In che maniera sarebbe giusto porsi nei confronti del problema nella contemporaneità?
Mi piacerebbe riflettere sulla questione stipulando una convinta coincidenza tra la problematicità in quanto tale e l’autenticità del vivere. Sono dell’idea che proporre una riflessione sul problematico ci aiuti a riconsiderare strutturalmente lo statuto dell’umano, il suo rapporto col mondo e la natura delle relazioni interpersonali.
Per fare questo, terrò conto delle riflessioni di alcuni autori imprescindibili alla comprensione della problematicità, tra i quali Heidegger e, tra le righe, Bauman. Ci sono pensatori che, in un certo senso, non muoiono mai: racchiudono la propria individualità all’interno delle strutture teoretiche che elaborano, solide ma non impenetrabili, dalla cui flessibilità sgorga rigogliosa tutta la loro vitalità. Non è quindi raro che ci si ritrovi in sintonia con una autorialità tanto spiccata, ed è per questo che stupisce ancora meno che, pure lontani nel tempo, alcuni autori possano decriptare i problemi dell’attualità più puntualmente di molte analisi ad essa coeve.
Faccio presente come tratterò sinonimicamente i termini “problema”, “malfunzionamento” e “infermità”. La motivazione penso sia intuibile: i termini si fanno eco in quanto il malfunzionamento richiama un’infermità della quale si soffre, e certamente un’infermità indica un malfunzionamento per chi ne patisce; tutt’e due poi sono sicuramente un problema.
Per una teoretica della problematicità
Nella nostra epoca di pervasiva diffusione della tecnica, ciò che fa problema o deve essere subito riparato oppure necessita di un’immediata sostituzione affinché ritorni performante. È nel nostro interesse rivedere le dinamiche attraverso cui questo paradigma si presenta per proporne, di contro, uno che sia orientato verso una costruttività (pro-)positiva del problema. Vorremmo dunque reinterpretare la concezione del problematico intendendolo non più come “momento del negativo”, ma come “situazione dell’occasione”.
Il dizionario Treccani dichiara una preziosa etimologia: il sostantivo “problema” deriva dal greco πρόβλημα -ατος, afferente al verbo προβάλλω, il cui significato letterale sarebbe: “mettere avanti”, “proporre”.
L’etimologia del termine, dunque, non rimanda a un momento di presunta negatività, ma a uno propositivo. Possiamo intendere il problema, alla luce del suggerimento etimologico, come un’istanza che dischiude al soggetto una situazione di possibilità e non di coercizione o tanto meno di privazione.
Volendo proporre una teoretica della problematicità, si può dire che una situazione problematica sia autenticamente colta quando rimette al soggetto un prisma di scelte (pro-)positive. Imbattutisi in un problema, negarlo porta a una perdita di occasione: al cospetto di una situazione che fa problema, al soggetto sono richieste intelligenza e immaginazione. Per questa motivazione, non considerare il problema porta il soggetto a perdere quell’occasione che il problema stesso risulta essere.
Il soggetto attraverso il problema sperimenta un momento di crescita: l’interpretazione del momento problematico lo carica di attività e sventa quella passività che distoglie lo sguardo dalla problematica. L’individualità che coglie l’autenticità del problema fa sì che esso non venga subìto, ma interpretato mediante un lavoro che risolva l’evenienza problematica con l’effervescenza dell’immaginazione.
Una teoretica del problema degna deve quindi concepire il problematico legittimandone la presenza ed elevandolo a momento di virtualità del soggetto. Ovverosia, il soggetto si interroga rispetto al futuro pensandolo nelle sue varie possibilità. In questa virtualità il soggetto coglie la complessità del reale: si rappresenterà varie possibilità del mondo orientandosi verso quella che porta alla risoluzione del malfunzionamento.
