Luce e democrazia. Intervista a Fabrizio Crisafulli sulla Lysfest di Roskilde

La casa editrice Lettera Ventidue ha da poco pubblicato Light and the City. Fabrizio Crisafulli and the RUC students at Roskilde Lysfest, volume curato da Bjørn Laursen, docente di Performance Design all’Università di Roskilde in Danimarca. Il libro, in inglese e italiano, corredato da numerose fotografie e documenti, e composto da contributi di diversi studiosi e operatori, nasce come riflessione su una importante esperienza-pilota nel campo dell’arte urbana, svoltasi negli anni 2013-2017 a Roskilde, l’antica capitale danese, parte dell’area metropolitana di Copenaghen. Si tratta della Lysfest (“festa della luce”), nella quale ha avuto un ruolo-guida il regista teatrale e artista visivo italiano Fabrizio Crisafulli, al quale peraltro l’Università di Roskilde (RUC) ha conferito nel 2015 la laurea honoris causa per gli esiti innovativi del suo ormai più che trentennale percorso. Un itinerario artistico caratterizzato da una costante ricerca teorico-pratica sulla luce come elemento poetico del teatro e delle installazioni, e dal progetto “teatro dei luoghi”, nelle cui realizzazioni il luogo dove l’intervento viene creato assume rispetto all’ideazione dell’opera un ruolo generativo simile a quello che nel teatro tradizionale è svolto dal testo. Su questi aspetti, Crisafulli ha pubblicato anche i volumi Luce attiva. Questioni della luce nel teatro contemporaneo (Titivillus 2007) e Il teatro dei luoghi. Lo spettacolo generato dalla realtà, (Artdigiland, 2015).

Ludovico Cantisani: Come è nato il tuo coinvolgimento nella Lysfest di Roskilde?

Fabrizio Crisafulli: Nell’estate 2012 mi contattò Bjørn Laursen, docente della RUC e studioso di Performance Design, proponendomi di curare a Roskilde la sezione artistica della Lysfest, festa urbana dedicata alla luce che avrebbe dovuto inaugurarsi nell’autunno dell’anno successivo. Inizialmente avevo dei dubbi. Le “feste della luce”, nei loro diversi esiti in varie parti del mondo, rappresentano ormai un “genere” che sento in linea di massima lontano dal mio modo di operare. Ma, via via che Bjørn mi spiegava le intenzioni di fondo del progetto e che discutevamo, mi fu chiaro che saremmo potuti andare in una direzione molto interessante, radicata nella città e di tipo processuale. L’iniziativa, fortemente voluta dalle amministrazioni locali e dall’università, si profilava come un’operazione sull’identità della città, con il coinvolgimento di forze locali e nel contesto di un progetto più ampio di rigenerazione urbana.

Cosa ti ha colpito di più di Roskilde?

Le peculiarità legate al fatto che è stata una città importantissima in passato: inizialmente motore della civilizzazione vichinga e poi città potentissima nel medioevo e capitale della Danimarca fino al 1443, prima di Copenaghen. Roskilde ha un centro storico di notevole interesse ed è sede del più importante edificio religioso della Danimarca: la Domkirke, dove sono sepolti quasi tutti i regnanti del paese, che è stato per secoli grande luogo di pellegrinaggio ed è oggi importante meta turistica. Col tempo, la vicinanza di Copenaghen ha messo però in secondo piano, nella percezione collettiva, l’identità storica della città, facendola in qualche misura percepire come periferia della capitale. La città è allo stesso tempo sede della RUC, università che è stata all’inizio degli anni Settanta all’avanguardia, in Europa, nell’introdurre nuovi sistemi didattici, l’interdisciplinarità, il lavoro di gruppo, i rapporti della formazione con le realtà produttive e culturali esterne. Il progetto Lysfest nasceva dalla volontà di lavorare sull’identità di Roskilde, incrementando allo stesso tempo le sue relazioni con l’università.

Nel tuo scritto “Modellare la luce, programmare la luce”, incluso nel libro, affermi che uno degli aspetti che più ti hanno intrigato della proposta di Bjørn Laursen stava nel fatto che a creare le installazioni luminose per la “festa” non sarebbero stati professionisti esterni, ma giovani residenti in pianta più o meno stabile a Roskilde, studenti della RUC senza peraltro una specifica preparazione nel campo del lighting design. Come ti sei trovato a lavorare con questi giovani danesi, e come mai nell’accogliere la proposta di questa supervisione artistica hai dato tanta importanza al carattere “autoctono” dell’iniziativa? Quanto si ricollega questa dimensione alla tua lunga ricerca sul teatro dei luoghi?

