Fino a oggi il mutismo dei sopravvissuti ai campi di concentramento è stato spiegato riducendo la portata della violenza degli eventi subiti dalle vittime oppure diminuendo la particolare sofferenza patita in quanto esseri umani.
In Storytelling (a cura di Silvano Facioni, Mimesis Edizioni, 2023) Rodolphe Gasché riesamina il fenomeno a partire dalla distinzione tra narrazione e testimonianza.
Il filosofo afferma che l’assoluta insensatezza della violenza inflitta loro è ciò che ha impedito ai sopravvissuti di dare un senso alla propria esperienza sotto forma di storie da raccontare.
Su Scenari proponiamo un estratto del libro in cui l’autore analizza la perdita della facoltà di raccontare utilizzando le teorie della narrazione di Wilhelm Schapp.
Nella sua esplorazione del coinvolgimento dell’essere umano nelle storie, Schapp ha sicuramente in mente l’interesse di Husserl per il mondo della vita. Ma la prima parte di Reti di storie è dedicata a un’analisi dei Wozudinger ‒ cioè delle cose che sono create dagli uomini per uno scopo specifico ‒ nella cui produzione emerge il “mondo”. Questa analisi è una chiara indicazione che il lavoro di Schapp è soprattutto una risposta all’analitica del Dasein di Heidegger in Essere e tempo e, più precisamente, alle sue analisi dei “mezzi” o, piuttosto, degli strumenti (Zeug).
Assumendo come punto di partenza le strutture della creazione di Wozudinger, Schapp sostiene che più che una cornice preesistente a tale creazione, il “mondo” è formato come mondo circostante da tale creazione in modo da manifestarsi successivamente nelle storie in cui l’essere umano si trova intramato. In altre parole, il mondo è un momento delle storie, intelligibile solo attraverso l’unità che le caratterizza, ed è equi-originale alla creazione di Wozudinger.
Più in generale, Reti di storie prende di mira il riferimento di Essere e tempo al Sofista di Platone e alla sua richiesta di non impegnarsi “a raccontare una storia” sull’Essere, e sul modo di essere nel mondo del Dasein. Schapp, al contrario, sostiene che l’analisi dei Wozudinger mostra che tutte queste cose sono intramate in contesti, cornici o orizzonti, e che è impossibile farne esperienza o renderne conto indipendentemente da tali relazioni.
Lo scopo delle analisi di simili contesti od orizzonti in cui sono inseriti i Wozudinger creati dagli uomini, e che corrispondono a ciò che Schapp intende per storie, è mostrare che tali analisi non conducono mai alla scoperta di concetti generali ‒ dell’ordine dei generi o delle specie, per esempio ‒ che potrebbero servire a renderne conto in generale o, in ultima analisi, per mezzo di un concetto come l’Essere, ma solo in più storie. Sebbene il nome di Heidegger non sia menzionato nemmeno una volta nel libro, Reti di storie cerca di contrastare l’heideggeriana comprensione esistenziale del mondo del Dasein nei termini della questione generale del senso dell’Essere, sostenendo che, in verità, l’essere umano è, come suggerisce il titolo, intramato nelle storie, e che il suo mondo è fatto di storie.
Le storie, nel pensiero di Schapp, sono dunque, come suggerisce il riferimento all’intreccio, nell’ordine di una condizione esistenziale dell’essere umano, preliminari alla loro potenziale articolazione linguistica. Il loro essere raccontate, come osserva Paul Ricoeur in un breve riferimento a Schapp in Tempo e racconto, è un “processo secondario”. La potenzialità stessa della storia raccontata di un essere umano è quindi radicata nelle storie in cui tale essere si trova esistenzialmente intrecciato fin dall’inizio. Tale intreccio è, come nota Schapp, caratterizzato dal “silenzioso discorso interiore”, che può essere pensato come la condizione di mediazione che rende possibile che le storie siano esplicitamente raccontate.
Non tutte le storie sono necessariamente raccontate, ma in quanto discorso silenzioso che le accompagna, esse sono governate dal telos di venir raccontate. L’effettiva realizzazione nella forma di un racconto si fonda sul discorso silenzioso che l’accompagna e che preme per essere raccontata, per essere comunicata.