Nei riguardi di questo, è interessante riportare questa suggestione di J.-P. Sartre: pur sostenendo che la virtualità facesse cadere il soggetto nell’angoscia, egli legava il virtuale alla Libertà (cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano, 2014, pp.57-82). L’apparente fastidiosità del problema getta la soggettività nell’esperienza più vera – e per questo più rocambolesca – della Libertà: poiché il malfunzionamento ferma il soggetto ed inizialmente lo debilita, per liberarsene si catapulta nelle enigmatiche ed ipotetiche lande dell’avvenire. Dunque, il soggetto tenterà di rappresentarsi una possibilità del mondo che non contenga il problema, ma non perché relegato in un luogo dove non possa infastidire ma poiché sarà stato armoniosamente chiarito. E nel frattempo, come fosse poco, fondandosi nella sua virtualità di sé il soggetto si sarà anche riconosciuto nella sua poetica Libertà.
Spenderei qualche parola circa il chiarimento e la risoluzione del problema, nonché intorno al rapporto coesistente tra questi due momenti fondamentali, considerandoli come sostanzialmente differenti seppure entrambi utili alla comprensione della problematicità. Laddove ci sia chiarimento è possibile che vi sia una risoluzione, ma al contempo non è sempre vero che dove vi sia stata una risoluzione vi fosse anche chiarezza. In altre parole: il chiarimento sicuramente facilita la risoluzione, ma non è detto che risolva il problema – potendosi trovare al cospetto di un malfunzionamento comunque irrisolvibile seppure chiaro.
Pure, quindi, avendo chiaro il problema e anche magari il modo di risolverlo, è possibile che una fattuale risoluzione sia impossibile per motivazioni contingenti; a titolo esemplificativo, potrebbe essere utile pensare a un problema che necessita di un utensile che non si possiede per essere risolto. Il problema è chiaro ma manca quanto possa risolverlo. Viceversa, è possibile che vi sia un malfunzionamento incomprensibile risolto casualmente senza che dapprima fosse chiaro; è pensabile pure che si disponga dello strumento necessario per il problema senza saperlo usare.
In tutti i casi il soggetto, aprendosi alla virtualità, esperisca un momento di crescita. Il soggetto crescerebbe, infatti, sia grazie alla risoluzione trovata casualmente che diviene suo bagaglio esperienziale, sia nel caso avesse già chiaro il problema ma non potesse risolverlo. Nel primo caso, otterrà un virtuale coerente con la problematicità, e attraverso quello potrà immediatamente cogliere la soluzione al problema in futuro. Nel secondo caso, il soggetto sarebbe già pieno del virtuale necessario affinché il malfunzionamento venga affrontato, al contempo però si scontrerebbe con un problema irrisolvibile e perciò, essendogli chiaro, si adopererà affinché possa risolverlo sfruttando altri princìpi risolutivi.
Il soggetto è così attivamente disposto al problema: anche non disponendo dell’utile necessario, ha una chiarezza ineccepibile del malfunzionamento, e sente che sia affare suo risolverlo creativamente; ed anche non avendo chiara la situazione, rifletterà intorno al da farsi posizionandosi fecondamente nei confronti dell’infermità: il problema non viene abbandonato ma diventa occasione per l’affermarsi di un individuo vitale.
Heidegger e la contemplazione dell’utilizzabile nel suo malfunzionamento
Considerare Heidegger credo ampli le nostre vedute sul tema: nel suo pensiero, il malfunzionamento riguarda proprio il mondo o, meglio, le cose che lo popolano. Ancora più nello specifico, riguarda l’utilizzabile, ovverosia quanto può essere usato dal soggetto.
Nel pensiero di Heidegger, la soggettività non è mai chiusa in sé stessa, anzi: è sempre aperta al mondo e di questo deve prendersi-Cura. Ciò è fossilizzato da Heidegger medesimo: “[…]l’essere-nel-mondo è essenzialmente Cura[…]” (M. Heidegger, Essere e tempo,§41).