L’idea di coinvolgere forze locali è stata decisiva per me. Nel “teatro dei luoghi” la partecipazione al lavoro di gente del posto costituisce sempre un valore aggiunto. Apporta al procedimento memoria vissuta, conoscenza dei luoghi, processo. È stato così anche nell’esperienza della Lysfest, nella quale il ruolo svolto dagli studenti e dai cittadini è stato fondamentale nel conferire senso al progetto.

Per realizzare la Lysfest avete spento l’illuminazione pubblica di tutto il centro storico, così da far meglio risaltare le installazioni. Oltre agli studenti che hai accompagnato nella realizzazione delle opere, che rapporto hai intrattenuto con la cittadinanza di Roskilde? Quanto pensi sia stata importante la dimensione comunitaria e anche “politica”, nelle varie edizioni della Festa?

La scelta di oscurare il centro storico durante la preparazione e lo svolgersi dell’evento era legata non solo alla necessità di far risaltare le installazioni di luce, ma anche a quella di cambiare radicalmente l’atmosfera della città durante la preparazione e poi lo svolgimento dell’evento, in modo anche da favorire le relazioni e l’interscambio tra le persone. Il buio è stato importantissimo in questo senso. Ed è stata una scelta indirettamente “politica”. Joy Mogensen, sindaco di Roskilde negli anni della Lysfest, e in seguito Ministro danese della Cultura, nella prefazione al libro descrive l’esperienza dei cittadini che si raccoglievano attorno alle installazioni di luce come intorno a un fuoco, a discutere e pensare, insieme agli studenti, le soluzioni per i singoli lavori, e, in prospettiva, per la città. E fa considerazioni molto interessanti sulla necessità del “buio” in una democrazia. Sul bisogno di contrastare, anche metaforicamente, l’eccesso di illuminazione, la perdita delle sfumature e della penombra, e, con essa, di enclave di vicinanza nella vita contemporanea. Parla della penombra come importante condizione dell’incontro. Mi ha fatto molto pensare alle riflessioni di Paul Virilio su quella che lo studioso francese chiamava la “sovraesposizione” nel mondo contemporaneo. Nelle cinque edizioni della Lysfest centinaia di persone si sono confrontate sui siti, la loro storia, le loro prospettive, con quel senso di vicinanza che si crea nella penombra. E questo è stato senza dubbio uno degli aspetti più interessanti del progetto.

Nel contesto della Lyfest, cosa ti ha lasciato l’interazione con gli studenti?

È stata per me molto importante e, come sempre succede nel rapporto con gli studenti, mi ha insegnato tanto. Ho verificato, tra l’altro, come la crescita della conoscenza concreta dei siti e, allo stesso tempo, degli strumenti che avevano a disposizione per lavorare, abbia facilitato il formarsi in loro di un’affezione e di un senso di appartenenza ai luoghi, e di una fiducia nel fare concreto; cose che reputo estremamente importanti in un’epoca di operatività virtuale e di rapporti a distanza

Nel 2015 e nel 2016 hai realizzato due tue installazioni, Indramninger (“Inquadrature”) e Impulse. Per come ne parli nel libro sembrano due opere piuttosto differenti l’una dall’altra, tanto più che Indramninger ha riguardato un complesso tombale barocco all’interno della cattedrale di Roskilde, mentre Impulse un modernissimo termovalorizzatore. Ci puoi parlare di come, sia a livello tecnico che a livello creativo, hai concepito e realizzato le due installazioni di luce? Partiamo magari da Indramninger.

