L’11 settembre 1973, cingendo d’assedio il palazzo de La Moneda dove era rifugiato il presidente Salvador Allende, il generale Pinochet rovesciò il governo democraticamente eletto. Il golpe e la dittatura hanno rappresentato per il Paese un trauma collettivo che si è protratto ben più a lungo della sua effettiva durata e con il quale gli intellettuali cileni stanno ancora facendo i conti. All’epoca dei fatti Diamela Eltit, scrittrice tra le più influenti di tutto il Sud America, aveva solo 24 anni.
In Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica (a cura di Laura Scarabelli, Mimesis Edizioni), di cui proponiamo di seguito un breve estratto, Eltit ci accompagna tra gli spettri della dittatura e ricostruisce l’angoscia di quel periodo.
Ricordiamo che questa sera, ore 19, l’autrice sarà protagonista di un incontro alla libreria del Convegno di Milano (via Lomellina 35) in dialogo con Laura Pezzino ed Emilia Perassi.
Voglio tornare all’11 settembre e al suo impressionante dispiegamento scenografico già primordialmente marcato da quei segni che si sarebbero poi moltiplicati per 17 lunghi anni.
Quel giorno le uniformi dei soldati tappezzate da distintivi, i volti scolpiti, le armi in posizione d’attacco, furono figure decisive in grado di rappresentare l’atmosfera di una guerra che sembrava evocare la ben nota cinematografia hollywoodiana bruscamente trasferita alla neutra e circoscritta città di Santiago. L’immagine del soldato armato fino ai denti, con il suo sguardo mobile e nervoso, in cerca del nemico, divenne simmetrico e funzionale ai rigidi squadroni militari che, numerati in un ordine maniacale ora senza fine, ratificavano proclami che dovevano essere rispettati, uno e un altro ancora, dato che, oltre alle voci enfatiche e gli schieramenti militari, fuori, nelle città, i soldati attraversavano le strade, vigili, sempre pronti all’attacco, sopra i loro carri armati e cingolati, impettiti a tal punto che era impossibile distinguere una presumibile posa (cinematografica) da un reale desiderio di eliminare qualsiasi “nemico” attraversasse il loro cammino.
La voce del presidente Salvador Allende si riuscì ad ascoltare, con alcune interferenze, grazie a due emittenti radiofoniche ancora non occupate. Queste due radio trasmisero quello che sarebbe stato l’ultimo discorso presidenziale, un discorso che veniva registrato dalla Casa di Governo e che, al di là della sua natura di tragico documento storico, costituiva un appello ai lavoratori, al futuro della democrazia, esortava a mantenere un atteggiamento di cauta resistenza e, nelle pieghe di quella stessa cautela richiesta ai suoi simpatizzanti e sostenitori, rivelava il tono scoraggiato di un leader di fronte a un colpo di Stato che chiaramente sapeva, e noi sapevamo – attraverso le sfumature decadenti del suo timbro di voce – essere ormai irreversibile.
E, oltre agli annunci militari e dei soldati, era imminente il bombardamento della casa del Governo, La Moneda. Aerei da guerra stavano per lanciare le loro bombe niente meno che in pieno centro. Stavano per sganciare i loro ordigni nel cuore della città per destituire definitivamente il presidente Salvador Allende e, in questo modo, cancellare un pezzo di storia democratica, interpretata – questo lo avrebbero proclamato in seguito – come la parte da estirpare del “cancro marxista”.
E ancora, oltre ai proclami, oltre ai soldati, all’imminente bombardamento de La Moneda – che dicevano sarebbe avvenuto a mezzogiorno – un certo numero di aerei volava raso terra sulla città, il tremendo ronzio del volo raso terra di quegli aerei che sembravano venirci addosso, da un momento all’altro, fracassandosi sul tetto di una casa (della mia casa, di quella del mio vicino, come dire, di tutte le case).
E anche gli spari. Raffiche intermittenti di mitragliatrice iniziavano a convertirsi in uno dei tanti rumori della città. In aria, a terra. E nelle città costiere, in aria, a terra e in mare, le forze armate mostravano così il loro allucinante potere armato che si dispiegava a più non posso per avere la meglio su quel nemico annidato in ogni recondito anfratto, insenatura e nascondiglio offerto dal territorio, quel nemico che, poco a poco, grazie ai voli rasoterra, al ronzio delle mitragliatrici, alle minacce dei bombardamenti, ai volti contratti, iniziava a penetrare in un angolo della mente, di tutti noi, sconvolti da ciò che stava accadendo. Nel mezzo dell’orrore e del dolore, ci eravamo già trasformati simbolicamente in quello stesso nemico estremista sotto assedio, nel nemico estremista che aveva distrutto l’impeccabile e leggendario ordine cileno e che bisognava eliminare per ripristinare la purezza originaria di una nazione contaminata.
In quell’11 settembre, anche prima di mezzogiorno, prima del bombardamento, la scenografia era già abitata da una serie di indizi geometricamente irradiati nella città. La forma della guerra si era consolidata in un palinsesto che non si poteva eludere. Il fascismo, percepibile solo in situazioni circoscritte, era diventato reale, era dappertutto, si propagava in una città attraversata da nuovi segni che inneggiavano a una rifondazione nazionale. Una rifondazione obbligatoria e selettiva che, per riuscire a portare a termine la sua impresa messianica, si concentrava ossessivamente sui corpi, ponendoli sotto la lente d’ingrandimento del potere militare.