Dobbiamo quindi prenderci-Cura degli oggetti coi quali veniamo a contatto, e questo prendersi-Cura si apre nell’utilizzabilità: gli oggetti vengono dall’individuo adoperati come mezzi (§15) per ottenere qualcosa.
Al contempo, però, la semplice utilizzabilità non svela l’autenticità del mondo: infatti, se del mondo si ha una visione solo orientata all’utilizzabile in quanto mezzo, del mondo non si avrà che un concetto del tutto parziale; ne si avrà, per così dire, una concezione meramente performativa: le cose sarebbero solo strumenti dal cui utilizzo non si ricava alcuna verità ontologica fondamentale.
Perciò, l’utilizzabile potrà intendersi attraverso due poli di senso opposto: potrà darsi alla maniera della mera utilizzabilità e al modo della semplice-presenza. La semplice-presenza è necessaria affinché la stessa utilizzabilità risulti in una autenticità di fondo: la verità del mezzo riguarda un soggetto che, prima di usarlo, abbia saputo contemplarlo con curiosità (§36; §69b). Dunque, perché l’utilizzabile si apra in tutta la sua fondatezza ontologica è doveroso che l’individuo lo osservi nella sua semplice-presenza, intendendolo perciò nella sua singolarità.
Detto questo, è lecito domandarsi come si passi dall’uso incondizionato dell’utilizzabile alla sua contemplazione. È proprio rispondendo a questo quesito che si incontra la questione del problematico in Heidegger. Il problema è infatti fondamentale per lo svelamento (ἀλήθεια) del modo d’essere più spontaneo dell’utilizzabile, ovverosia quello di essere autenticamente sé stesso prima che utile.
La questione viene affrontata sfruttando un esempio che semplifica il rovello: si consideri un martello, dunque un mezzo, e lo si intenda alla maniera d’essere dell’utilizzabile. Esso è impiegato per il fine che gli è predisposto: “È il martellare a scoprire la specifica ‘usabilità’ del martello” (§15), dice Heidegger.
Ed è viceversa il suo guastarsi a manifestare la sua semplice-presenza (§16). Inizialmente questo guasto verrà percepito come fastidioso in quanto la non-utilizzabilità improvvisa rende l’oggetto una cosa tra i piedi, salvo poi che l’individuo, oltre a sorprendersi di questa pruriginosa defezione, avrà da sorprendersi di un mondo pieno di oggetti che prima di essere utili sono dignitosamente sé stessi.
Si apre così un nuovo mondo che riqualifica gli oggetti quando funzionano perché vi è un soggetto consapevole dell’ambiente che lo circonda. Credo che queste argomentazioni abbiano una grande rilevanza non solo nella questione della tecnica ma anche nel campo dell’etica, in quanto non è detto che sotto la lente dell’utilizzabile cadano solo gli oggetti ma anche le altre individualità che in comunanza con noi sono-nel-mondo.
Viviamo in una realtà condivisa le cui individualità non devono solo saper vivere autenticamente rispetto a sé stesse, ma devono anche, condividendo il mondo, rispettarsi le une le altre. È necessario che ogni soggettività sappia corrispondere all’altra senza che la sua presenza depotenzi l’Altro. La discussione sulla contemplazione curiosa dell’utilizzabile penso dica molto circa una eticità originale che prenda piede dalla riflessione heideggeriana: se, com’è noto, per Heidegger ogni individualità si fa autentica comprendendosi nella morte e concependosi nel progetto (§49; §50; §65; §66), è intuibile come, in fondo, sia necessario un substrato etico affinché il progetto di qualcuno non inabiliti il progetto di qualcun altro.
Sono convinto che questo tipo di inflessione del ragionamento dall’utilizzabile all’etico interessi la genuinità della relazione umana nella misura in cui l’armonia nel rapporto emerga dalla comprensione e legittimazione del malfunzionamento. Se però l’utilizzabile malfunziona perché l’oggetto diventa difettoso, è normale chiedersi cosa faccia problema nelle relazioni umane.
