Nanga Parbat: la cima eterna

Con la morte di Sergi Mingote, avvenuta sul K2 il 16 gennaio 2021, se ne è andato un alpinista di livello mondiale, un uomo capace di compiere grandi imprese sulle più alte vette del globo seguendo sempre uno stile pulito e rispettoso della montagna. Lo spagnolo non faceva uso di bombole d’ossigeno supplementare, pianificava dettagliatamente eleganti linee di ascesa e prestava un’attenzione massima alla sicurezza dei propri compagni di spedizione.
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A pieni polmoni (Mimesis Edizioni, 2022), l’autore narra con entusiasmo e passione la straordinaria avventura che tra l’estate del 2018 e quella del 2019 l’ha visto conquistare ben sei Ottomila – Broad Peak, K2, Manaslu, Lhotse, Nanga Parbat e Gasherbrum II – e offre al lettore non solo la testimonianza di un record, ma anche il racconto di un percorso di crescita personale, di impegno e di un’umanità capace di emergere nella natura più estrema.
A un anno dalla scomparsa, proponiamo su Scenari un passaggio in cui l’alpinista racconta l’impresa del Nanga Parbat.

La storia del Nanga Parbat è la storia della passione che una montagna può arrivare a instillare nell’essere umano. Dopo la scomparsa di Mummery, nel 1895, sul Nanga si innesca una serie di tentativi al limite dell’ossessione che vede il suo apice nelle spedizioni tedesche promosse dal regime nazista.
I nomi di Willy Merkl, Wilhelm “Willo” Welzenbach e Karl Herrligkoffer rimangono indelebilmente legati al Nanga, e insieme a loro il fatto che su questa montagna persero la vita undici tedeschi e quindici sherpa.
La testimonianza di Hermann Buhl, abbandonato al suo destino dopo aver realizzato la prima assoluta in vetta nel 1953, non fa altro che ingigantirne il mito. E infine, l’entrata in scena di Reinhold Messner con la prima salita della parete Rupal nel 1970 e l’ascensione in solitaria nel 1978, completano una serie di imprese eccezionali che ancora oggi non sono terminate.

Per me, a fine primavera, il Nanga Parbat è soltanto una montagna enorme e difficile con cui devo misurarmi. Non fa parte del progetto. Al mio rientro dal Nepal ottengo il permesso per tentare di scalare i due Gasherbrum insieme a Juan Pablo Mohr e Mattia Conte. La logistica è già predisposta e niente dovrebbe distogliere la nostra attenzione dalle cime conosciute come “montagne luminose”.
Se però esiste una costante nello spirito d’avventura, questa è la capacità di complicarsi la vita con qualunque pretesto. A mettermi sulle tracce del Nanga è una telefonata di Ali Sadpara: stando a quanto mi racconta, Ali è venuto a sapere che diverse squadre forti tenteranno la montagna dal versante Diamir. Tra questi alpinisti c’è Nirmal “Nims” Purja, alle prese con la sfida di scalare tutti e quattordici gli Ottomila senza ossigeno in soli sette mesi. La proposta mi spiazza. Includere il Nanga nel mio progetto significa fare i conti con un pezzo da novanta. Quando si parla di Ottomila le garanzie di successo non esistono, ma è possibile cercare di affrontare il progetto con un’ottica pragmatica e la combinazione G1-G2 è l’opzione per me più sensata. L’ipotesi di potermi spostare in elicottero dal Campo Base del Nanga al Campo Base dei Gasherbrum mi tenta. Il ricordo della montagna vista dall’aereo lo scorso anno, mentre volavo in direzione del K2, fa il resto. Non riesco a resistere all’idea di lasciare la mia impronta sulla storia della “montagna nuda”.
Nel giro di qualche ora riorganizzo tutto. Juan Pablo deve abbandonare il progetto per via del padre, affetto da una malattia terminale; Mattia, invece, che pure sente di non avere sufficiente esperienza, decide ugualmente di venire con me confidando che il Nanga gli possa servire come acclimatazione per poi tentare i Gasherbrum. Siamo ai primi di giugno e si preannuncia un’estate parecchio movimentata.

Nella valle dell’Indo

Islamabad mi accoglie con il calore di sempre. A 40°C è facile perdere la lucidità ma Manzoor, il responsabile di Karakoram Tours Pakistan (KTP), ci attende all’aeroporto a braccia aperte e si prende cura di noi. Mi ritrovo dove tutto è cominciato, alle porte di quel luogo selvaggio che ospita il Karakorum, una delle catene montuose più inaccessibili e spettacolari del pianeta, dove si ergono quattro delle montagne più alte del mondo. Il mio primo obiettivo, però, è situato nell’ansa dell’Indo, più esattamente nel punto di congiunzione delle tre catene più grandi della Terra: l’Himalaya, il Karakorum e l’Hindu Kush.
Le ore che trascorro nella capitale pakistana mi trasmettono sensazioni strane. Il mio sogno è ancora intatto, ma devo ammettere che le mie energie non sono le stesse. Ho trascorso sei degli ultimi dodici mesi in Himalaya ed essere di nuovo lontano dalla famiglia rappresenta per me una montagna ben più grande di qualunque Ottomila.

