Andrea Pagani, insegnante di Letteratura, collaboratore di Zanichelli e di Università Aperta Imola, è autore di numerose pubblicazioni saggistiche su autori del Cinquecento, del Seicento e del Novecento come Tasso, Basile, Garzoni, Calvino, Proust, Joyce, Fenoglio, Buzzati, Manganelli.
Ha recentemente dato alle stampe il romanzo Il giardino d’acqua (Ronzani Editore, 2022), che racconta del celebre incontro tra James Joyce e Marcel Proust all’Hotel Majestic di Parigi la sera del 18 maggio 1922.
Ludovico Cantisani lo ha intervista per Scenari.
Quando è iniziato per te l’interesse per due “mostri sacri” della letteratura novecentesca del calibro di James Joyce e Marcel Proust?
Ho cominciato a “frequentare” questi due giganti della letteratura nella mia giovinezza: precisamente Proust ai tempi del liceo (ho avuto la “folgorazione” all’età di 15 anni, quando m’imbattei nell’episodio della madeleine nella traduzione di Natalia Ginzburg)e Joyce, qualche anno più tardi, al primo anno di università, cui seguì immediatamente un altrettanto folgorante viaggio a Dublino. Da quel momento non li ho più abbandonati. Hanno accompagnato tutte le successive fasi della mia vita, come due preziosi amici, fedeli e insostituibili.
Com’è nata l’idea di romanzare il loro celebre incontro datato 1922?
Quando ho cominciato a collaborare con l’Università di Bologna, ho scritto alcuni articoli su riviste, per Longo editore e Bononia University Press, e testi saggistici, in particolare su Joyce, un libro dal titolo Il cammino di Bloom edito da Pàtron). Così, è arrivato un momento, tre anni fa, in cui ho sentito di dover rendere omaggio ai due scrittori, in forma narrativa, in un libro a metà strada fra la creatività romanzesca e il saggio, prendendo spunto dal loro leggendario incontro, a Parigi, all’Hotel Majestic, il 18 maggio 1922, in occasione della prima del Renard di Stravinskij, allestita dalla celebre compagnia dei Balletti russi di Sergej Pavlovič Djagilev. Quell’incontro nutriva per me qualcosa di magico e simbolico, estremamente seducente, non solo per la data, anno dell’uscita dell’Ulisse e della morte di Proust, ma anche perché radunava una schiera fenomenale di personalità. Vi partecipò infatti una foltissima schiera di intellettuali come Pablo Picasso, Igor Stravinskij, Sergej Pavlovič Djagilev, Marcelle Meyer, Bronislava Nijinska, Vera Trefilova, Olga Khokhlova, Clive Bell, Winnaretta de Polignac, Léon Delafosse, i coniugi Schiff, ricchi mecenati e organizzatori dell’evento, e molti altri. In piena chiave scaramantica e simbolica, ho insistito con l’editore Ronzani per far uscire il libro il 18 maggio 2022, a cento anni esatti da quella prodigiosa serata.
Quali fonti hai utilizzato per ricostruire i dialoghi e la lista dei presenti in quella serata leggendaria all’Hotel Majestic?
Pur nell’uso della fantasia, nel descrivere dialoghi e situazioni narrative, ho cercato di ricostruire la vicenda su un robusto fondamento scientifico, come riportato nella bibliografia finale. Esistono due indispensabili fonti per ricostruire la serata al Majestic: il saggio di Stephen Klaidman Sydney and Violet: Their Life With T. S. Eliot, Proust, Joyce, and the Excruciatingly Irascible Wyndham Lewis del 2013, ma soprattutto il libro di Richard Davenport-Hines Una notte al Majestic. Proust e la Cena modernista del 1922, traduzione di Giuseppe Bernardi, ed Sylvestre Bonnard, del 2009. Poi naturalmente si trovano spunti e riferimenti nelle biografie di Proust e Joyce, ossia quelle di George D. Painter, di Jean-Yves Tadié, di Richard Ellmann, di John McCourt, di Luciano de Maria.
Nel tuo romanzo, quando “entriamo” nella mente di Joyce assistiamo a veri e propri flussi di coscienza che un po’ occhieggiano certi celebri paragrafi del suo Ulisse; allo stesso modo la descrizione del contesto generale, e la prospettiva di Proust su quel che accade all’Hotel Majestic, lasciano volutamente pensare a certo periodare della Recherche. In quale momento della composizione del romanzo hai pensato di avvicinarti, sia pure cautamente ma pur sempre mimeticamente, allo stile dei due maestri?
Ottima osservazione! In effetti il libro è costruito a capitoli alterni, e per ogni capitolo ho rappresentato il punto di vista dei due protagonisti, Proust e Joyce, e quindi il loro modo di periodare e di scrivere. Ho cioè mutuato, in modo esplicito ed evidenziandoli col corsivo, certi passaggi delle loro opere – non solo i capolavori, ma anche le lettere, le interviste e testimonianze dei conoscenti, e alcune opere “minori” – , mimetizzando così il loro lessico e la loro sensibilità. Un’operazione che ho cercato di condurre con grande cautela, umiltà e rispetto, in un atteggiamento di reverenziale soggezione verso di due scrittori.