Umanità malfunzionante
La relazione umana ha una caratteristica fondamentale, quella di soddisfare la voglia di mondo del soggetto: ogni individuo è per l’altro un evento irripetibile e imperdibile, e tale è perché ogni soggettività è unica. L’alterità non è un ostacolo al nostro mondo, ma è anzi l’apertura di un mondo diverso letto attraverso delle logiche che dipendono dall’esistenza insostituibile di ognuno. L’Altro è un mondo nei cui confronti dobbiamo disporci con curiosità perché ci apre a una possibilità alternativa delle cose, e per questo ogni individuo è occasione di potenziamento: ogni singola persona che incontriamo può rivoluzionare il nostro mondo.
Ogniqualvolta però si palesa la defezione del rapporto, si è portati a ricercare la matrice del problema non ottenendo nulla. E se l’impalcatura cade, è perché non si riesce ad accettare qualcosa di fondamentale, ovvero che l’avvenire del problematico è consustanziale alla relazionalità umana stessa, e accettarlo è forse quanto di più disagevole soffriamo come soggettività attive. Il venire a galla del malfunzionamento non è evento per cui possa essere rea alcuna delle individualità in relazione, ma è il fondamento stesso del rapporto, e pensare di togliere il problema significa levare il rapporto stesso. Se è inevitabile la relazione, così è inevitabile la problematicità.
Ognuno è un mondo e ogni soggettività è il proprio mondo e, con ciò, si può immaginare il rapporto umano come un mosaico i cui pezzi non potranno mai perfettamente combaciare. Nella più magnanima delle aperture, ogni soggettività rimane comunque ferma nella sua sensibile individualità. Per quanto ogni mondo mi si possa aprire, io rimango me stesso e l’Altro rimane sé stesso: posso assaporare il mondo altrui ammirandolo pure, ma il mio mondo rimane costitutivamente singolare.
Inoltre, affinché il mondo della soggettività possa aprirsi, è pure doveroso che la disposizione di ogni individuo sia (pro-)positiva: un’individualità che chiude il suo mondo all’Altro è un’individualità che si inabissa nelle sue stesse mura non potendosi superare grazie all’emersione di un mondo-altrimenti – nonché grazie all’esperienza aperta di un’altra soggettività. Se l’apertura eleva gli individui proprio grazie alla relazione, si prenda ad esempio un legame tra soggettività chiuse. Ci si ritroverà in una situazione di letale insoddisfazione: i soggetti giocherebbero il loro rapporto sulla base di una monotonia derivante dal mondo chiuso di ognuno che rende ogni individuo un buco nero per l’altro. È come un dialogo nel quale si è muti nel dire e sordi nell’accogliere.
Credo che la liquidità odierna delle relazioni si radichi proprio in questo, oppure ancora più spaventosamente nel profondo: non è oggi tanto la chiusura a costituire deficienza nei rapporti, ma il fatto che una realtà tanto pluralizzata e globalizzata spersonalizza i soggetti, rendendoli spogli di una loro identità. Il soggetto ha perso il suo mondo ed è analfabeta nella costruzione di una propria identità definita, e quando entra in relazione con un’altra soggettività non sa né come comunicarsi né cosa comunicare perché non ha nulla da dire.
Anche ammesso entrino in relazione soggetti che concepiscono un loro mondo, il malfunzionamento si presenterebbe perché l’associazione contempla individui che, nella loro attività, comunicano il loro mondo ed anzi in sé stessi sono un mondo. Le soggettività non solo fanno mondo e si relazionano a un altro mondo, ma ognuna si fa riassunto delle sue situazioni emotive e sintesi degli eventi che l’hanno riguardata. Per questo, l’essere-mondo del soggetto è filtrato dalla sua stessa unica configurazione esistenziale. E se ogni soggetto è un mondo in divenire, nella relazione deve fare i conti con qualcosa di consueto quando ad incontrarsi sono due mondi: deve scontrarsi con la problematica delle contraddizioni.
