BILLY BUDD, Melville secondo Vitaliano Trevisan

Scritta tra il 1889 e 1891 e pubblicata postuma soltanto nel 1924, Billy Budd è l’ultima opera di Herman Melville. Si tratta del ritorno alla forma narrativa dell’autore americano dopo quasi trent’anni di poesia, una storia di mare ambientata su una nave da guerra inglese alla fine del Settecento che ci parla in forma simbolica della profondità e della gratuità del Male.

Nonostante Billy Budd non figuri tra le opere più conosciute di Melville, o forse proprio per questo, il romanzo breve catturò a inizio anni Duemila l’attenzione di Vitaliano Trevisan per “la sua forma aperta a contenuti molteplici” e “la complessità senza compromessi che crea sempre nuovi, forse infiniti, livelli di significazione”.

Le sue riflessioni sul libro confluiscono in un breve saggio critico, scritto nel 2004 e pubblicato quest’anno da Oligo Editore dal titolo Billy Budd Billy Budd. An Inside Reading (Oligo Editore, 60 pagine, 12,00 €, 2022)

Per gentile concessione dell’editore, proponiamo su Scenari un breve ritratto dei due personaggi principali della vicenda: il marinaio Billy Budd e il maestro d’armi John Claggart.

Billy Budd è giovane, biondo, occhi cerulei, generoso, forte, un trovatello quasi sicuramente figlio illegittimo di un nobile – «L’origine nobile era evidente in lui come in un purosangue» –, un barbaro onesto, per usare ancora le parole di Melville, innocente come doveva essere stato Adamo, prima dell’incontro con il «civile serpente». Innocente, ma non perfetto, fisicamente egli è affetto da «un’imperfezione vocale», e la sua voce, in altri momenti così melodiosa e addirittura musicale – Billy canta benissimo –, rivelava «sotto l’improvvisa provocazione di una forte emozione […], un’esitazione organica», un balbettio o addirittura, come nella scena fatale, una totale afasia. E qui, presentando Billy Budd, Melville ci dice qualcosa di fondamentale per la nostra lettura interna: «L’ammissione di tale imperfezione nel Bel Marinaio dovrebbe dimostrare non solo che egli non è presentato come un eroe convenzionale, ma anche che la storia di cui è protagonista non è un romanzo». Dunque, la cosa è chiara fin dall’inizio: Billy Budd è sì una storia che si sviluppa in forma narrativa (vedi sottotitolo), ma non è un romanzo e, aggiungiamo noi, non è neppure una novella. È narrazione, nessun dubbio su questo, ma è una narrazione di tipo particolare, dovremmo scrivere “meta-testuale”, ma questo termine non ci piace, non è adatto, crea ulteriore confusione. Forse qualcuno ha già scritto sull’argomento un saggio fondamentale e definitivo, ma noi abbiamo un’idea che ci piace: Billy Budd è una narrazione non interiore, ma interna, come se lo scrittore non stesse affatto cercando di scrivere la storia, ma la storia della storia, quella che di solito egli tiene per sé, non un meta-testo dunque, ma un sottotesto, un testo interno. Più di qualcuno, nel mare critico-bibliografico in cui comunque Billy Budd non rischia mai di affogare, ha usato la parola tragedia. No, non si tratta nemmeno di questo, perché esso sta alla tragedia allo stesso modo che al romanzo, ovvero come testo interno da cui la tragedia, se del caso, com’è il caso dell’opera di Britten, può derivare. È il processo di scrittura a essere fondamentale qui, perché Melville, già dopo questi primi due anni di lavoro, è convinto di aver finito, deve solo mettere tutto in bella copia. Nel corso della stesura la storia ha preso forma e un nuovo personaggio, oltre il bel marinaio, è stato introdotto e si è imposto all’attenzione di Melville e ha modificato la trama originaria (Billy Budd partecipava davvero a un ammutinamento e perciò veniva impiccato).

