Nella riflessione pubblica sul sacro interna a quella che Habermas ha chiamato società post-secolare, l’apertura alla discussione del laico risulta sempre limitarsi al dialogo con un’istanza religiosa incarnata da un rappresentante di una religione istituita. Basti pensare ai molteplici confronti che ormai costituiscono un genere a parte, dove, normalmente, l’atteggiamento del laico risulta essere un misto di invidia e sufficienza, del tipo: “quanto ti invidio per la tua fede, ma io, da razionalista, non potrei mai credere nelle figure mitiche in cui tu credi”. Ma la rivendicazione da parte del laico di un proprio approdo religioso diverso dalle religioni note, raggiunto magari attraverso la sola riflessione razionale, può riattivare quella facoltà filosofica che da sempre accompagna la storia dell’uomo e che sta dietro alle più alte realizzazioni della civiltà umana.
Il posto della filosofia
Nella discussione sul sacro si dovrebbe partire da un dato ineludibile, ossia dall’appartenenza della nostra soggettività ad un mondo della vita più ampio, che con le sue regole, intrinsecamente intelligenti, ha dato origine alla natura umana, permettendole l’interpretazione soggettiva della realtà. La scienza non nega questa evidenza, ma attribuisce lo status di conoscenza solo a quelle credenze che rispondono ai suoi criteri specifici di validazione empirica; criteri applicabili, di fatto, solo allo stretto funzionamento delle realtà fisico-chimiche. La questione del senso della vita non risponde a questi criteri, per cui il discorso filosofico attorno a questa viene tipicamente considerato – da un punto di vista scientifico – niente di più che un flatus voci. Così lo spazio per il sapere filosofico viene negato e la filosofia viene relegata a un ruolo subalterno di ancilla scientiae (paragonabile a quello di ancilla theologiae che aveva nella cultura premoderna), in base al quale può aspirare al massimo a essere riflessione interna al paradigma scientifico e cioè filosofia della scienza.
A proposito del suo saggio Verità e Interpretazione Luigi Pareyson scriveva che in esso:
“vi si rivendica la necessità e l’autonomia della filosofia, oggi più che mai, di fronte all’assalto che le vien mosso da ogni parte: dalla scienza, dalla religione, dalla politica; le quali tutte, quando sconfinano dal loro campo, in cui solo la filosofia è in grado di contenerle, tralignano dalla loro stessa natura e degenerano in scientismo, fideismo, panpoliticismo, cioè proprio in quelli che sono i mali del nostro tempo: la superstizione, sia pure della ragione, il fanatismo sia politico che religioso, l’ideologia, ch’è la strumentalizzazione del pensiero; donde poi le varie forme di relativismo, scetticismo, prassismo, nichilismo, che, sotto l’apparenza della più vigile critica, derivano tutte dalla decadenza del pensiero filosofico. E la difesa della filosofia, cioè questa estrema ma risoluta rivendicazione della sua necessità, non si può fare senza restituire al pensiero il suo principio genuino, che è la verità, sottraendolo così a tutti i tentativi, oggi sempre più diffusi, di ridurlo a pensiero meramente storico e pragmatico, tecnico e strumentale, empirico e ideologico.”
Luigi Pareyson
Condividendo questo approccio, quella che segue è una riflessione che intende rimettere all’ordine del giorno della discussione filosofica la sfera ontologica bandita dalle cosiddette filosofie postmoderne (che hanno incrementato lo scetticismo della cultura laica, lasciando allo scientismo l’egemonia di fatto su un pensiero forte che governa la nostra società) e si vuole farlo a partire dall’osservazione della condizione tragica dell’esistenza umana, cui cercheremo di dare una risposta che permetta, in prospettiva, di superarla.
Voi sarete dei: la civiltà umana come prodromo di una nuova creazione
La questione della giustizia nella vita umana è stata al centro dell’elaborazione delle religioni ma anche dell’ateismo: nel primo caso si è pensato a una giustizia assoluta che si instaura posteriormente alla vita terrena, nel secondo, considerando assurdo un Dio che crea un mondo ingiusto che deve poi correggere, si è ritenuto che questo Dio non esista e che il mondo sia non causale ma casuale. Personalmente ritengo che la critica ateistica abbia dalla sua un’innegabile verità e la proposta religiosa di questo scritto ne tiene conto. D’altra parte, questa proposta rileva una contraddizione performativa nella diagnosi dell’ateo: se il mondo è dominato dal male come fa l’essere umano a trovare la forza per opporvisi? se ne deduce che nell’esistenza del male vi è anche una regola del bene, che certamente non prevale in questa vita terrena ma che la rende meno invivibile e che pone la questione della possibilità che la ricerca di una giustizia assoluta non sia destituita di ogni fondamento.
