Le porte agiscono profondamente negli spazi in cui viviamo, consentendo il loro consentendo o negando l’accesso a un determinato ambiente.
Tali dispositivi sono stati pensati come strumenti di controllo fisico e sociale che agiscono sullo spazio dei luoghi che tutti noi abitiamo.
Alleate silenziose – o nemiche ineffabili – della vita quotidiana, le porte tendono a sparire dalla nostra vista, a rendersi invisibili. Ma cosa ci raccontano le porte e come ci condizionano nella vita di tutti i giorni?
Su Scenari pubblichiamo un estratto dal saggio di Gianluca Burgio Della porta. Indagine su un oggetto ordinario (Meltemi Editore, 140 pag., 14 €, 2023).
. Il dispositivo porta
Sant’Agostino in De Civitate Dei così si esprime sull’articolato insieme di divinità messe dalla religione romana antica a guardia delle porte:
Un solo portinaio si pone nella propria casa ed è sufficiente poiché è un uomo: invece essi posero tre dei, Forcolo alla porta di fuori, Cardea al cardine e Limentino alla soglia. Si vede che Forcolo non poteva sorvegliare contemporaneamente il cardine e la soglia.1
Le ironiche osservazioni di Agostino sull’organizzazione delle divinità pagane che proteggono gli accessi alle case, al di là del dato relativo alla religione romana, raccontano di come i Romani percepissero la porta in quanto meccanismo articolato, i cui componenti erano separatamente presieduti da diverse entità sacre. I romani, evidentemente, non erano per niente moderni (cfr. Latour, 1991; tr. it. 2018), e mescolavano insieme credenze, religione, tecnologie e materialità per dare corpo a oggetti come la porta.
La narrazione del santo di Ippona offre la possibilità di introdurre alcuni fatti preliminari; infatti, prima di entrare nelle questioni più intime relative alle funzioni e ai simboli della porta, sembra opportuno definire questo particolare oggetto con maggior dettaglio: in effetti, quello che intendiamo per porta è un dispositivo di natura meccanica, non molto complesso, formato da più elementi: un telaio, a sua volta composto da stipiti e architrave; uno o più battenti, in funzione della dimensione dell’apertura; una serratura manovrata in genere da una maniglia e da una chiave; l’apertura stessa, che rappresenta una soluzione di continuità in una parete; la soglia che costituisce la zona di passaggio, la superficie di transizione tra ambiti diversi; e, infine, i cardini o cerniere, che consentono al battente di chiudere o aprire il vano entro il quale si trova collocato.
Nella consuetudine del linguaggio corrente, spesso il battente è identificato con la porta stessa; l’espressione chiudere i battenti è equivalente a chiudere le porte. Per brevità, si tende a non precisare che è il battente a occludere o a liberare il passaggio attraverso il vano dell’apertura: la porta, nel linguaggio quotidiano, è chiusa o aperta tout court. Tutto il dispositivo è chiuso o aperto, a prescindere da quale parte del dispositivo stia agendo per compiere l’azione. La porta come dispositivo ha una forza totalizzante nel linguaggio comune e fa andare oltre il ruolo che rivestono le diverse componenti: è tutta la porta ad essere istoriata, ad esempio, anche se in realtà sono solo i battenti ad esserlo.
. Il progetto delle porte
Quanto già detto e parte di quello che si dirà più avanti potrebbe essere efficacemente sintetizzato dalla presentazione di un progetto svedese, mirabile nell’uso sapiente che fa della porta. La Cappella della Resurrezione di Sigurd Lewerentz2, presso il cimitero di Stoccolma, si presenta come un’austera architettura dalle sembianze classicheggianti.
