”: il secondo libro della Bibbia sorprende anche perché, dopo le varie epifanie individuali di Dio a Mosè dal roveto ardente fino al Sinai, racconta di una sottoscrizione collettiva, consapevole e paradossalmente anche libera del Patto tra la comunità ebraica e JHWH, lasciando quasi scorgere segni di democratismo ante litteram.

E particolarmente interessante è rilevare come la narrazione dell’Esodo è stata fatta propria da alcuni popoli africani in lotta contro il colonialismo: qui è l’immaginario occidentale che lotta contro le proprie stesse logiche del dominio, un Occidente scisso tra l’istanza della libertà e l’ideale della conquista – dissidio presente al cuore dello stesso Esodo e del Pentateuco tutto, sospeso tra la fuga dalla schiavitù d’Egitto e la guerra di conquista e di sterminio contro i popoli che vivevano a Canaan.

Ma dietro l’Esodo non ci sono soltanto le implicazioni religiose e politiche che ne hanno eternato il racconto, né il secondo libro della Bibbia è “soltanto” il turning point della concezione della Storia e della natura all’interno del pensiero occidentale: la progressio raccontata dalla Bibbia nel libro dell’Esodo raggiunge questioni esistenziali per non dire ontologiche. L’idea stessa di esodo, di uscita, il trittico dell’esilio-pellegrinaggio-rientro si presta ad applicazioni simboliche riscontrabili nella vita di ciascuno, come anche l’ultimo libro di Assmann evidenzia bene. Esodo, estasi ed esistenza stessa sono parole imparentate non solo per la comune particella ex-, ma formano una costellazione semantica tipicamente biblica, ma dalla portata universale.

Incipit exire qui incipit amare, garantiva Agostino, e anche Kant, nel definire l’Illuminismo “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è responsabile”, rimodulava il simbolismo dell’Esodo in chiave di metacritica della filosofia occidentale. Nel Purgatorio di Dante, le anime che approdano alla spiaggia della penitenza intonano il Salmo 113, In exitu Israel de Aegypto, ma allo stesso incipit del salmista si è rifatto anche Giovanni Testori per scrivere uno dei suoi testi più radicali, il monologo di un giovane drogato che affronta gli ultimi momenti della propria esistenza in un angolo della Stazione.

Per non parlare di un’idea che si insegue lungo tutta l’opera di Heidegger, il motivo dell’esistenza come uscita, fuga, esposizione: “ex-sistere significa ‘uscire-fuori’, ‘ex-por-si a’”; “non tutti gli uomini che sono reali, che realmente ci sono stati e ci saranno, ‘esistono’, sono esistiti o esisteranno nel senso in cui noi intendiamo l’esistenza”; “noi infatti usiamo questa parola in un senso che ne fa emergere al tempo stesso il significato radicale”; esistere diventa allora uno “scaturire fuggendo via”,  e la vita stessa assume così la sfumatura di un Esodo, di una fuga dalle seduzioni e dalle illusioni dell’infanzia attraverso il deserto dell’età adulta, fino all’approdo accidentato in una Terra Promessa che non a tutti è dato vedere – il malinconico destino di Mosè sul monte Nebo è un rischio onnipresente di naufragio che incupisce ulteriormente l’aridità del deserto.

“Il deserto si estende: guai a colui che in sé nasconde deserti”, sciamanò una volta Nietzsche. Più sommesso ma ancora più brutale è stato il filosofo americano Michael Walzer quando sancì questa minima verità: wherever you live, it is probably Egypt. È innanzitutto nella severità del quotidiano che l’Esodo continua ad echeggiare.


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