Nella seconda parte del libro, intitolata “Verstricktsein in Geschichten und in Geschichte [Irretiti in storie]”, Schapp fa un passo avanti: “Per la tradizione le storie e la storia sono qualcosa nel mondo. Per noi il mondo e la storia in cui siamo intramati coincidono. Per noi il mondo esiste solo nella storia o innanzitutto nelle storie nelle quali il singolo è intramato o co-intramato”.
Piuttosto che situare l’essere umano nella prospettiva della storia dell’Essere ‒ una storia al singolare ‒ il mondo dell’essere umano, secondo Schapp, è costituito da una pluralità di storie o racconti. Le storie come storie raccontate, ma anche la storia nel senso di historia, sono formazioni verbali o letterarie che presuppongono l’intramarsi dell’essere umano in un mondo di storie, comprese quelle degli altri che, essendo raccontate, vengono ulteriormente composte attraverso la loro narrazione.
Come scrive Schapp, la ragione per narrare storie in cui si è intramati non è che sono finite e possono essere tramandate, ma perché “si tenta di agganciare una storia all’altra o un passo di una storia a un altro, di spingere la storia a proseguire”.
Sicuramente, in principio la nozione di intramatura suggerisce la passività di colui o colei che si trova nel mezzo di una storia. Ma le storie non sono prodotti finali finiti. Infatti, l’apparente passività di chi è intramato è controbilanciata dal raccontare e ri-raccontare la sua storia facendola procedere attivamente.
A essere fondamentale, per Schapp, non è il problema dell’Essere. Le storie, al contrario, sono di primaria importanza, e solo da esse emergono uomini, animali, cose, intramati in esse. L’intramatura (Verstrickung, sebbene a volte egli parli anche di Verwicklung) è il modo stesso in cui qualcuno o qualcosa è, cioè è all’interno di una storia. Come già detto, Schapp evita sistematicamente la terminologia e la categorizzazione filosofica. Così, piuttosto che “essere-in” (In-Sein) che secondo Heidegger è una struttura esistenziale fondamentale del Dasein relativa alla sua relazione con il mondo, la nozione di intramatura (Verstrickung), presa dal linguaggio ordinario, serve per descrivere, sicuramente in accordo con quanto Husserl aveva chiamato la “visione naturale del mondo”, la propria relazione vivente con esso. In inglese come in tedesco il termine ha per lo più la connotazione negativa di essere intrappolato, irretito, imprigionato o catturato in qualcosa che impedisce o ostacola ‒ ad esempio una bugia o una contraddizione. In generale il prefisso Ver- serve ad amplificare il sostantivo o il verbo che precede ‒ come nel caso del sostantivo Verstrickung, l’essere intramato ‒, e tale amplificazione possiede potenzialmente un latente significato peggiorativo. Ma quando si tratta di essere intramati nelle storie, “intramatura” assume connotazioni negative solo se le storie che accadono a un soggetto lo toccano dall’esterno piuttosto che dall’interno.
Cominciamo notando che il significato primario del termine Verstrickung si riferisce al lavoro a maglia e significa utilizzare o terminare il gomitolo di filo. Come indica il prefisso Ver-, anche nel senso figurale di essere impigliato, Verstrickung designa il trovarsi all’interno di un tessuto a maglia e, nel caso dell’uso di Schapp, essere all’interno della trama o della rete di una storia. Infatti, l’espressione di essere verstrickt suggerisce letteralmente di trovarsi in un tessuto o in una rete narrativa. E per lo stesso motivo, ciò in cui si è intramati ‒ le storie ‒ è quindi dell’ordine di una rete o di un modello intrecciato. Schapp sottolinea che utilizza “l’espressione ‘intramatura’ in un senso inclusivo e per ‘intramato’ voglio intendere ognuno cui le storie accadano, ognuno che vi si trovi al loro centro o che a esse appartenga”. Il termine suggerisce quindi che l’essere umano non è un’entità indipendente a cui le storie accadono in seguito, ma che è fin dall’inizio dentro le storie ed è ciò che è solo perché è intramato nelle storie. Una storia non accade mai a nessuno dall’esterno. Si è sempre dentro le storie.