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In questo edificio si celebrano le esequie dei defunti. Il percorso che porta alla Cappella ha già in sé una dimensione liturgica: un cammino in lieve pendenza, segnato dall’ombrosa presenza di un doppio filare di alberi, che si conclude nel protiro colonnato che dà accesso alla Cappella. Il protiro è posizionato sulla parte destra della facciata, e ha la peculiarità di avere una leggera rotazione in pianta – invero assai inconsueta – tale da non essere allineato con il fronte della Cappella stessa. Esso annuncia la porta, la cui soglia si protende in questo spazio coperto, che è non ancora un dentro, ma non è neanche un fuori. La sua rotazione costringe colui che entra, a passare attraverso la porta, a ruotare la spalla destra verso sinistra: in tal modo, lo sguardo di chi entra sarà investito dalla luce dell’unica finestra di tutta l’opera, che si trova nel lato diagonalmente opposto a quello della porta. Non occorre spiegare il valore simbolico di questi artifici architettonici progettati da Lewerentz, funzionali ad aumentare la drammaticità dello spazio sacro. Il passaggio attraverso la porta non è dunque neutro: anzi, l’architetto svedese ne amplifica gli effetti spaziali, che aumentano il contenuto esperienziale dell’architettura e ha un’azione diretta sul corpo del fruitore. Lewerentz lavora con protiro ruotato3, con una soglia ampliata, e con una porta che si relaziona con l’unica finestra dell’edificio in maniera non del tutto consueta.
. Porte che confinano
Zygmunt Bauman introduce il terzo capitolo, denominato “Tempo/Spazio“, del suo testo Modernità liquida, facendo riferimento alla realizzazione di una sorta di comunità residenziale chiusa nei pressi di Cape Town, in Sudafrica (cfr. Bauman, 2000; tr. it. 2010, p. 99 e ss.). L’ideatore di questa comunità, denominata Heritage Park, fu un architetto, George Hazeldon, il quale costruì una città ideale protetta dalle insidie che provengono dall’esterno e, quindi, dal sentimento di insicurezza che sempre più si diffonde tra gli abitanti, soprattutto delle grandi città. Heritage Park è una cosiddetta gated community, cioè una comunità privata, recintata da mura e chiusa da un cancello, nella quale abitano pochi cittadini, generalmente delle classi medio-alte.
Questi piccoli borghi di matrice anglo-americana, che sempre più spesso si costruiscono all’interno delle grandi città, si stanno diffondendo in molte parti del mondo, e soprattutto nelle metropoli di stati come per esempio Cina, Brasile o Stati Uniti, in cui la conflittualità e il divario sociale ha raggiunto livelli altissimi. Tali comunità sono chiuse e l’accesso è permesso solo dietro autorizzazione: i residenti all’interno della community devono informare le guardie – frequentemente armate – che vigilano gli accessi nel caso in cui volessero ricevere un ospite il quale, a sua volta, dovrà farsi identificare. La porta di una gated community funziona come un accesso di frontiera: il passaggio, l’attraversamento della soglia è consentito solo a chi è ri-conoscibile e identificabile.
La porta qui è limite netto: il dentro e il fuori sono diversi e tali devono essere affinché la porta abbia senso. Infatti, una porta perde significato nello stesso momento in cui i due spazi che vuol dividere in realtà non possono o non devono essere divisi e non devono manifestare la loro differenza. Quante volte abbiamo visto o abbiamo direttamente vissuto l’esperienza dell’abbattimento di una porta all’interno di un appartamento; in quel momento si decreta la fine di una separazione: gli spazi da quel momento comunicano senza mediazione o, per lo meno, il potere di mediazione della soglia, come spazio di transizione è molto ridotto. Si riformula la partizione del sensibile e cambia il ruolo politico della porta.
Le gated community hanno reintrodotto una modalità urbana premoderna che consisteva nel chiudersi all’interno di un ambito costruito fortificato con finalità difensive. In realtà, capitava altresì che una comunità decidesse di costringere un altro collettivo entro confini limitati e interni alla stessa città: si pensi al caso dei ghetti ebraici, chiusi da porte invalicabili a partire dalle ore vespertine. Nell’uno e nell’altro caso si trattava pur sempre di una modalità esclusiva; gruppi poco graditi, interni o esterni, venivano esclusi dall’ambito entro il quale alcuni cittadini – in grado di imporre le loro scelte – decidevano di vivere e di trattenere relazioni sociali.