Si tratta di John Claggart, maestro d’armi della nave da guerra, ovvero capo della polizia, i cui lineamenti «eccetto il mento, si stagliavano nitidi come in una medaglia greca». Anche di lui sappiamo poco o nulla, non si sa nemmeno se sia inglese, forse, scrive Melville riferendo dei pettegolezzi sul suo conto che serpeggiano tra i marinai, è uno chevalier arruolatosi volontario nella marina inglese, per scontare così una qualche colpa; e anche il suo aspetto fisico è un problema, e malgrado Melville lo descriva accuratamente, dice subito che gli sarà impossibile «cogliere nel segno». E del resto, come sarebbe possibile rendere una descrizione fisica cogliendo nel segno, nel caso di John Claggart, trentacinquenne magro, alto e di bell’aspetto, a parte il mento, come abbiamo visto, e quella sua strana complessione, quel pallore così strano e, scrive Melville, dovuto solo in parte all’isolamento che il suo ufficio comportava, e che suggeriva piuttosto «l’esistenza di qualcosa di imperfetto o di anormale nella sua costituzione e nel suo sangue», qualcosa di indescrivibile dunque, più una tensione che un tratto, una forza interna che l’intelligenza, di cui Claggart è più che dotato, maschera alla perfezione. E qui, più che ricordarci uno Jago o un Cassio, come plausibilmente e da più parti è stato fatto notare, Claggart ci ricorda Amleto, un Amleto peraltro totalmente malvagio ed esente da dubbi, per il suo essere ciò che non si mostra.

Le parole, e i riferimenti, che Melville impiega per descrivere ciò che non si può descrivere, non potrebbero essere più chiare: il maestro d’armi Claggart è un perfetto esempio di quella «Depravazione naturale: una depravazione secondo natura», che trova i suoi casi esemplari non tra i bruti di stampo volgare, ma, invariabilmente, tra gli intellettuali, in nature dotate di intelligenza raffinata, com’è il caso di Claggart; e la civiltà, ci ricorda Melville, «specialmente quella di tipo più austero, favorisce questa depravazione. Essa si copre col mantello della rispettabilità». Ma Claggart non è nel mantello color dell’inchiostro, né nelle frasi di circostanza, la sua natura egli la serba al suo interno, e lì, nel suo cuore, essa perde ogni freno, non obbedisce più alla ragione e ha ben poco a che fare con essa, tranne che per usarla «come uno strumento ambivalente per mettere in atto l’irrazionale». Questi uomini, ci dice Melville, sono dei veri folli; pure, essi sono lucidi e controllati, tanto che una intelligenza media non è in grado di cogliere la loro demenza, e il loro metodo e modo di agire nel mettere in atto i loro disegni appaiono sempre perfettamente razionali. Ecco, Claggart è un tipo del genere, e la sua è una natura malvagia innata che fino a quel momento, fino a quando non incrocia il suo opposto, ovvero Billy Budd, il bel marinaio, colui che è ciò che si mostra, egli era riuscito a tenere sotto controllo; ma ora, quella natura sovraccarica di energia, ha trovato in Billy Budd il suo catalizzatore, e cosa può fare Claggart, scrive Melville, se non ripiegarsi in se stesso e, «come lo scorpione, di cui solo il Creatore è responsabile, recitare fino in fondo la parte assegnatagli?».  La sola esistenza di Billy Budd è già di per sé un pericolo mortale per una simile natura che, al cospetto di colui che è ciò che si mostra, come per un riflesso condizionato, inizierà a ripiegare su sé stessa con il movimento sinuoso di un serpente che si appresta a colpire. E Claggart colpirà Billy Budd con la velenosa e infamante accusa di essere al centro di un complotto di ammutinamento, accusa alla quale Billy, incapace di parlare per difendersi, reagisce colpendo a sua volta Claggart con un pugno di tale potenza da determinarne la morte; è questo l’atto che porterà alla sua condanna all’impiccagione.



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