Intramatura significa dunque coinvolgimento-in e suggerisce, in particolare, che non ci si può mai estrarre o astrarre da ciò che è fondamentale ‒ l’essere nelle storie ‒ proprio perché tale fondamentale essere intramati nelle storie è la condizione per essere ciò che si è: un essere umano. Dal momento che l’intramatura non è qualcosa provocato da alcune storie e non da altre, ma è invece ciò che rende la storia una storia, è impossibile uscirne. Ma tale intramatura non significa una forma di necessità naturale divina come quella di Ananke, che fa girare il destino degli dei e degli uomini sul suo fuso adamantino. In nessun modo suggerisce una fatalistica mancanza di libertà da parte di chi vi è coinvolto, non soltanto perché si è ciò che si è solo nella misura in cui si ha una storia, ma anche perché non si ha una sola storia ma storie al plurale. Come indicano i titoli delle sue opere, intramatura è pluralia tantum. Per sua natura è un coinvolgimento in storie sempre multiple. Infatti, come sottolinea Marquard, “solo colui che partecipa a molte storie, possiede ‒ tramite la separazione di quei poteri che sono le storie ‒ attraverso una storia una libertà dalla rispettiva altra storia. Colui o colei che ha una sola storia non possiede questa libertà”. Dal momento che l’intramatura che Schapp ha in mente è una in più storie, essa è anche una condizione della libertà dell’essere umano nella misura in cui lo libera da una storia monolitica totale e totalizzante.
Un commento su un passaggio particolare di Reti di storie dovrebbe aiutarmi a evidenziare quelle caratteristiche delle storie che nel lavoro di Schapp potrebbero essere pertinenti a ciò che mi interessa in questo studio. Schapp osserva:
Con ogni storia emerge l’intramato in essa o gli intramati in essa. La storia sta per l’uomo. Essa si estende o si approfondisce, per così dire, nell’uomo, indipendentemente dal nostro intervento, in virtù del proprio peso specifico. Noi crediamo anche che l’accesso all’uomo, agli uomini avvenga solo attraverso le storie, le sue storie, e anche che l’emergere corporeo degli uomini sia solo un emergere delle sue storie, che, per esempio, anche il suo volto, la sua faccia, a suo modo, racconti una storia, e che il corpo per noi sia “corpo” solo fintantoché racconta una storia o, il che sarebbe lo stesso, fintantoché cela o cerca di celare una storia.
Le frasi che affermano che “una storia sta per l’uomo”, o poche righe più avanti, “che ogni storia sta per un essere umano”, condensano nel modo più succinto il significato fondamentale che, secondo Schapp, le storie hanno per la comprensione dell’essere umano. Come egli spiega, “Con ciò intendiamo dire che abbiamo la possibilità ultima di accesso (letztmöglichen) all’uomo attraverso le sue storie”. Da qui il significato di tutte le storie. Infatti,
Ciò che di essenziale conosciamo degli uomini sembrano essere le loro storie e quelle che ruotano intorno a loro. Attraverso la storia arriviamo a contatto [kommen wir in Berührung, in modo tattile, che è anche, allo stesso tempo, l’accadere di un impigliarsi attraverso tale tocco] con un “Sé”. L’uomo non è l’uomo in carne e ossa. Al suo posto ci si para davanti la sua storia come ciò di più autentico (sein Eigentliches).
A un certo punto le storie sono indicate come “l’ultima parte comprensibile di un tutto che trascina con sé la domanda della sua comprensibilità” e sono, successivamente, paragonate agli atomi.
“L’esser-intramato è l’ultimo indivisibile”, per mezzo del quale si deve rendere giustizia a ciò che significa essere umani in senso proprio. Ciò che l’essere umano è, in sostanza o nella sua stessa umanità, in ciò che gli è più proprio, nella sua stessa autosufficienza, è definito dalle sue storie concrete, e tangibilmente accessibile (in modo tattile, cioè sensibilmente) solo attraverso queste storie individuali e singolari in cui è intramato.