Manzoor mi spiega che i miei cambiamenti di piani dell’ultimo momento lo hanno fatto ammattire. Sul Nanga ci sono poche spedizioni e la situazione nella regione è molto complicata. Chilas e il territorio circostante si trovano sotto il controllo dei talebani. La sicurezza è diventata una priorità per il governo pakistano dopo che nel 2013 un gruppo di terroristi ha sterminato a colpi di mitra i membri delle spedizioni che si trovavano al Campo Base. Posso quindi immaginare bene che per accontentare noi Manzoor abbia perso il sonno. Mi domando se per quest’uomo sia ammissibile l’idea di mettere a repentaglio delle vite per soddisfare le nostre ambizioni personali. Garantire supporto logistico alle spedizioni occidentali che si avventurano sulle vette pakistane è il suo lavoro, ma probabilmente una parte di lui avrebbe preferito che sul Nanga non andassimo.
L’avventura in cui ci siamo imbarcati non comincia ai piedi della montagna. Percorrere l’itinerario da Islamabad a Chilas passando attraverso le gole dell’Indo rappresenta una delle esperienze più entusiasmanti che si possano vivere in una spedizione. Il furgone messo a nostra disposizione da Manzoor ci regala un viaggio da brividi. Ai momenti di tensione tipici della Karakorum Highway si sommano una serie di forature e la rottura dello sterzo. A metà viaggio ci ritroviamo bloccati in un’autofficina, con il risultato che le dieci ore previste diventano quasi ventiquattro.

Arriviamo a Chilas che quasi non ci reggiamo in piedi. Non abbiamo praticamente dormito, ma dobbiamo ripartire subito per raggiungere il punto di partenza dell’avvicinamento. Una frana lungo la tratta che conduce all’ultimo villaggio accessibile in auto complica ulteriormente le cose. Le ultime piogge hanno fatto crollare parte della strada ma, arrivati a questo punto, per noi gli imprevisti sono quasi un divertimento. L’intero viaggio si svolge in assoluta intimità. In barba alle continue lamentele per la massificazione dell’Himalaya, noi siamo completamente soli. Un’avventura totale.
Le due giornate di trekking per raggiungere il Campo Base del Nanga Parbat mi rimangono impresse nella memoria come uno dei tratti più belli di tutto il progetto. I contrasti di colore sono incredibili. All’inizio, l’itinerario si snoda vertiginoso attraverso una distesa di torrioni crollati dando l’impressione che il sentiero si sostenga a mezz’aria quasi per incanto. Poi la pendenza si addolcisce e ci addentriamo in una zona dalla vegetazione rigogliosa. Ripenso al ghiacciaio del Baltoro e midico che questo è probabilmente l’avvicinamento più spettacolare di tutti e quattordici gli Ottomila.

Ci lasciamo alle spalle la scuola-rifugio fatta costruire da Reinhold Messner, la cui esistenza è rimasta per sempre legata a questa valle dopo la spedizione del 1970, costata la vita al fratello Günther, e ci dirigiamo verso i pascoli alla base della montagna. Ad accoglierci alla testata del Diamir troviamo fiori di ogni colore e acqua dappertutto: se il paradiso esiste, non deve essere molto diverso.
Raggiunta quota 4.200 metri, piazziamo il Campo Base. Siamo consapevoli che tutti questi comfort (temperature miti, acqua in abbondanza e paesaggi da favola) sono direttamente proporzionali alla distanza che ci separa in linea verticale dalla vetta. Siamo molto in basso. Su nessun’altra montagna dell’Himalaya bisogna affrontare un’ascensione di quattromila metri di dislivello tra il Campo Base e la cima. Ma questo è il Nanga: una montagna grande e difficile.

Sergi Mingote, A pieni polmoni. Sei Ottomila senza ossigeno in un anno (Mimesis Edizioni, 186 pag. 20 €, 2022)

Vita al Campo Base

L’ambiente del Nanga non è assimilabile a niente che io abbia visto prima. La cima è lassù che ci attende, ma sarebbe un peccato mortale non godere di questi luoghi. Seduto sul manto d’erba verde tempestato di fiori viola e gialli, guardo verso la montagna tentando di carpirne i segreti. I nomi dei passaggi chiave, visibili dal punto in cui mi trovo, mi ricordano che sono sulla “montagna dei tedeschi”: il Ghiacciaio Merkl o il Muro Kinshofer fanno parte della mitologia del Nanga. Il suono melodioso del fiume d’acqua cristallina fa a gara con l’eco delle valanghe che ciclicamente corrono giù per la parete. È giunto il momento di fare vita sociale e di conoscere i compagni con cui condivideremo l’ascensione.
Quest’estate solo quattro spedizioni hanno raccolto la sfida del Nanga. I francesi fanno un po’ a sé. I russi sembrano leggermente meglio organizzati: insieme a loro sono felice di ritrovare Cala Cimenti, un vecchio amico che non è solo un bravo alpinista ma anche un grande ottimista. All’altro estremo del campo c’è Nims, che ha ottenuto i finanziamenti per continuare la sua corsa a tutti e quattordici gli Ottomila in un anno… Può essere che non siamo in molti per una montagna così immensa, ma l’esperienza delle persone che popolano il Campo Base lascia ben sperare.

L’incontro con Ali Sadpara è particolarmente commovente. Alla fin fine, se mi trovo qui è a lui che devo dire grazie (o dare la colpa). Il suo invito ha sortito l’effetto sperato e niente potrebbe rendermi più felice dell’essere passato dal migliaio di persone al Campo Base dell’Everest alle quattro minuscole spedizioni che condividono il sogno del Nanga. In questo momento mi tornano alla memoria le ultime interviste rilasciate alla stampa prima di partire per questa spedizione, dove mi veniva continuamente chiesto della situazione sul tetto del mondo durante la scorsa primavera e quale fosse la mia opinione riguardo alla massificazione dell’Himalaya. Per rispondere basterebbe una foto del Campo Base del Nanga Parbat. Anche questo dovrebbe fare notizia. Si può andare in Himalaya, tentare di scalare montagne di più di ottomila metri e rimanere al di fuori dei problemi di massificazione? Sì, si può. È soltanto questione di saper scegliere il momento e l’itinerario.



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