Il pluralismo, secondo Robert Dahl, è al tempo stesso esito e presupposto essenziale di ogni democrazia.
Nel suo saggio I dilemmi della democrazia pluralista (Società Aperta, 274 pag., 18 €, 2021), il politologo americano affronta affronta in modo chiaro e incisivo i termini principali del problema del pluralismo democratico, uno “strano oggetto” che, nonostante i suoi difetti, ci ha permesso di progredire nel corso della storia.
Su Scenari proponiamo la brillante lettura dell’opera che introduce il saggio firmata da Salvatore Veca.
Robert Dahl è stato uno dei più autorevoli scienziati politici contemporanei e, certamente, uno dei più influenti studiosi di teoria della democrazia. Il suo libro, A Preface to Democratic Theory (1956), è ormai un classico e i suoi studi sulla poliarchia sono noti non solo nell’ambito della comunità scientifica, ma anche in quello della opinione colta e informata sulle principali caratteristiche del funzionamento di quelle che, come amava dire Norberto Bobbio, potremmo chiamare le “democrazie reali”. Dahl è convinto che le nostre idee sulla democrazia, come quelle sul liberalismo e sull’anarchia, sul capitalismo o sul socialismo, risentano in modo marcato del fatto di essersi formate e consolidate sullo sfondo dei secoli XVIII e XIX (se non prima) e, in ogni caso, di essersi organizzate in nuclei e modelli di credenza politica e morale prima che «il mondo in cui viviamo si fosse rivelato in tutta la sua pienezza». Questo potrebbe rendere conto del perché una soddisfacente teoria della democrazia è a tutt’oggi lungi dall’essere disponibile e del perché, spesso, le nostre analisi dei fatti e delle istituzioni dei regimi democratici oscillano fra descrizioni e prescrizioni, aspirazioni e valutazioni che difficilmente risultano a volte fra loro coerenti.
Come ho proposto nel mio Il mosaico della libertà, un’immagine appropriata per delineare la fisionomia della teoria democratica è quella di un mosaico, fatto di tante tessere. Si osservi che ogni distinta tessera deve la sua struttura a una contingenza storica, ha le sue radici in un contesto determinato e situato, può oscillare nel tempo fra la dimensione normativa e quella positiva. Spesso può darsi il caso che una tessera sia stata delineata per ragioni e con scopi differenti da quelli che le attribuiamo oggi, quando osserviamo il mosaico. È certamente vero che, alla base di qualsivoglia teoria della democrazia, ritroviamo una tensione essenziale tra fatti e valori, tra descrizioni e prescrizioni, come osservava Giovanni Sartori nel suo pionieristico Democrazia e definizioni del 1957 e come aveva ribadito con forza nel suo Theory of Democracy revisited (1987). Il punto è, tuttavia, che questa tensione deve esprimersi in una forma appropriata e coerente e che una mappa affidabile delle «democrazie reali», delle loro caratteristiche e dei loro dilemmi sembra essere tuttora un obiettivo scientifico (e politico) importante. La democrazia liberale sembra a volte uno strano oggetto, un artefatto politico e istituzionale, in cerca di teoria. Una teoria, in ogni caso, che si situa nel quadro di una prospettiva evoluzionistica, caratterizzata da mutazioni contingenti, salti e discontinuità del tutto prive di teleologia. Come scrive Dahl, il termine “democrazia” è come una “catasta di mobili vecchi nella soffitta di una vecchia casa che dopo duecentocinquant’anni circa di ritocchi continui appare sempre più grande”.