Le città spesso si sono dotate di mura e di porte che guardavano all’esterno; ma sempre, anche in assenza delle prime, esse hanno avuto porte interne e tali porte sono state la materializzazione fisica dei confini, degli ambiti, delle divisioni, delle controversie, e anche fondamento dell’identità e della riconoscibilità di una parte di città. Gli elementi fisici di separazione e transizione, quali le porte, hanno segnato così le differenze tra luoghi, come nel caso dei ghetti: da un lato la città che in virtù del potere politico si considera normale; dall’altro, gli altri abitanti della stessa città, i quali in quanto portatori di alterità, vivono in uno spazio che è diverso per la natura di coloro che lo abitano.
Le porte dei ghetti segnavano un confine spaziale, ma anche un confine temporale dal momento che esse potevano essere valicate fino a una certa ora del giorno, oltre la quale il transito era assolutamente proibito. Detto in altri termini, questi passaggi che segnano il limite possono essere considerate delle porte ope legis, in quanto esistono perché è la legge della città che ne decreta l’esistenza e la funzione4.
Si scorge qui un tema che sembra particolarmente interessante e che conferma la dimensione politica delle porte, e cioè la relazione tra la norma giuridica e la sua materializzazione di pietra. Infatti, i decreti urbani che determinavano la costituzione dei ghetti si materializzavano in opere concrete, con una loro architettura riconoscibile e che traeva ancora più forza proprio dal suo fondamento normativo, riconosciuto e accettato – almeno da coloro che dominavano la società e da coloro che questo dominio accettavano o erano costretti a subire.
Riporto qui un breve passo dell’atto legislativo, risalente al 7 gennaio del 1730, che va sotto la denominazione di Bando di Violante di Baviera e che regola i confini tra le Contrade senesi5. Esso pare interessante giacché disegna una mappa concettuale del territorio appartenente ad una contrada (nel caso specifico la Tartuca6), che coincide con una serie di elementi fisici – le strade, le piazze e gli edifici – la cui continuità è rotta dalla presenza di passaggi (le porte, gli archi) che si costituiscono quali elementi-soglia, oltre i quali si entra o si esce dallo spazio della contrada per accedere ad altro luogo:
Tartuca n.3 – Dall’ospizio di S.Lucia esclusive comprenda la strada dell’Ellera da ambe le parti, convento, chiesa e piazza di S.Agostino, convento e case de Padri della Rosa e tutta la strada fino a porta Tufi. Dall’arco di S.Agostino prenda solo a man sinistra ed occupi da ambe le parti la via de Maestri, siccome la via delle Murella fino all’arco delle monache di Castelvecchio, comprendendo la via di Castelvecchino e Castelvecchio e scendendo per la costa in faccia alla chiesa di S.Pietro termini alla crociata di dette tre strade dette della Porta all’Arco, attenendosi in detta crociata solo a man destra.
Lo scopo del bando della principessa e della precisazione dei confini era dettato dal fatto che il potere civile senese tendeva a comporre “le pericolose e dispendiose liti insorte tra gli abitanti” delle contrade, segnando con esattezza gli accessi e quindi i limiti spaziali di queste porzioni di territorio urbano.
I segni sulla mappa erano, dunque, il risultato di una negoziazione tra interessi divergenti – se non addirittura opposti – in cui le porte insieme ad altre entità si ponevano come mediatori delegati.
. Strategie di porte
L’organizzazione dello spazio architettonico dipende in modo decisivo dal posizionamento delle porte. La distribuzione delle aperture permette il dispiegarsi delle relazioni tra le parti di un edificio. Gli architetti assumono un comportamento determinante quando decidono come e dove collocare le porte; da queste decisioni, che risultano strategiche, dipende il funzionamento degli ambienti in sé e dipende il funzionamento degli ambienti tra di essi.
Un gruppo di ricerca catalano denominato Habitar ha dedicato particolare attenzione al valore delle porte(cfr. Habitar, 2011, pp. 179-219).