Sono stati in effetti due lavori parecchio differenti. Molto artigianale Indramninger, molto tecnologico Impulse. Ma non lo erano solo per questo. L’idea di realizzare Indramninger nella grande cattedrale è nata dall’improvvisa disponibilità, in un’edificio costantemente impegnato da attività religiose e turistiche, di uno spazio molto importante della navata centrale, il coro, dove si trova un complesso tombale barocco di grande raffinatezza, che in precedenza avevo osservato a lungo. Lo stimolo ad intervenire all’interno della cattedrale mi veniva anche da quello che ritenevo uno degli avvenimenti più emblematici della Lysfest, che avevo seguito nella prima edizione: i visitatori venivano invitati a entrare nella cattedrale totalmente oscurata, la sera dell’inaugurazione, portando con sé proprie torce elettriche. Durante la serata, centinaia e centinaia di persone si succedevano all’interno del grande edificio, puntando a loro piacimento le torce sui dettagli dell’architettura, le sculture, i dipinti, le decorazioni. L’esito era elettrizzante: un ambiente in continuo cambiamento, un brulicare di energia, che sembrava unire in sé l’idea della comunità e quella del singolo, dato che ogni visitatore decideva liberamente cosa illuminare. Con Indramninger ho voluto in un certo senso “fiancheggiare” quell’evento così significativo, secondo una mia visione. Utilizzando dei semplici mascherini applicati a delle lavagne luminose, ho inquadrato alcuni dettagli delle sculture dei quattro sarcofagi seicenteschi con delle sagome di luce, riconfigurandone la presenza e le relazioni nello spazio, e creando tra essi nuove associazioni, senza allo stesso tempo mandare luce nell’ambiente, in modo da preservare le condizioni di oscurità necessarie all’intervento dei visitatori.

Qual è stata invece la concezione alla base di Impulse?

Diversamente da Indramninger, Impulse è stato un lavoro programmato con molto anticipo, che, come dicevo, ha impiegato alta tecnologia. L’ho realizzato al grande termovalorizzatore di Roskilde, notevole struttura progettata dall’architetto olandese Erick van Egeraat, inaugurata nel 2014: un edificio alla periferia della città, una sorta di grande “scultura”, sagomata come un origami, con un rivestimento metallico costellato di aperture circolari, visibile da grande distanza. La Energy Tower, come viene chiamata, ha assunto subito nell’area un forte valore simbolico e identitario, per la sua importanza visiva e la sua funzione, e per il dialogo che instaura con l’altra grande presenza nel territorio, quella storica della Domkirke, distante 3 km in linea d’aria. Come è avvenuto per il nuovo termovalorizzatore di Copenaghen, il Copenhill di Bjorke Ingels, sulla cui copertura è stata installata una pista da sci, sono state messe a frutto le caratteristiche fisiche dell’edificio per dotarlo di una ulteriore funzione, diversa da quella principale. Con una simile logica aperta e immaginifica, l’architetto e lighting designer Gunver Hansen ha installato sulla Energy Tower un sistema di 220 fonti LED, collocate nello spazio retrostante il rivestimento metallico dell’edificio, da mettere a disposizione come “strumento” per interventi di tipo artistico o segnaletico, recuperando quindi, in forma nuova, due delle più importanti funzioni delle antiche cattedrali. Ed ho avuto il piacere, in occasione della Lysfest 2016, di essere il primo artista invitato a realizzare un suo lavoro – Impulse, appunto – impiegando quel sistema, dopo l’installazione inaugurale della stessa Hansen. Impulse era uno “spettacolo” basato su una precisa partitura, che potrei definire di tipo “musicale” per come il lavoro era organizzato compositivamente e ritmicamente, con crescendo e diminuendo, e con fughe e contrappunti di masse cromatiche. Il lavoro era percepibile da grande distanza, ed ha quindi funzionato anche da segnale a scala territoriale del fatto che qualcosa stava avvenendo in città: la Lysfest, appunto, alla quale gli studenti stavano contemporaneamente lavorando. Un video di Impulse, in buona parte costituito da riprese dall’alto realizzate dal grande fotografo Jan Kofod Winther, noto per le sue straordinarie immagini del territorio danese ripreso dall’aereo, e dal videomaker della RUC Mads Folmer, è disponibile online.

Nel libro fai delle citazioni storiche sia per quanto riguarda Indramninger e il tuo particolare uso delle lavagne luminose, che ogni volta, scrivi, ti fa pensare “a Loie Fuller, alla cura che aveva nell’inventare, predisporre, adattare manualmente i propri apparecchi, da lei pensati prima ancora che come strumenti in sé, in ragione degli elementi con cui dovevano interagire”; sia per quanto riguarda Impulse, realizzando il quale, scrivi ancora, indicavi a un tecnico “le operazioni da compiere al suo laptop: accensioni, spegnimenti, assolvenze, dissolvenze, cambi di colore e via dicendo. Eravamo collegati in wi-fi col sistema dei LED interni all’edificio e potevamo quindi vedere all’istante e a distanza gli esiti delle singole scelte, che di volta in volta confermavo o sulle quali chiedevo di fare degli aggiustamenti. Avevo la sensazione che stessimo suonando un “clavicembalo per gli occhi” dell’abate Castel o un “organo a colori” di Wallace Rimington”. Quanto è importante nel tuo lavoro il riferimento al passato, ad una “tradizione”?