Ciò che mi interessa in questo studio ‒ il fenomeno dell’incapacità dei sopravvissuti all’olocausto di raccontare le loro storie ‒ è la più radicale argomentazione espressa da Schapp in merito al ruolo fondamentale che le storie e lo storytelling rappresentano rispetto alla condizione umana. Dal punto di vista dell’analisi di Schapp, il mutismo dei sopravvissuti all’olocausto appare letteralmente come uno skandalon ‒ sia un fastidio sia un’offesa ‒ per tale teoria, e una trappola in cui essa cade quando si avventura in simile fenomeno.
Infatti, come suggeriscono le mie conclusioni, il mutismo è una trappola che, se affrontata nelle teorie sulla storia e sullo storytelling, potrebbe costringerle a riconsiderare la natura della storia come forma di senso.
Le storie, di conseguenza, sono quanto di più importante riguarda la natura dell’essere umano. Secondo la sua concezione, una storia implica il suo venir raccontata per essere ascoltata invece che essere tenuta in sospeso.
Prima però di approfondire l’importanza di tali implicazioni, devo soffermarmi per un momento sulle storie stesse. Ogni essere umano è intramato in molte storie. Dopo aver evocato le storie che sono proprie (Eigengeschichten) e che, inoltre, gravano su ognuno (die einem im Nacken sitzen), Schapp scrive che “le storie possono ricordare cicatrici rimarginate che possono riaprirsi da un giorno all’altro o anche cicatrici che, in genere, non si cicatrizzano”. Non tutte le storie in cui si è coinvolti sono quindi dello stesso ordine. Seguendo queste storie, con le quali si cerca attivamente di venire a patti in un modo o nell’altro, Schapp tira in ballo “la fuga di fronte alle proprie storie”, che viene definita come una fuga dal mondo (Weltflucht). Inutile dire che le storie dalle quali si fugge sono anche storie che assillano molto, se non troppo, se stessi. Ma tale fuga o evasione dalle storie, sostiene Schapp, “appartiene anche alle storie”.
Per Schapp, quindi, non si è mai senza una storia; se, uscendo da una storia, si è ancora dentro una storia, ciò significa che ogni fuga dalle storie è una fuga in un’altra storia. Ora, per quanto riguarda tutte quelle storie che gravano pesantemente, sia che si cerchi di affrontarle o che si cerchi di fuggire da esse, “il loro marchio ultimo (letzte) è che sono le mie storie”. Queste particolari storie o storie che sono mie (Eigengeschichten) sono stigmata non solo nel senso di essere segni che alla fine definiscono un sé, ma anche nel senso che, come segni impressi in me, assomigliano a ferite come quelle del corpo crocifisso di Cristo. Come tali, queste storie sono assolutamente le mie storie, le storie essenziali in cui sono intramato e che, alla fine, dicono chi sono. Nella misura in cui sono mie, tali storie “possono essere, per così dire, separate attraverso un muro invalicabile da tutte le storie degli altri”. Ma nello stesso modo in cui le storie in cui gli altri sono intramati sono l’unico modo per avvicinarsi a loro, “le nostre storie, attraverso il modo in cui le superiamo, attraverso il modo in cui siamo in esse intramati e, a seconda di come gli intrecci si attuino, allentandosi o diventando inestricabili”, sono l’unico modo per avvicinarsi a noi stessi. Ma è anche sempre solo dall’interno dell’orizzonte delle storie in cui si è intramati, e dalla storia-mondo da cui non si può uscire, che si può incontrare se stessi.