Gli studiosi catalani hanno analizzato le strategie progettuali che si possono realizzare, proprio attraverso l’uso intelligente delle porte, per il riuso dell’architettura. La capacità relazionale che esprime il dispositivo-porta7 è un punto cruciale per il progetto architettonico e, dunque, può essere utile a ripensare la trasformazione dello spazio vissuto attraverso una concezione diversa8. L’obiettivo è quello di rileggere il modo di fare architettura. Secondo questi ricercatori, infatti, la pratica dell’architettura è un processo in fieri che non si conclude con la realizzazione dell’opera architettonica. I fatti e gli eventi che caratterizzano lo spazio sono il prodotto di una sedimentazione inclusiva, in cui non si getta ciò che non serve per ripartire da zero; al contrario, si riutilizza l’esistente in una sorta di pratica del bricolage9:in fondo, si tratta di ricomporre pezzi di spazio che – come gli avanzi in cucina – servono a dar vita a una nuova organizzazione spaziale, a una nuova ricetta architettonica.
Siamo in presenza di astuzie progettuali, di azioni di ri-conquista dello spazio architettonico in cui le porte hanno un importante valore tattico e strategico. A corroborare quest’idea di strategie progettuali che modificano lo spazio, sembra utile rileggere Michel de Certeau, che ne L’invenzione del quotidiano (1980; tr. it. 2012), spiega quali siano e come funzionino le cosiddette “Pratiche di spazio”10. Lo spazio – e, più in generale, il quotidiano – è territorio di conquista da parte di quelli che de Certeau chiama utenti i quali, con le loro “combinatorie di operazioni” (de Certeau, 1980; tr. it. 2012, p. 6), inventano il quotidiano “attraverso mille forme di bracconaggio” (ibidem).
L’arte combinatoria, o meglio ri-combinatoria, proposta da Habitar per l’organizzazione dello spazio architettonico attraverso l’uso strategico delle porte è una forma di re-inventare gli ambienti nei quali viviamo, e l’architettura può essere reinventata attraverso un sapiente e opportuno modo di collocare le porte, come nell’esempio di Lacaton e Vassal (Habitar, 2011, p. 184) in cui, i due architetti francesi rielaborano il sistema abitativo di un blocco della periferia francese attraverso la re-distribuzione di porte e pareti.
Questa modalità di pensare il progetto architettonico ha una forte attinenza con ciò che i Greci chiamavano metis, un concetto che può essere spiegato come una forma di intelligenza pratica, grazie alla quale l’uomo riesce proteicamente a adattarsi alle circostanze ma anche a dominarle, volgendo così a suo favore gli eventi e lo spazio che lo circondano. Così la spiegano Detienne e Vernant in un passo de Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia:
La metis è una forma di intelligenza e di pensiero, un modo del conoscere; essa implica un insieme complesso, ma molto coerente, di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali che combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la capacità di trarsi d’impaccio, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità, l’abilità in vari campi, un’esperienza acquisita dopo lunghi anni; essa si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso11 (Detienne, Vernant, 1974; tr. it. 1999, p. XI).
Le porte si configurano come congegni flessibili che – grazie anche alla loro mobilità – dànno vita a complesse articolazioni degli spazi. La maniera di progettare la loro esistenza negli organismi architettonici può essere guidata, dunque, da una sorta di metis. Nel momento in cui ci troviamo a dover riusare spazi esistenti si applicano, in fondo, degli stratagemmi progettuali che conducono alla soluzione più adeguata. L’uso astuto delle porte permette di aumentare l’ambiguità12 spaziale dello spazio architettonico; e in questo caso l’ambiguità ha un’accezione positiva in quanto è intesa come possibilità di leggere in più direzioni gli spazi e, quindi, di aumentarne le possibilità d’uso.