Studiando a fondo nel corso degli anni la storia della luce teatrale, ho potuto verificare come certe esigenze che io stesso avverto e certe strade che intraprendo, hanno spesso molto in comune, nella sostanza, con quelle avvertite e intraprese da alcuni ricercatori del passato. Per quanto fossero da loro affrontate necessariamente con spirito e mezzi diversi, alcune questioni espressive che si trovavano davanti erano simili. Nel mio lavoro, in generale, sento spesso affiorare questi riferimenti, ed anche il senso forte di dedizione, cura, precisione che trasmettono. Ma, certo, le ragioni che alimentano il lavoro oggi non possono che essere differenti da quelle del passato. E sono ovviamente molto diverse anche le tecnologie usate e il senso che traducono. Limitandoci a tale ultima questione, nel caso di Impulse, ad esempio, alla rudimentalità meccanica degli strumenti della vecchia “musica dei colori” è subentrata la levità del computer. Una delle sensazioni più vivide che ricordo di aver provato durante la preparazione del lavoro è quella specie di vertigine di scala legata ai risultati imponenti che le minime digitazioni sul laptop creavano su quell’architettura alta 100 metri e larga 150 e sulla sua percezione territoriale.

Come evidenzia il saggio di Henning Christiansen in “Light and the City”, nei secoli passati molti pittori danesi erano andati in Italia per studiare la “nostra” luce, tu hai fatto invece il percorso inverso, andando in Danimarca per realizzare delle tue opere e accompagnare un gruppo di studenti locali in un percorso di creazione di installazioni di luce site-specific. Per la tua esperienza, quale pensi che sia la maggiore differenza in termini di “cultura della luce” tra Italia e Danimarca?

È un tema del quale abbiamo discusso a lungo con i partecipanti al lavoro. Il loro immaginario è molto diverso da quello di noi mediterranei. La loro giornata, come scrive lo stesso Christiansen, inizia col buio quando escono di casa la mattina, e finisce col buio, quando rientrano. Le immagini che venivano fuori nelle prime proposte erano spesso ctonie, a volte spettrali. Per loro invece l’Italia è luce, e mi sembrava si aspettassero da me un apporto legato a questo. Ma, via via che si andava avanti, le inclinazioni generali hanno lasciato spazio agli stimoli più specifici che venivano dai luoghi, dalle loro memorie, dalle loro funzioni, dalle loro forme. Una delle indicazioni ricorrenti che davo agli studenti era quella di pensare a delle soluzioni progettuali solo dopo aver visitato e osservato a lungo il luogo nel quale avevano scelto di intervenire, e di averlo il più possibile “abitato”, oltre che essersi documentati sulla sua storia, il ruolo degli edifici, e via dicendo. Per poi cercare visioni e prospettive nuove, radicate nell’esistente. 

Come annota l’introduzione di Bjørn Larsen, la Lysfest ha rappresentato un’esperienza di cooperazione e sinergia tra diversi ambiti disciplinari, “la pedagogia, l’urbanistica, il lighting design, la performance” e le necessarie componenti progettuali e organizzative di un grande evento pubblico. Parlando in generale del tuo lavoro teatrale, quanto è importante per te un certo atteggiamento sinestetico, la ricerca di una forma d’arte “totale”?