Come ho già sottolineato, le storie in quanto storie implicano che siano raccontate e indirizzate a coloro che le ascoltano. Una storia singolare, scrive Schapp, “è incline a essere narrata di nuovo”. Da ciò deriva che le storie viventi (lebendige Geschichten) non sono mai prodotti finiti; continuano a essere raccontate. Di conseguenza, “ogni storia si trova con altre storie e, probabilmente, con tutte le storie, in connessione dinamica”. Schapp aggiunge che “si potrebbe probabilmente anche dire che ogni storia è predisposta nell’orizzonte di ogni altra storia o che nell’orizzonte di ogni storia vi sia sempre posto per le altre storie”. In breve, una storia è tale se è una storia raccontata; è ciò che è solo se può essere, ed è, condivisa con altri. Attraverso la loro intrinseca comunicabilità, le storie non sono mai storie isolate ‒ una storia isolata è una contraddizione in termini. Non sono mai non raccontate perché potrebbero essere non raccontabili. Al contrario, sono interconnesse in un più ampio insieme vivo, quindi non chiuso, in cui ciò che è iniziato con una storia continua ad avere effetti e conseguenze. Per questo motivo, Schapp potrebbe anche sostenere che la fuga dalla propria storia appartenga ancora alla storia.
La questione che mi interessa richiede l’esame di un altro aspetto della teoria delle storie di Schapp. Al fine di sviluppare ulteriormente il ruolo giocato da chi si trova intramato in una storia, Schapp opera una distinzione tra intramatura propria (Selbstverstrickung) e intramatura altrui in una storia (Fremdverstrickung).
La propria appartenenza a una storia appare sempre a un ascoltatore, lettore o giudice, come intramatura di un altro in una storia. Se Schapp considera l’intramatura esattamente come “il centro delle nostre ricerche”, non è forse perché, grazie all’intrinseco appello agli ascoltatori, tale intramatura riguarda anche l’inevitabile percezione o esperienza del sé da parte di un altro sé? Qualunque intramatura altrui, afferma Schapp, è “l’auto-intramarsi di qualcun altro”, il che implica che l’intramarsi nelle storie è il modo fondamentale in cui si sperimenta il sé degli altri. Senza l’auto-intramarsi di qualcun altro in una storia, non è possibile alcun accesso a lui o a lei. Più precisamente, tale auto-intramarsi non è solo la condizione del sé, ma anche di tutte le relazioni possibili tra il sé e gli altri. Ma che dire della relazione di questo sé con gli altri che lo incontrano attraverso le sue storie, e che sono essi stessi ciò che sono solo nella misura in cui vivono nelle loro storie? Schapp si domanda: come si relaziona “questo intramarsi di qualcun altro col mio intramarmi?”. La domanda riguarda la relazione o la partecipazione della “storia propria”, o della “storia più propria [eigensten]” di ogni singolo essere umano ‒ la sua “ureigene Geschichte” ‒ alle storie degli altri. Secondo Schapp, le linee di connessione, le interconnessioni tra le storie che riguardano il sé, se stessi, e le storie degli altri puntano a una definitiva comunanza (Gemeinsamkeit) che riguarda l’umano stesso. “L’esser-uomo”, secondo Schapp, “si esaurisce nell’esser-intramato, nel fatto che l’uomo è intramato in storie”. In altre parole, essere uomo non significa solo avere una storia propria, ma avere una storia che è intramata in quelle degli altri e viceversa. Questo intramarsi costituisce ed è l’ultima comunanza dell’essere umano.
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Prima di porre la questione delle conseguenze che, secondo Schapp, deriverebbero dalla distruzione della capacità di raccontare la propria storia, bisogna precisare che in Philosophie der Geschichten Schapp riconosce il fatto che si può ordinare di tacere. Ma la proibizione di parlare, di parlare facendosi sentire, non esclude quello che egli chiama “discorso silenzioso”, che continua ad accompagnare le storie che premono per essere raccontate. Anche se è proibito raccontare la propria storia, sia la capacità di parlare silenziosamente sia il potere di parlare a voce rimangono intatti. La proibizione di parlare non compromette in alcun modo la capacità di farlo. Eppure tale compromissione della capacità di parlare, sia a voce sia in silenzio, è proprio quanto è in questione con i soldati di ritorno dalla Prima guerra mondiale e, in particolare, con i sopravvissuti all’olocausto.
Le storie, sostiene Schapp, sono insiemi, totalità, e sono costantemente presenti come insiemi o totalità nel corso del loro svolgimento. Il passato e il futuro appartengono sempre in modo originale all’insieme che rappresentano.