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. Il peso delle porte
Un dato fondamentale che spesso ignoriamo, o che sottovalutiamo, è inerente alla materialità della porta e, più nel dettaglio, al peso reale o apparente che essa trasmette. La dimensione delle porte, il materiale con cui sono costruiti i battenti, i sistemi che presiedono all’apertura/chiusura, comunicano una precisa sensazione fisica e, nella maggior parte dei casi, indicano una modalità d’uso e di relazione con esse: questi elementi prefigurano la quantità di sforzo che sarà necessario per spingere i battenti; immaginiamo quale sarà il movimento dei battenti; prevediamo come avverrà il passaggio attraverso di esse. Se da un lato le porte possiedono una sorta di aura di mistero e di carica simbolica, dall’altro sono oggetti la cui affordance risulta immediata per tutti i potenziali utenti; difficilmente, infatti, ci troviamo dinanzi a una porta di cui non intuiamo l’uso: le maniglie, la posizione dei cardini, la consistenza dei battenti ci suggeriscono subito come relazionarci ad essa. Sappiamo chiaramente distinguere una porta pesante da una leggera immaginando lo sforzo necessario per aprirla; comprendiamo se essa ci faciliterà l’accesso o lo renderà difficoltoso: si pensi, ad esempio, alla facilità di accesso che annunciano le porte scorrevoli e trasparenti dei centri commerciali.
Lo sforzo che le porte preannunciano con il loro aspetto non di rado è commisurato alla simbolizzazione a cui esse rimandano. Esse hanno una valenza metaforica che si esprime anche attraverso la loro levità o il loro peso. Infatti, le porte che si aprono all’inizio dei giubilei, si spalancano non senza sforzo, in quanto faticoso è il loro attraversamento che conduce alla santificazione. D’altra parte, un negozio, per comprensibili e legittimi interessi commerciali, porrà all’accesso una porta di vetro e, se possibile, i battenti non saranno incardinati ma automaticamente scorrevoli: in quel caso il nostro corpo non avrà nessuna relazione fisica diretta con il dispositivo di accesso che si attiverà non appena ci avviciniamo; la porta qui si smaterializza, perde peso: non è essa a essere importante, anzi, col suo rendersi evanescente, col suo farsi da parte, deve far sì che il passaggio sia fluido, quasi immediato e privo di interrogativi.
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1 “Unum quisque domui suae ponit ostiarium, et quia homo est, omnino sufficit: tres deos isti posuerunt, Forculum foribus, Cardeam cardini, Limentinum limini. Ita non poterat Forculus simul et cardinem limenque servare” (Agostino, De civitate Dei, IV, 8, 11).
2 Per un approfondimento su questa e altre opere dell’architetto scandinavo, si consulti il libro di Flora, Giardiello e Postiglione dal titolo Sigurd Lewerentz (Flora, Giardiello, Postiglione, 2001).
3 Se appare abbastanza chiara la funzione costrittiva della rotazione del protiro, non così è per il possibile significato simbolico che questa strategia di movimento potrebbe assumere. Eppure, sappiamo che Lewerentz riponeva grande attenzione nella simbologia religiosa, tanto da mostrare una religiosità rigorosa nell’uso del mattone intero nella Chiesa di San Pietro a Klippan, quale simbolo dell’unità divina e, in generale, all’intrinseco significato liturgico delle sue architetture sacre. Allora, è forse possibile avanzare un’ipotesi: la chiusura della Cappella, attualizzazione del Santo Sepolcro, ripete anch’essa la pietra/porta di quest’ultimo, che viene spostata/ruotata nel momento della resurrezione di Cristo: “Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa” (Matteo, 28, 2).
4 cfr. infra il paragrafo Confine/limite, nel quale si fa riferimento ai confini de re e a quelli de dicto.
5 cfr.: http://www.ilpalio.siena.it/InfoContrade/Confini.aspx
6 Si è scelto l’esempio della Tartuca perché il passo che ne descrive i confini è tra i più completi e ricchi di riferimenti a elementi spaziali utili a comprendere il ruolo politico e normativo delle porte e dei limiti urbani.
7 “[las puertas] son la expresión de un uso; no tanto por lo que tienen de artilugio, sino por la capacidad de poner en relación, de dar paso o cerrarlo, de unir o separar ambientes, de dejar ver o de ocultar e incluso, por su misma condición móvil, de hacer cualquiera de estas cosas a medias o con matices” (Habitar, 2011, p. 181).