A mezzogiorno La Moneda bruciava, letteralmente, tutti e quattro i lati, il bombardamento era terminato e la Casa del Governo era in fiamme. Il nuovo regime campeggiava sullo spettacolo dell’incendio, con i suoi annunci radio alla popolazione, asciutti comunicati che non davano informazioni ma notificavano lo sciame di misure e azioni con le quali si sarebbe vinta una causa già vinta a priori. Gli enfatici e, perché non dirlo, stridenti inni militari monopolizzavano le radio, evidenziando un potere patriottico capace di agglutinare definitivamente ogni mezzo.
La televisione, sotto vigilanza, ora trasmetteva solamente cartoni animati – che, nel bel mezzo del consolidamento di un autoritarismo estremo, non potevano essere letti con innocenza – così da bloccare in modo tragicomico, il fluire dell’informazione. Paperino e i suoi amici occupavano interamente gli schermi. In questo modo le immagini ufficiali di queste prime ore furono i cartoni che, insieme al pretesto di distrarre i bambini, davano conto di un progetto pedagogico, della volontà ironica di infantilizzare la popolazione o, in altri termini, dello sguardo gerarchizzante dei nuovi poteri che stavano emergendo, della loro volontà di mantenere i cittadini sotto controllo, come se fossero dei bambini, subordinati alle icone dei cartoni animati che, con le loro vocine stridule, alla fine di ogni episodio lanciavano una morale edificante.
In queste ore venne proclamato lo stato d’emergenza. In questo modo la città veniva privata dei suoi corpi, a eccezione di quello militare. Qualsiasi corpo che non corrispondesse al militare poteva essere assassinato perché la circolazione nella città era proibita: la città perdeva la sua funzione pubblica per convertirsi in un campo minato. Lo stato d’assedio generava un nuovo strappo che per diciassette lunghi anni rimase aperto, seppur con differenti modulazioni, dividendo, riterritorializzando lo spazio, separando radicalmente la distribuzione dei corpi tra dimensione pubblica e privata, tra dentro e fuori, tra sicurezza e pericolo.
Non si poteva uscire per strada, la cosa peggiore era che non si poteva abitare il fuori perché non ti apparteneva più, era stato espropriato del suo carattere comunitario. Il fuori, in altre parole, era diventato un territorio proibito, affidato alle figure di un’immaginazione che, in tali circostanze, poteva essere riempita unicamente con effigi di sangue e di guerra.
Durante alcune ore del pomeriggio, i cartoni animati lasciarono spazio a un breve e asciutto notiziario nel quale si annunciava che il presidente Salvador Allende era morto, si era suicidato all’interno del palazzo della Moneda, un’informazione sintetica, emessa con un tono di totale indifferenza, atto a politicizzare la nuova egemonia e presentare il dominio militare come assoluto e impenetrabile.
La televisione si sostituì alla radio che, tra un cartone e l’altro, divenne il territorio privilegiato degli annunci militari emanati dalla nuova Giunta Militare.
Gli annunci ammonivano a deporre le armi, esortavano i leader politici del governo della Unità Popolare a consegnarsi alle unità militari che si stavano insediando, facevano anche appello al patriottismo della popolazione, chiedendo di denunciare l’estremismo, una parola che avrebbe assunto un significato estensivo e generale nel nuovo lessico nazionale, un significato che, con il passare delle ore, assumeva connotazioni sempre più negative.
Verso sera, nel mezzo di una cronologia impazzita, fece irruzione sullo schermo televisivo la solennità dell’inno nazionale. L’inno nazionale divenne la cornice atta ad accogliere la Giunta Militare che avrebbe parlato, per la prima volta, al Paese che, in pratica, già governava dalle prime ore del mattino. Come in una delle scene centrali di un film dell’orrore, gli agenti delle quattro divisioni dell’esercito si presentarono davanti alle telecamere, seduti a un gigantesco tavolo, per il messaggio inaugurale del nuovo governo.

Per la prima volta, almeno per alcuni di noi, appariva pubblicamente quel volto che non avremmo mai smesso di guardare, era il generale Pinochet che guidava la nuova Giunta, nascosto da lenti scure capaci di mascherare la direzione del suo sguardo, uno sguardo impossibile da decriptare dietro quelle lenti che costituivano un’ulteriore schermatura, a conferma dell’atmosfera austera alimentata dal nuovo linguaggio pubblico che mirava a emulare la comunicazione degli annunci militari, nell’abissale povertà, nel tono impositivo, nella parola severa e occlusiva del volto totalmente inespressivo di una sorta di padre arcaico che, nella convincente teatralità della sua irritazione, sembrava pronto a prendere qualsiasi provvedimento pur di dimostrare la pienezza del suo potere patriarcale.