Noi umani siamo in grado di valutare l’aspetto tragico della vita. Aldo Capitini nella sua Religione Aperta scrive:
“Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma”.
Aldo Capitini
Scrive invece Max Horkheimer nella Nostalgia del totalmente altro, che:
“… nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola […]. [La teologia la teologia è espressione di una nostalgia secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente”.
Max Horkeheimer
Questi sono i due lati del Tragico nell’esistenza umana: la morte come evento naturale e la morte procurata dall’uomo, e a questa tragicità la filosofia, fin dalla sua nascita, ha cercato, superando la risposta religiosa mitica, di porre la questione del senso del mondo in termini razionali, individuando ad esempio una questione cruciale: che la scelta di fronte alla tragicità è binaria, o si orienta verso l’arricchimento della vita o verso il suo impoverimento. Per chi opera il male (seconda scelta nel binarismo di cui sopra) e quindi sceglie liberamente la morte come orizzonte della propria vita, l’approdo finale non può che essere lo stop nel processo evolutivo. Ma chi opta per il primo caso va ad aggiungere alla legge necessaria del divenire naturale una seconda natura che prende il nome di civiltà umana, caratterizzata dalla libertà e dall’aspirazione a un mondo migliore, e questo, nel ragionamento che intendiamo proporre, prefigura un nuovo salto evolutivo nel e del Tutto verso il superamento del suo aspetto tragico.
Questa nuova dimensione la possiamo definire la dimensione del Bene e il salto evolutivo per raggiungerla non si svolge più nell’ambito della natura materiale e delle sue leggi, che con l’avvento dell’uomo sembrano aver raggiunto il loro stato definitivo, ma avviene nell’ambito di quella che Teilhard de Chardin ha chiamato la Noosfera, cioè la sfera immateriale del pensiero. Parafrasando la scienza informatica potremmo dire che l’ulteriore salto evolutivo avviene non più nell’hardware del processo cosmico ma nel suo software.
La dimensione del Bene, come punto più alto dello sviluppo della vita, ha al suo interno il concetto di giustizia, ma inteso non alla maniera terrena, ossia come punizione dei colpevoli di ingiustizia (il massimo che può raggiungere la giustizia umana), ma come riscatto delle vittime della stessa; è quindi a loro che è principalmente destinato il salto evolutivo.
Dalla condizione relativa della giustizia umana, che non può riscattare le vittime e quindi rendere reversibile il danno commesso, si passa a quella che in termini religiosi è stata definita la resurrezione a nuova vita, che, ovviamente, può essere solo spirituale.
La resurrezione è solo per gli esseri umani, perché sono loro che, essendo capaci di fare del male come scelta di pura sopraffazione, creano delle vittime che hanno bisogno di essa per un compimento della giustizia. Quindi il salto evolutivo alla dimensione del Bene è per tutti coloro che rimangono vittime dell’ingiustizia e per tutti coloro che contribuiscono all’accrescimento della vita.
Come avvenga il salto evolutivo è problema di non poco conto, ma ce ne si può fare un’idea con riferimento al connotato immateriale della persona umana già nella vita su questa terra, e cioè il suo pensiero che se potesse liberarsi dai condizionamenti materiali operati dal nostro corpo acquisirebbe una piena libertà e diventerebbe una facoltà infinita. Noi pensiamo dunque, in linea con una lunga tradizione di pensiero, a una trasformazione della soggettività umana da entità psicofisica a entità incorporea.
Nella contemporaneità la scienza ha disconosciuto la possibilità dell’andamento di pensiero che stiamo portando avanti in questo scritto, ma la pretesa della scienza, come ultimo approdo della conoscenza teoretica umana, di discernere ciò che è rappresentabile e ciò che non lo è e quindi di essere l’unica conoscenza valida, in questo senso assoluta, è fallace, perché l’operazione teoretica umana è resa possibile dalla struttura profonda del Tutto che ci circonda e ci ospita.
La sensazione di appartenenza a qualcosa di più grande non toglie la concomitante sensazione di essere stati gettatiin un mondo non scelto da noi (Heidegger), dove è presente il male umano e dove anche la natura, come evidenzia bene Leopardi, ha il suo aspetto tragico. Si pone così il problema della nostra libertà, che noi possiamo sviluppare solo ex post. Da questo punto di vista c’è chi sostiene che l’unico atto veramente libero dell’uomo è il tirarsi fuori da questo meccanismo e cioè il suicidio. Ma oltre che inutile per modificare la regola del tutto, esso risulta essere un atto egoistico che rifiuta il molto che noi abbiamo comunque da fare per aiutare i sofferenti di questo mondo. Solo tesaurizzando le esperienze negative nella nostra spinta a correggere l’ingiustizia potremo superare in giustezza ciò che si è sinora realizzato nel Tutto.