I dilemmi della democrazia pluralista può costituire, su questo sfondo, un contributo utile alla definizione di alcuni tratti, almeno, della mappa di una teoria plausibile della democrazia fra descrizioni e prescrizioni. Dahl affronta, in modo chiaro e incisivo, i termini principali del problema del pluralismo democratico. Il problema è generato dalla tensione fra i benefici derivanti dall’esservi organizzazioni o sottosistemi relativamente autonomi e indipendenti in qualsiasi regime democratico su larga scala (poliarchia) e i costi derivanti dalla costellazione pluralista. Lo potremmo chiamare il dilemma «Rousseau-Tocqueville». Per Rousseau l’esservi società parziali, ciascuna con i propri interessi e con le proprie regole, risulta incompatibile con la possibilità di una formulazione corretta della volontà generale. Tocqueville, all’inverso, connette strettamente la libera arte di associarsi, basata sul diritto di coalizione, alla realtà e allo sviluppo della democrazia. Da un lato il processo democratico è concettualizzabile nei termini di una correlazione diretta fra valori, preferenze o interessi individuali e valori, preferenze o interessi collettivi; dall’altro, esso è l’esito di relazioni non fra attori individuali ma fra coalizioni stabili di individui o attori collettivi. Fra gli individui, la cui appropriata concettualizzazione costituisce in ogni caso un ingrediente ineludibile di una teoria della democrazia, e le scelte collettive si inseriscono i «corpi intermedi». Così, sembra che nelle democrazie reali si intreccino più appartenenze o più identità collettive per gli individui; e che a ciò si connetta una molteplicità di definizioni degli interessi stessi. La dimensione della cittadinanza è una soltanto fra le differenti appartenenze, anche se ha carattere prioritario; il mio interesse di cittadino è compatibile con il (anche se differente e parzialmente divergente dal) mio interesse come membro di una qualche organizzazione relativamente autonoma e indipendente.
La realtà della poliarchia sembra combinare caratteristiche che derivano dall’individualismo (che Dahl identifica con un’accezione ideale della democrazia) con caratteristiche che derivano dal pluralismo. Il punto è che il pluralismo non è un fatto estraneo alla logica della democrazia; né costituisce un incidente o un esito bizzarro che alcuni possono considerare desiderabile e altri perverso. Il pluralismo è piuttosto intrinsecamente connesso all’esservi democrazia (su larga scala). Esso costituisce tanto un esito del processo di democratizzazione quanto un suo presupposto. In un senso una costellazione pluralista è una precondizione per la democrazia; in un altro, essa ne è un effetto e, per così dire, un modo per garantirne il funzionamento.
L’esistenza di organizzazioni indipendenti risulta, in questa prospettiva, un fatto che ha valore. Essa è altamente desiderabile in quanto il pluralismo coincide con un insieme di mezzi che sono necessari per il buon funzionamento del processo democratico, concorrono alla riduzione del potere coercitivo del governo, tutelano quindi la libertà politica e promuovono il benessere. Il pluralismo corrobora e preserva la fondamentale condizione liberale del “governo limitato”. Tuttavia, la stessa esistenza di organizzazioni indipendenti risulta poter essere un disvalore: essa implica che le organizzazioni possano generare danni. Il poter arrecare danni e il poter produrre benefici dipendono simultaneamente dal fatto che le organizzazioni sono autonome e relativamente indipendenti, anche rispetto al governo. Il problema del pluralismo democratico (che ha carattere universale dato che non vi è poliarchia che non preveda una costellazione pluralista e che il processo stesso di democratizzazione di regimi autocratici vede come protagoniste organizzazioni collettive allo stato nascente) si riformula allora in questo modo: se le organizzazioni indipendenti devono possedere una certa autonomia per poter produrre benefici e devono, al tempo stesso, poter essere controllate per evitare i danni, quanta autonomia e quanto controllo, con quali mezzi, in rapporto a quali attori, su quale sfera o gamma di azioni sono opportune? E se sono opportune, sono anche politicamente possibili?