Nonostante l’incontro fra Proust e Joyce, tanto atteso, sia stato in buona sostanza una delusione, nel libro sembra configurarsi una sorta di vicinanza fra i due, o almeno si cercano gli elementi di analogia fra i protagonisti.
È vero. Ho cercato, nei vari capitoli alterni, ossia i capitoli dispari dedicati a Proust, e i capitoli pari dedicati a Joyce, di individuare i profondi elementi di convergenza fra i due scrittori. Appartengono entrambi a quel vasto e complesso movimento letterario che viene denominato “modernismo”, che è una corrente molto articolata, un universo con infinte sfaccettature diverse, sia in ambito letterario, ma anche musicale e pittorico. Per cui, certamente, Proust e Joyce, per quanto esponenti di questa nuova corrente d’avanguardia modernista, presentano stili e tematiche diverse. Eppure, nei loro capolavori si possono riconoscere diversi aspetti di vicinanza: anzitutto l’ironia. Entrambi sanno osservare il mondo, i salotti mondani o la società dublinese, con uno slancio divertente e ironico, comico e dissacrante, senza mai giudicare negativamente i personaggi, ma anzi, osservandoli con grande partecipazione e comprensione, eppure con un atteggiamento caustico. L’altro elemento di convergenza è, senz’altro, la complessità strutturarle delle loro opere: impianti di sontuosa architettura e intelaiatura compositiva. Proust spesso associava la Recherche ad una cattedrale gotica, per la maestosità del disegno strutturale. E questo paragone penso si possa associare anche all’Ulisse di Joyce, a giudicare peraltro dalla lettera che lo scrittore scrisse a Linati in cui allega lo schema preciso del suo capolavoro. Un terzo elemento di convergenza può essere, come in parte ho già detto, l’aspetto, per così dire, “democratico” dei loro lavori: l’atteggiamento che l’autore mostra d’avere nei confronti dei personaggi non è mai giudicante, polemico, distruttivo. Dietro l’ironia con cui i due autori osservano il mondo c’è sempre comprensione, empatia, pietas. E probabilmente è questo il motivo che fa di questi due giganti della letteratura la loro attualità intramontabile, il fatto che siano ancora oggi letti con grande passione da milioni di lettori e anch’io, nel mio modesto contributo, ho cercato di rilevare questi aspetti di convergenza dei loro capolavori.
Il tuo romanzo racconta dell’incontro tra Joyce e Proust, ma il titolo fa riferimento al “giardino d’acqua” del paesino normanno di Giverny ripetutamente ritratto da Monet. Come mai hai pensato a questo titolo?
Il titolo rimanda ad una particolare estetica di Monet, che ho ritrovato, pur in forme diverse, nelle opere di Proust e Joyce, ma anche di Virginia Woolf, ampiamente citata nel libro: e cioè la volontà di “catturare l’attimo”, quello che la Woolf definiva il moment of being, il momento dell’essere. Il “giardino d’acqua” di Monet simboleggia questa filosofia: un sogno acquatico che Monet nutriva da sempre, dove sul bacino fluviale, nel punto di confluenza fra la Senna e il breve affluente Epte, si stendeva un’enorme quantità di ninfee, piante ornamentali che galleggiavano sull’acqua. Monet dedicò gli ultimi anni di vita a dipingere incessantemente le infinte varietà di movimenti, colori, sfumature che quelle piante creavano, nella quiete idillica della campagna dove «la luce era unica e non si trova uguale in nessun’altra parte del mondo». Questo autentico paradiso naturale, in cui le piante erano in grado di generare cangianti effetti di luce e di molteplicità cromatiche, generò un monumentale ciclo pittorico, chiamato appunto “giardino d’acqua” che rappresenta il capolavoro, ma anche l’espressione del tormento creativo di Monet. In quella necessità estetica ho rinvenuto il punto di convergenza delle poetiche di Proust, Joyce e Woolf.
Il 1922, quando c’è stato l’incontro tra i due scrittori, era l’anno della pubblicazione in volume dell’Ulisse di Joyce, ma anche l’anno dell’uscita de La terra desolata di T.S. Eliot: in un certo senso, in questo 2022 si celebrano cento anni di modernismo. Dal tuo punto di vista di studioso e romanziere, quali rivoluzioni stilistiche e strutturali dei vari Joyce, Eliot e Virginia Woolf sono state accolte nella letteratura occidentale a loro successiva? Quali loro sfide narrative, invece, sono rimaste senza seguito?
Bella domanda! Difficile rispondere. Forse impossibile. Mi rifaccio ad una celebre battuta di uno dei massimi studiosi di Joyce, Richard Ellmann, che nella sua celebre biografia dello scrittore dublinese, disse che “dobbiamo ancora imparare ad essere contemporanei di Joyce”. Credo infatti che la forza della scrittura joyciana, come dimostrano le recenti ed eccellenti traduzioni del Finnegans Wake di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, che apre orizzonti nuovi e inesplorati, che plasma la parola in modo vertiginoso e acrobatico, che affonda le radici nella storia ma al contempo se ne separa per diventare universale attraverso un banchetto di linguaggi, resta un’operazione culturale oltre che dirompente e prodigiosa, ancora insuperata, avanti da noi, tutta da scoprire.