Il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili perché tra tutti i mondi possibili è quello dove il tasso di male è il minore (Leibniz)? A mio avviso no, perché il problema sta proprio nella presenza del male, che invece di essere recuperato in un processo di riparazione ex post non avrebbe dovuto essere contemplato fin dall’inizio. Questo mio giudizio penso sia legittimo ed è frutto di quella capacità tipica dell’essere umano di pensare una giustizia più completa di quella attuale. Questa giustizia, come ipotesi, può essere anche trasportata su un piano di capacità creativa di costruzione di un nuovo mondo perfetto. Questa capacità dell’uomo però è solo potenziale e frutto del puro pensiero, senza la possibilità, qui e ora, di far passare questa forma all’atto, all’esistenza concreta anche di un solo ente, figurarsi di un universo intero. Ma qui sta il paradosso: se il processo cosmico è un processo evolutivo che fino all’avvento dell’uomo è insindacabile, alla coscienza umana, frutto ultimo di questo processo naturale, esso appare come indifferente alle sorti dei singoli esseri e quindi deve essere corretto. Ma l’essere umano, attualmente, non ha la forza per farlo e questa gli potrà arrivare solo nell’ipotesi della prosecuzione della sua sfera razionale in un’altra vita, libera dai laccioli della precaria materia. (Per capire meglio il concetto di processo cosmico ancora imperfetto, perché in divenire, rimando al mio saggio precedente “Cercando un altro Dio. La condizione tragica dell’esistenza e la religione aperta”, dove delineo la prospettiva panenteista in maniera genealogica, cioè il fatto che l’evoluzione del cosmo sia l’evoluzione dello stesso essere definito dalle religioni come Dio).
La Teogonia di Dio, dunque, è così ripartita: il Dio dell’inizio, da cui origina la sfera spazio-temporale e che viene assorbito dal suo creato, cioè muore come Essere a sé e si pluralizza negli enti secondo lo schema spinoziano del Deus sive Natura. Quando l’evoluzione porta a noi e quindi all’avvento del pensiero autoriflessivo (la natura riflette su se stessa) Noi acquistiamo la facoltà di ripensare il mondo e di progettarne uno migliore già qui sulla terra, da cui la civiltà umana; Il prosieguo di quest’opera nel salto evolutivo sfocia in una dimensione oltre-temporale che crea le possibilità di un Dio a-venire,costituito dalle coscienze umane che saranno capaci di costruire una nuova realtà, finalmente perfetta. Così si ribalta la classica idea del Dio sempre uguale a sé stesso e separato radicalmente dal mondo, con tutte le contraddizioni della Teodicea, a cui il Cristianesimo ha cercato di porre rimedio con il concetto di incarnazione e sacrificio di Dio nella figura di Gesù. Il panenteismo supera questa visione dualista di Dio, anche se non è un puro monismo, e ci permette di pensare una nuova ontologia più coerente con le esigenze della ragione pratica (Kant), cioè con l’esigenza di una giustizia assoluta.
C’è un concetto della teologia cristiana che può essere visto come analogo a quello da noi espresso ed è la Trinità, con la figura del Padre che può essere paragonata allo stadio iniziale dell’Essere, mentre il Figlio e lo Spirito Santo sarebbero i due aspetti dell’Essere rimasti: il Figlio siamo potenzialmente tutti noi e lo Spirito rappresenta l’unione psichica di tutti gli esseri, che ci destina al salto evolutivo verso la beatitudine e per questo può essere definito Santo.
Nella prima parte dello scritto mi sono soffermato sulla funzione riparativa della coscienza umana in questa vita (si veda il bel concetto della filosofia ebraica di Tikkun Olam-riparare il mondo), che sfocia nella funzione redistributiva nella vita ulteriore, concetti già appartenenti alle religioni classiche; poi ho introdotto il concetto di nuova creazione, che, per quanto ne so, solo Teilhard de Chardin ha prospettato come interpretazione della fine dei tempi cristiana, ma nella mia concezione questo non deriva dalla fine dei tempi, piuttosto dal salto evolutivo che, nel processo panenteista, è offerto a ogni essere umano e che è delegato alla Libertà, cioè alla scelta libera di ogni individuo di che cosa fare della propria vita.