8 “El aprovechamiento tiene consecuencias que alcanzan al modo de proyectar. Una de ellas es la manera de concebir el proyecto como el instrumento que hace posible añadir algo a lo que ya existe, y que constituye el punto de partida de nuestro trabajo. Algunas veces, lo que calificamos de preexistencia extraña algo más complejo, y el proyecto debe limitarse a añadir capas, a superponer. Aprovechar pues, implica rechazar la idea de empezar de cero y obliga a pensar el proyecto de arquitectura en términos de proceso. Un proyecto de arquitectura en nuestro presente es algo parecido a una capa sobre algo que ya existe, a la que se añadirán otras capas. No tirar, sino incluir, parece un comportamiento más acorde con los tiempos” (Habitar, 2011, p. 8).
9 L’idea di bricolage come fatto culturale ha origine dagli studi di Claude Lévi-Strauss. Riportiamo la descrizione del bricoleur: “Le bricoleur est apte à exécuter un grand nombre de tâches diversifiées; mais, à la différence de l’ingénieur, il ne subordonne pas chacune d’elles à l’obtention de matières premières et d’outils, conçus et procurés à la mesure de son projet: son univers instrumental est clos, et la règle de son jeu est de toujours s’arranger avec les ‘moyens du bord’, c’est-à-dire un ensemble à chaque instant fini d’outils et de matériaux, hétéroclites au surplus, parce que la composition de l’ensemble n’est pas en rapport avec le projet du moment, ni d’ailleurs avec aucun projet particulier, mais est le résultat contingent de toutes les occasions qui se sont présentées de renouveler ou d’enrichir le stock, ou de l’entretenir avec les résidus de constructions et de destructions antérieures. L’ensemble des moyens du bricoleur n’est donc pas définissable par un projet (ce qui supposerait d’ailleurs, comme chez l’ingénieur, l’existence d’autant d’ensembles instrumentaux que de genres de projets, au moins en théorie); il se définit seulement par son instrumentalité, autrement dit et pour employer le langage même du bricoleur, parce que les éléments sont recueillis ou conservés en vertu du principe que ‘ça peut toujours servir’” (cfr. Lévi-Strauss, 1962, p. 26 e ss.).
10 L’invenzione del quotidiano è un testo complesso che analizza le cosiddette ‘arti del fare’. In esso troviamo alcune serratissime e coltissime riflessioni sull’organizzazione del quotidiano che Paola Di Cori così sintetizza nella sua postfazione al libro: “Il messaggio è chiaro: il nocciolo della vita quotidiana nella tarda modernità è fatto di transiti, di ripetuti passaggi attraverso i luoghi – dentro fuori, in su e in giù. Un saliscendi continuo, caratterizzato dall’uso sfrenato di porte girevoli che ambiguamente collegano e separano, aprono e/o chiudono interno ed esterno […]. Così è caratterizzato l’insieme di attività che ogni giorno esplica che abita, lavora e si muove in città […] il quotidiano (non) è (che) questo: l’ordinario è il risultato dell’accumulo di consuetudini rituali a costituire una trama intessuta di sforzi fisici, tensioni psicologiche, difficoltà continue da superare, noia; ma anche dimensione che all’improvviso si apre su uno spazio ricco di inaspettate occasioni, dove poter esercitare creatività e immaginazione. Come insegnano da oltre un secolo la riflessione teorica e le arti. E anche i passanti, la gente di strada, l’uomo comune (insieme alle donne) – destinatari dichiarati dell’opera di Certeau” (Di Cori, 2012, pp. 290-291).
11 Detienne e Vernant in questo passo, pur descrivendo un quadro generale della metis relativo alla cultura della Grecia antica, colgono alcune caratteristiche che sono insite alle attività progettuali e alle loro modalità di raccogliere e ordinare le esperienze, le quali spesso non possono essere oggetto di misure precise o di calcoli esatti, ma sono caratterizzate da un approccio più flessibile, più da bricoleur.
12 cfr. infra Capitolo 4 il paragrafo Ambiguità/duplicità