Le relazioni umane, a ogni modo, sono più di questa descrizione perché, come sappiamo, se è vero che il malfunzionamento costituisce un problema è anche vero che svela la più importante delle occasioni. L’essere-mondo di ogni soggetto non è una limitazione al rapporto, e il problematico che ciò comporta è riscritto quando propone agli individui l’opportunità di comprendersi meglio. Il fatto che ognuno sia un mondo unico non vuol dire che tra mondi ci sia incomunicabilità, tant’è vero che ogni soggetto tende costantemente ad avvicinare mondi diversi dal suo.
La disgregazione di un rapporto non è causata dal problema, ma da soggetti che devono meglio comprendersi e più genuinamente comunicarsi in quanto mondo. In questo modo il problema stesso diventa l’occasione più imperdibile che gli individui possano darsi, e così pure ciò che gli evidenzia l’autenticità del loro stare insieme. Non solamente, l’emersione di una problematicità nel rapporto può essere un modo per ricodificare le fondamenta della relazione. Col malfunzionamento è possibile riscoprirsi nuovamente: è possibile riscoprire sé stessi grazie all’esperienza del mondo altrui; è possibile riscoprire l’Altro nella sua apertura poetica; è possibile ripensare meglio la struttura di una relazione assolutamente imperdibile.
Per una riqualificazione del malfunzionamento nel contemporaneo
Se l’attualità non conferisce al problematico alcuna importanza, sarebbe auspicabile che viceversa venisse riqualificato, così che le soggettività stesse, quelle che d’altronde fanno la storia, possano potenziarsi. Non rispettare il problema significa non rispettare le soggettività in quanto tali: significa non garantire loro una virtualità che fa capo all’esperienza dell’immaginazione, della Libertà e anche a quella della speranza; la speranza di un futuro dove l’evenienza spiacevole del malfunzionamento non ci sia. Significa pure peggiorare indelebilmente il rapporto tra l’individualità e il mondo: esso verrebbe ridotto a mezzo utilizzabile. Significa ingrigire significativamente l’autenticità delle relazioni umane.
Se c’è qualcosa nel contemporaneo che sta cortocircuitando, quello è il soggetto: ritengo che una rilettura del malfunzionamento sia un buon punto di partenza per una riabilitazione non solamente della problematicità, ma anche della soggettività nell’auspicio che, infine, possa dirsi contenta di essere sé stessa.

Bibliografia e sitografia essenziale
Per l’etimologia del termine “problema”, rimandiamo al dizionario online Treccani, al seguente URL (consultato in data 07/06/2022): https://www.treccani.it/vocabolario/problema/#:~:text=probl%C3%A8ma%20s.%20m.%20%5Bdal%20lat.,%2C%20proporre%C2%BB%5D%20(pl.
Per un più esteso approfondimento della questione dell’utilizzabile all’interno della teoria heideggeriana, consiglio la lettura de La questione della tecnica, M. Heidegger, goWare, Firenze, 2017.
In punta di piedi, mi permetto di riportare una mia più estesa ricerca edita Einaudiblog riguardante una possibile eticità dell’ontologia heideggeriana, nella sua peculiare considerazione del mondo in quanto inter-condiviso tra gli Esserci: https://www.einaudiblog.it/laltro-come-missione-etica-nella-filosofia-heideggeriana/
Segnalo Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Laterza, Bari, 2018) per uno sguardo esteso sulla problematicità delle relazioni nel contemporaneo.
Un approfondimento interessante sulla questione del capitalismo nel contemporaneo, con originale attenzione alla costituzione ontologica delle soggettività è rinvenibile in: O. Marquard, Apologia del caso, il Mulino, Bologna, 1991.