In realtà, durante il lavoro, non penso mai in questi termini. In termini, cioè, di “arte totale”. Anche perché è difficile dire cosa si possa definire tale. Le suggestioni provenienti al riguardo dal passato, da Wagner o da Kandinskij, ad esempio, sono state potentissime, anche per quanto mi riguarda. Ma nonostante questo e nonostante io tenda a far interagire tra loro in maniera stretta i diversi mezzi espressivi, rimango dell’idea che la questione dell’arte totale non riguardi tanto la somma dei media. Un lavoro che impiega molti media può non avere affatto una qualità “totale” ed un lavoro che impiega un solo medium può invece averla. L’aventuale “totalità” dell’opera la sento legata, al di là del mezzo o dei mezzi impiegati, alla sua qualità interiore e alla sua capacità di irradiare il “mondo”. Ulteriore e diversa questione, legata piuttosto al concetto di interdisciplinarietà, è quella connessa al fatto che nell’esperienza di Roskilde si è verificata, come ha notato Laursen, una collaborazione tra discipline che ha prodotto accostamenti nuovi e aperture inedite in ognuna di esse.

Come ti sei trovato a lavorare in questo contesto di multidisciplinarietà?

È stato un altro aspetto molto interessante, e che mi ha dato molto, del progetto Lysfest, peraltro in linea con lo spirito della didattica della RUC (e quindi, in qualche misura, con certi tratti della cultura “locale”), che ha sempre dato grande importanza all’interdisciplinarietà, al punto che i suoi studenti sono obbligati a seguire contemporaneamente due percorsi di studio molto diversi tra loro. E i docenti a tenere corsi anch’essi molto differenti. Alla RUC si possono incontrare ragazzi che studiano allo stesso tempo biologia e letteratura, e professori che insegnano musica e amministrazione: cosa che può creare varchi, relazioni e cortocircuiti molto fertili per lo sviluppo delle discipline e la formazione di nuove figure professionali.

Come pensi sia cambiata la Lysfest nelle sue varie edizioni?

C’è stata una progressiva crescita del progetto in termini quantitativi, sia per quanto riguarda il numero di studenti coinvolti operativamente, sia in termini di spettatori, che, secondo le fonti ufficiali, sono stati poche migliaia nella prima edizione e circa 20-25 mila gli ultimi due anni. Ma la crescita più importante ha riguardato secondo me l’affezione dei cittadini all’evento e la consapevolezza delle questioni da esso messe in campo.

Più volte nel libro si fa riferimento alla tua poetica della “luce attiva”. Oltre a Giuliano Vasilicò, il cui lavoro hai seguito a lungo negli anni Settanta e a cui hai dedicato il volume Un teatro apocalittico edito da Artdigiland nel 2017, quali sono stati gli altri tuoi maestri nel tuo percorso iniziale come regista e artista visivo?

Rispetto ai maestri, non saprei. Forse, neanche Vasilicò è stato per me un maestro in senso proprio. Anche perché non ho lavorato con lui e non tutto quello che faceva era per me condivisibile. Seguendo però da ragazzo il suo lavoro e quello dei suoi collaboratori, fui colpito profondamente dalla loro assoluta dedizione alla ricerca e dal fatto che per loro fare teatro fosse un mezzo per cercare di comprendere l’esistenza. Le loro prove, che mettevano in gioco i partecipanti sul piano personale e profondo, erano avvincenti e ricchissime di umanità. Sono comunque moltissimi gli artisti per i quali ho grande ammirazione, e che potrei considerare dei punti di riferimento. Provo a fare pochi nomi: James Turrell, per quanto riguarda la luce. È a lui che pensavo prima, in antitesi, quando parlavo delle cosiddette “feste della luce”. Il suo grande progetto Roden Crater, in corso di completamento in Arizona, è esattamente il contrario di quel tipo di kermesse e di spettacolarità “turistica” della luce. È un lavoro complesso e profondo, che ha a che fare con la nostra consapevolezza del mondo. Per quanto riguarda il teatro, una ricerca che trovo entusiasmante è quella del newyorkese Wooster Group.

Adesso, da maestro riconosciuto a livello europeo, quali potresti dire siano i principi della tua ricerca luministica e, nel senso più generale del termine, scenica?

Per quanto riguarda la luce, in linea generale cerco di farle recuperare in scena le qualità sostanziali, energetiche e generative che le sono proprie nella realtà e nel pensiero. Senza qualità di questo tipo penso che la luce non possa contribuire alla capacità del teatro di far risuonare il reale. La mia ricerca registica e drammaturgica, essa è rivolta a fare del teatro non un dispositivo di rappresentazione, ma un “luogo” nuovo: uno speciale ambito di relazioni. Non racconto storie e non trasmetto messaggi. Cerco di mettere in moto, attraverso la poesia scenica, circolazione di pensiero, memoria e immaginazione.


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