Inoltre, le storie stesse, come insiemi, hanno un inizio e una fine che si fondano su ciò che le precede e le segue. Solo interconnesse in questo modo alle storie che le precedono e le seguono, esse possiedono unità e completezza. Ma se è così, può un prigioniero di un campo di sterminio avere una storia? Se nel mondo dei prigionieri c’è solo “tempo sterile e stagnante” e “la storia si è fermata”, come riferisce Primo Levi, questo mondo non ha più l’unità temporale delle storie. Manca la struttura a rete in cui sono intramati gli esseri umani come tali.
Tagliati fuori dal loro passato ed esposti a un futuro che non è più un futuro perché significa morte certa ‒ che, nel caso dei Muselmänner (la maggior parte dei quali, significativamente, erano ebrei) osservato da Levi, non è più una morte propriamente detta e, aggiungo, non è più sperimentabile in una successione di eventi ‒ non si può nemmeno dire che i prigionieri abbiano avuto un presente. Per loro non esiste più l’intermezzo in cui si svolge la vita, costituito da un inizio e una fine.
Narrare la propria storia, inoltre, presuppone un ordine sequenziale, un incastro di eventi; ma se il tempo è divenuto stagnante, non è più possibile collegare gli eventi in un corso dispiegato. Eppure, se già solo per ragioni temporali le vite dei prigionieri dei campi di sterminio non possono più assumere la forma di una storia, esse non sono nemmeno più intramate.
La categoria esistenziale di intramatura, nel loro caso non sembra avere più senso. L’intramarsi nelle storie è costitutivo della singolarità di un individuo, una singolarità di cui i prigionieri sono stati spogliati nel momento stesso in cui un numero è stato tatuato sulla loro carne.
A differenza della storia che è la propria, la mia, e che come uno stigma dice chi sono, il numero inciso sulla pelle priva immediatamente di una storia propria. Rende ognuno senza storia. Il numero dice cosa sono per l’oppressore, non per me, né per gli altri per i quali la mia storia è l’unico modo per incontrarmi in modo sensibile e tattile in tutta la mia singolarità. E poiché la storia che il numero sulla propria carne racconta non è la mia storia, ma chi, o piuttosto cosa sono per l’oppressore, il prigioniero del campo non ha più una storia e quindi evidentemente non ha nulla da raccontare. Il suo mutismo non è deliberato; risulta dall’espropriazione della sua storia.
Ma non si potrebbe anche ritenere che il sopravvissuto abbia una sola storia, una Sondergeschichte per così dire, una storia che non ammette altre storie oltre a essa ‒ cioè una storia che revoca il soggetto dal suo essere intramato in molteplici storie?
Impedendo al soggetto di avere altre storie, tale storia dominante imposta alla vittima è una storia che, nell’idea di intramatura di Schapp, priva il soggetto di ogni libertà e la trasforma in un angoscioso inferno.
L’incapacità di raccontare la propria storia implicherebbe quindi che al limite non si abbia più una storia, perché avere una sola storia equivale a non averne nessuna e, di conseguenza, si è privi di ogni possibile singolarità. Essendo non raccontabili, le storie non raccontate dei sopravvissuti all’olocausto non si lasciano inserire nella regione e nel regime delle storie, di ciò che Schapp ha chiamato “l’ultima comunanza dell’intramarsi degli esseri umani nelle storie”. Se, inoltre, tutte le storie in qualche modo si inseriscono, come afferma Schapp, “nella grande realtà delle storie [Geschichten-Wirklichkeit] (se ci è permesso parlare di una cosa simile), e vi partecipano”, ne consegue anche che le storie non raccontate dei sopravvissuti all’olocausto e, per lo stesso motivo, l’incapacità dell’individuo di plasmare una singolarità, sono escluse da quella realtà. In breve, le vittime mute sono completamente al di fuori della “realtà delle grandi storie”, la storia tout court. Non avendo una vicenda, non hanno nemmeno una storia che le inserisca in una “realtà delle grandi storie”.
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