Quello che è stato definito Dio dalla religione classica, nella dinamica da noi ipotizzata, è solo l’Essere dell’origine del tutto che da immobile, come lo definiva Aristotele, diviene e, divenendo, si trasforma in enti: dall’Essere all’Ente, e la storia dell’universo è la storia degli enti che evolve dal più semplice al più complesso. Quest’evoluzione raggiunge un punto culminante con la realtà umana che vede la nascita del pensiero riflessivo che rappresenta l’autoriflessione della natura su se stessa e questo è anche un punto di svolta, perché permette un giudizio sul mondo che si ha di fronte, sul suo funzionamento, permette un bilancio e la volontà di cambiare quello che appare come imperfezione, in particolare rispetto alla sfera morale che riguarda l’integrità e la possibilità di sviluppo per ogni individuo; possibilità negata evidentemente dalla morte e dalla sofferenza, sia casuale, nel caso naturale, sia causale nel caso umano, cioè dalla presenza del male nell’ordinamento del Tutto. È da questo momento in poi che comincia un’altra storia e la possibilità di un altro universo.
In definitiva io concepisco due creazioni: la prima, quella in cui viviamo attualmente, che potremmo definire la vecchia creazione e la seconda, quella a-venire, di cui Noi, come enti che serbiamo l’impronta dell’essere originario, saremo artefici. Attraverso la forza noetica che informa tutto, saremo capaci di una Nuova Creazione.
Questa prospettiva potrebbe essere definita, in un certo senso, nietzscheana, solo che la proposta superomistica non è, come nel caso di Nietzsche, relativa alla vita terrena (dove, tra l’altro, rimane una prospettiva anche pericolosa, soprattutto per i possibili risvolti politici), ma si colloca, come abbiamo detto, in una dimensione oltremondana.
È anche una proposta simile e opposta a quella di Hegel, che vede gli individui pensanti come strumentali all’affermazione dello Spirito Assoluto nella storia. Qui invece è lo Spirito Originario che nella sua teogonia perde la sua soggettività nella molteplicità degli enti che da lui emanano e in particolare nelle coscienze umane che, nel loro sviluppo, vanno a formare la dimensione divina a-venire, che si potrebbe definire la divinità plurale della nuova creazione.
Ho concluso ciò che avevo da dire e lascio la parola ad Aldo Capitini per spiegare come la riflessione filosofico-religiosa possa aiutare una cultura laica, oggi disseccata nelle sue radici ideali, a impegnarsi per un cambiamento del mondo a partire dal qui e ora.
“Dovunque c’è un centro morale, un dramma, là arriva la storia vivente; incontrando le persone, vedendole come tali e non come cose o ombre, incontro la vita spirituale, la celebro con l’atto di vedere, intorno a me altre persone, altre coscienze. Questa vita spirituale costituisce la storia vivente, quella da cui riceviamo e diamo come centri, come coscienze più o meno attive. Di questa vita spirituale alcuni sono consapevoli, sanno che cosa è e che cosa deve essere: sono quelli che pur presi dai loro drammi personali, pensano ai problemi da un punto di vista universale, vedono che ogni loro azione ha come un occhio su tutti, sperano che essa azione valga per tutti. E stimolano sé e gli altri, costituiscono associazioni, sollecitano e attuano, riformano la società perché l’uomo abbia maggiori occasioni e mezzi per il suo sviluppo. E interna alla storia illimitata, interna alle associazioni e gruppi operanti, la vita religiosa è la libera aggiunta, il di più, la presenza che il religioso offre.”
Aldo Capitini
P. S.
Piccola applicazione pratica della demistificazione della religiosità mitica da parte di quella filosofica:
Di fronte alla questione dell’eutanasia. La considerazione normale per chi, come me, crede che l’essenza di ogni essere umano non sia nel corpo, nella sua esteriorità, ma nella sua interiorità che ne anima l’intenzionalità, è considerare che quando il corpo non sorregge più la nostra soggettività, si pone il problema, come dice De André in una sua famosa canzone, di rescindere il “contratto con questo corpo idiota”.
La religione mitica, ad esempio quella cattolica, pur arrivando, per via di fede, alle stesse conclusioni, sull’esistenza dell’anima, è contraria alla possibilità di una nostra decisione sulla “rescissione del contratto”, perché è solo Dio che ne ha la facoltà, essendo lui ad avere “affittato” quel corpo.
Ora la conseguenza morale di questo ragionamento è di squalificare il valore proprio dell’anima e, con un raro senso del paradosso, di sacralizzare il corpo, abbracciando un materialismo di fatto. Come si vede la religiosità razionale smaschera molto meglio di un laicismo di maniera le assurdità della morale fideistica e permette di dare un più alto valore al concetto di libertà, che sicuramente non potrà più essere facilmente accusato di arbitrio.