Nella formulazione di Dahl, l’autonomia si contrappone al controllo. E la relazione variabile fra autonomia e controllo è il “problema soggiacente” sia ai dilemmi della democrazia sia, più in generale, alle condizioni dell’ordine politico. Essere autonomi vuol dire non essere sotto il controllo di qualcuno. D’altro canto, essere sotto il controllo di qualcuno vuol dire che le proprie azioni e le proprie preferenze sono in qualche modo dipendenti o modellate dalle azioni e dalle preferenze di qualcun altro. Autonomia e controllo non implicano questioni di «tutto o niente», ma di «più o meno»: si tratta di gradi o di variazioni su una scala di valori. La prospettiva di Dahl si contrappone alla teoria del dominio per cui le alternative, nella vita politica e sociale, sono secche: o si è dominati o si domina. Sembra più plausibile ritenere che la relazione di controllo possa evolvere verso una qualche forma di mutualità o reciprocità o cooperazione grazie al consolidarsi dell’autonomia relativa. È esattamente la produzione di forme di controllo reciproco e di scambio a costituire uno degli esiti politicamente più rilevanti dell’emersione e del consolidamento di organizzazioni indipendenti, siano esse istituzioni di governo o istituzioni politiche (partiti e gruppi di interesse) o istituzioni economiche (imprese e sindacati). L’esercizio del diritto di Tocqueville a coalizzarsi genera una dispersione del potere che tende a trasformare il dominio in un complesso sistema di controlli reciproci. La complessità del sistema dipende anche dal fatto che spesso istituzioni e organizzazioni possono originariamente far parte del contesto predemocratico della comunità politica o, come dice Dahl, dello stato-nazione. A fronte del beneficio della dispersione, Dahl registra i costi della costellazione pluralista: i) le organizzazioni tendono a stabilizzare le disuguaglianze, in virtù delle disuguaglianze nelle risorse che esse accumulano e investono e degli interessi che tutelano, promuovono e definiscono. ii) L’influenza dei cittadini organizzati è maggiore di quella dei colleghi non organizzati. E ciò viola il principio di Rousseau dell’uguaglianza politica degli individui. L’idea di Rousseau della volontà generale o dell’interesse pubblico evapora sotto la pressione delle società parziali: la frammentazione pluralistica degli interessi deforma e rende priva di senso la nozione stessa di «coscienza civica». iii) Questa frammentazione si riflette a sua volta sulla distorsione dell’agenda delle questioni pubbliche: le organizzazioni tendono a prendere in maggiore considerazione le alternative che promettono benefici immediati e di breve termine a un numero relativamente ristretto di cittadini organizzati piuttosto che le alternative che promettono benefici sostanziali e di lungo termine a un numero più ampio di cittadini non organizzati. Infine, iv) le organizzazioni tendono a sottrarre alle istituzioni della rappresentanza politica il controllo finale sulle decisioni e sulle scelte che hanno rilevanza o effetti collettivi. Dahl sostiene che questo è un caso di alienazione del controllo finale sull’agenda. I quattro tipi di danni indicati, derivanti dall’esservi costellazioni pluraliste nella poliarchia, sono disvalori alla luce dei principi della democrazia ideale perché, nella buona sostanza, essi comportano una violazione del principio dell’uguaglianza politica (una testa, un voto; ciascuno vale per uno, non più di uno, non meno di uno) e una smentita dell’inferenza dagli uguali diritti di cittadinanza.
Il libro di Dahl è un esame accurato della famiglia di questioni che sono implicite nel problema del pluralismo democratico. L’autore discute con cura le importanti variazioni che gli assetti pluralisti presentano in un’analisi comparata di differenti esperienze nazionali. Occorre riconoscere che gli assetti pluralisti variano notevolmente da paese a paese sulla base delle differenze nel tipo di conflitto politico, nei tipi di istituzioni politiche e nei gradi di concentrazione e dispersione, esclusività e inclusività delle principali organizzazioni. Si formula quindi la questione se i difetti del pluralismo siano una conseguenza del fatto che la poliarchia costituisce una realizzazione incompleta della democrazia ideale. Dovremmo democratizzare la poliarchia? E quali dilemmi ci troveremmo di fronte, nell’impresa di realizzare il progetto democratico, assunto come progetto essenzialmente incompiuto? Infine, quanto dei difetti del pluralismo dipende dal fatto che la poliarchia esiste solo in paesi caratterizzati da economie di mercato con diritti di proprietà privata? E quanto dipendono da questo nesso cruciale fra democrazia e capitalismo gli orientamenti civici, le credenze, le preferenze e gli atteggiamenti valutativi dei cittadini delle poliarchie? Si osservi che la connessione fra democrazia e capitalismo avrebbe perso nei primi anni del ventunesimo secolo il suo carattere necessario per assumere quello della contingenza. Il capitalismo politico dell’impero cinese ne è il modello paradigmatico. (Un capitolo finale è dedicato specificamente alle esperienze degli Stati Uniti e alle peculiarità della via nord americana alla costellazione pluralista, spesso assunta come il modello del pluralismo e qui opportunamente identificata come un modello di pluralismo.)