I corpi dei militari che avevano guidato il colpo di Stato sembravano essere, in quelle ultime ore pomeridiane, l’ultimo elemento utile a completare la scenografia, la messa in scena di un’opera politica che sarebbe durata per i prossimi diciassette anni. Erano seduti lì, a un tavolo ufficiale, in uniforme, a elaborare discorsi sincopati, non privi di confusione, ad annunciare la fine dei partiti politici, la fine praticamente di tutto e l’inizio di una nuova era – l’era dell’ordine – a conclusione di uno dei giorni cileni più cupi e caotici del secolo.
L’immagine televisiva dei quattro capi delle divisioni militari si introduceva all’interno delle case quando questi stessi quattro agenti si erano già impossessati del territorio pubblico mediante l’inoculazione programmatica del terrore nello spazio urbano, ai fini di ricondurre la cittadinanza allo spazio domestico. Uno spazio doppiamente addomesticato dato che l’istituzione dello stato d’assedio aveva portato come conseguenza il coprifuoco totale e la sospensione dell’esercizio di tutti i diritti civili.
In quelle ore, fuori, i diversi territori erano divenuti estranei e clandestini perché la città, radicalmente occupata, moltiplicava i suoi gesti di morte. Migliaia di cittadini e cittadine erano stati arrestati, in tutto il Paese, erano stati condotti all’interno di centri militari o stadi sportivi. Un ingente numero di uomini venne giustiziato parallelamente allo svolgersi del colpo di Stato. Più di una persona morì all’interno della sua abitazione a causa di una pallottola impazzita partita dal gesto compulsivo e perverso di un soldato perso nelle pieghe di un definitivo anonimato. Sapevamo di queste morti perché, anche se non circolavano notizie, l’atmosfera di quelle ore le conteneva già, nella sua nitida sintassi.
Una educazione frettolosa e violenta alterava velocemente i segni culturali. Insieme ai simboli di una cultura di morte si edificava, parallelamente, una cultura della sopravvivenza, si apriva il passo alla necessità di organizzare una nuova lettura dei segni per poter attraversare la mera sopravvivenza, e trovare una forma di abitabilità nelle maglie di un potere che risultava alieno e avverso a chi era avvezzo a un immaginario politico antidittatoriale.
La lettura dei nuovi segni implicava l’assimilazione lucida di tutti gli avvenimenti che stavano accadendo. Bisognava leggere, interpretare analiticamente quel potere militare centrale, alleato a un settore considerevole delle forze civili e anche delle forze internazionali, come un’esplosione di incalcolabili proporzioni di fronte alla quale ogni logica veniva posta in scacco. Era necessario leggere, osservare come, nel mezzo di questa esplosione smisurata di potere, che sembrava ingiustificabile, si stava tuttavia edificando un discorso (politico) a sostegno e avvallo degli abusi, grazie a una retorica perversa.
E poi, per diciassette lunghi anni, leggere e rileggere i significati del potere centrale, abitarci dentro, non dimenticare mai la relazione storica tra corpo, potere e vulnerabilità. Non smettere mai di interpretare ciò che si celava dietro l’asservimento dei corpi, dentro i non detti, un desiderio economico radicale, un modo selvaggio di rinegoziare il capitale. Si trattava di recuperare la concentrazione della ricchezza a costo dell’esacerbazione del corpo – specialmente – dei corpi popolari spinti al limite della privazione, abusati in estenuanti sessioni di tortura, sottoposti a interminabili umiliazioni mentali.

Lo scenario dell’11 settembre fu, in particolar modo, una scenografia trasfigurata, oscura, mascherata da valori patriottici che, in realtà, cercavano unicamente di impiantare un capitalismo radicale, travestito da discorsi stereotipati capaci di nominare senza tregua la patria e l’integrità familiare cilena mentre si moltiplicavano clandestinamente gli spazi di reclusione e il licenziamento di massa dei lavoratori non allineati al sistema. L’integrità nazionale si inscriveva negli annunci televisivi che inneggiavano al tradimento come sintomo di valore patriottico. Il “noi” (questa specie di alleanza civico-militare) si edificò contro gli “altri”, i nemici di cui sarebbero stati vittime attraverso chissà quale strategia.
Gli unici nuclei discorsivi visibili risiedevano nell’equazione binaria che contrapponeva “noi” agli “altri”, la sola equazione in grado di mettere in moto ciò che, in realtà, si voleva occultare: la persistente, raffinata e complessa operazione di smantellamento progressivo dello Stato, di fronte a una popolazione civile impossibilitata a realizzare alcun gesto di condanna. Al di là della repressione, al di là della grave crisi dei diritti umani, lo smantellamento dello Stato era subordinato alla illimitata affiliazione a un liberalismo che si sarebbe convertito in trionfo, verità e dogma essenzialista.
Oggi, con un Cile che continua – gioiosamente – a mantenere un modello economico che trova il suo fondamento teorico nel relativismo per assecondare il circuito di compra-vendita, comprare e vendere, e il diritto (obbligo e dovere) al debito come forma pseudo-democratizzatrice, è di fondamentale importanza ricordare che il giorno 11 settembre è il prodotto – storico e isterico – del bombardamento della moneta. Quella Moneda. O l’altra.