Dahl formula con precisione e passione una lista di interrogativi e di alternative e si sofferma sia nell’indicazione dei costi e dei benefici di ciascuna scelta politicamente praticabile sia nella identificazione dei vincoli entro cui, inevitabilmente, siamo tenuti a scegliere. Si tratta di scelte difficili. Ma le scelte difficili sono ancora scelte. I dilemmi e le difficoltà esaminate e descritte con cura in questo libro non giustificano l’inazione. Sono essenzialmente considerazioni da tenere ben chiare in mente per avere un’idea non irrealistica o implausibile della natura delle alternative cui siamo di fronte. È probabile che «anche le soluzioni migliori comporteranno svantaggi a volte gravi. Ma dire che una soluzione comporta degli svantaggi non è mai una buona ragione per preferire il peggio al meglio». Credo si tratti di una buona filosofia che il lettore può fare utilmente propria nella riflessione sulla mappa dei problemi che una soddisfacente teoria della democrazia ci pone di fronte come sfida, nella teoria come nella pratica e nella discussione pubblica, nelle differenti fasi della sua storia e delle sue trasformazioni.
Si osservi, in conclusione, che I dilemmi della democrazia pluralista è un libro pubblicato in originale nel 1982, una manciata di anni prima del sisma geopolitico dell’89. Lo sfondo dell’analisi del pluralismo è nettamente quello della costellazione nazionale, per dirla con Juergen Habermas. I riferimenti alle istituzioni o alle organizzazioni internazionali o transnazionali sono esigui e non pertinenti per l’analisi del pluralismo democratico. Nei differenti regimi democratici degli anni ’80 il pluralismo ha ruoli differenti: i sottosistemi tendono ad acquisire più autonomia, sottraendosi in buona parte al controllo e dando luogo a forme di organizzazioni degli interessi rigide ed escludenti, a forme di neo-corporativismo che includono frazioni di cittadinanza, escludendone nettamente altre, e dando così luogo a fenomeni di erosione e di dissipazione del vincolo sociale negli stati-nazione. In altri casi il pluralismo ha a che vedere con la varietà delle culture e delle visioni o prospettive di valore politico, etico o religioso che caratterizzano le differenti, divergenti e confliggenti lealtà di cittadinanza. (Questo, in particolare, sarà oggetto della ricerca in filosofia politica normativa sul pluralismo delle “dottrine comprensive” di John Rawls nelle lezioni di Liberalismo politico.) Nelle prime fasi della globalizzazione, dopo la fine della Guerra fredda, si avvierà il processo di indebolimento delle risorse di autorità del potere politico locale rispetto ai poteri sociali globali e, in particolare, a quelli del capitalismo finanziario e predatorio, del fondamentalismo religioso, del populismo sovranista e della galassia informatica.
Così, la catasta dei vecchi mobili di Dahl in soffitta sarà messa a dura prova e il mio mosaico si arricchirà di nuove, impreviste e vivide tessere, mentre altre perderanno luce e colore. Ma il problema soggiacente della relazione variabile fra autonomia e controllo, cui è dedicato I dilemmi della democrazia pluralista, persisterà nel tempo, in contesti mutati e a volte radicalmente innovativi. Sinché la democrazia liberale, con tutti i suoi deficit e le sue fragilità, non resterà il meglio che politicamente siamo riusciti a combinare, fra prove ed errori, in quella singolare catena di generazioni che chiamiamo storia.