Tornare a confrontarsi, oggi, con l’opera (ma anche con la riflessione teorica) di un autore come Richard Wagner costituisce, per la filosofia, una sfida di considerevole importanza. E questo perché l’opera di Wagner ha la capacità di risvegliare il pensiero a un’esigenza di comprensione che è tanto più urgente quanto più acuta è la consapevolezza del nostro essere “implicati” al suo interno, e cioè del fatto che qui a essere in gioco è una costellazione di motivi – di ordine innanzitutto estetico, e per ciò stesso etico – il cui tenore paradossale ci riguarda. È quanto testimonia un recente, e indubbiamente prezioso, lavoro monografico di Giuseppe Di Giacomo, Richard Wagner. Una guida filosofica, che è stato pubblicato nel 2021 dall’editore Carocci (Roma). Tra le innumerevoli questioni affrontate all’interno del volume, una in particolare spicca per la sua densità problematica, come pure per la sua palpitante attualità sotto il profilo politico-culturale, e cioè il tema della “redenzione”.
Un primo punto da evidenziare, allora, è il fatto che in Wagner – come Di Giacomo acutamente rileva – noi troviamo, sì, una dimensione “cristiana”, ma con la consapevolezza che qui si ha a che fare con un “cristianesimo senza trascendenza”, con un cristianesimo cioè autenticamente tragico.
A questo proposito, Di Giacomo parla anche di un cristianesimo “de-cristianizzato” e “de-idealizzato”, volendo con ciò alludere a un cristianesimo che ritorna, al contempo, “diverso da se stesso” e “fondato su se stesso”. Ciò significa che a essere evocato, in Wagner, è un modo di fare esperienza delle cose, ma anche del rapporto con gli altri, che si fonda sulla condivisione del pathos: sulla compartecipazione del dolore e della sofferenza. In un simile orizzonte, allora, la “salvezza” dell’uomo non consiste affatto nel riscatto dei peccati, o nel conseguimento di una prospettiva ascetica, e quindi nemmeno nel raggiungimento di un presunto Nirvana (non consiste, cioè, nel promuovere una buddhistica rinuncia a ogni e qualsiasi volontà). Si deve piuttosto riconoscere che a essere chiamata in causa è un’idea di salvezza che coincide – in un senso che solo parzialmente è conforme alla posizione di Schopenhauer – con il superamento del principium individuationis, e cioè con l’oltrepassamento della “volontà individuale”: con il suo negare se stessa in nome di una “volontà universale”.
Il punto, però, è che qui una tale nozione di “volontà universale” fa tutt’uno con la dimensione del possibile, volendo con ciò indicare la possibilità di una prassi qualitativamente differente: un diverso modo di abitare il mondo.
Stiamo, dunque, parlando di una salvezza che si realizza, al di là di dogmatismo, ma anche al di là di ogni codificazione istituzionale, come “etica della partecipazione”, dove a essere in gioco è la partecipazione di tutti e di ciascuno a quella sterminata pienezza di senso – a quella “gioia” della “vita universale” – che è immedesimazione di ogni creatura in ogni altra creatura. Salvezza, dunque, come capacità di “sentire il dolore dell’altro dentro di sé” (p. 202). Nel convocare quindi sulla scena l’idea (o la possibilità) di un “cristianesimo tragico”, o appunto di un “cristianesimo senza trascendenza”, si sta alludendo a un orizzonte all’interno del quale la costruzione del senso si affida, essenzialmente, alla capacità che ciascuno ha di “vivere in mezzo agli uomini”, alla capacità cioè di farsi carico, in modo responsabile, della loro contingenza e della loro temporalità. Il che, evidentemente, esclude ogni pretesa di redimere il finito attraverso l’assoluto o l’eternità. È questo un aspetto che, per l’autore, assume un’importanza decisiva: quella affiorante dall’opera di Wagner non è un’idea di redenzione da intendersi come “redenzione dal finito”. Si tratta, invece, di una redenzione che esige di essere ripensata come liberazione dell’uomo dal bisogno stesso della redenzione. Redenzione, quindi, come liberazione dal bisogno dell’assoluto: dalla necessità di trasfigurare il finito facendo appello a un senso concepito come significato supremo, come significato definitivo e totalizzante.
È quanto mostra, al più alto grado di esemplarità, la conclusione di un’opera come il Parsifal, lì dove Wagner introduce la celebre battuta: “Redenzione al redentore!”.
Qui, allora, è lo stesso Redentore che deve essere redento. Ma il Redentore, in quanto tale, è colui che dovrebbe farsi portatore, o che dovrebbe incarnare, l’idea di un senso finale. Di un senso, cioè, dato una volta per tutte. Stiamo, dunque, parlando di una redenzione che funziona come ri-apertura di ciò che è chiuso: di ciò che ha trovato (o che sembra aver trovato) un compimento. Si tratta, allora, di capire che una tale apertura è qualcosa che, in linea di principio, torna ad accadere sempre e di nuovo. A profilarsi, così, è un’idea di redenzione da intendersi come processo, e non invece come qualcosa di fattualmente dato, o di concettualmente determinato. Da questo punto di vista, ciò verso cui la rappresentazione fa segno è l’impossibilità di ridurre il divenire alla quiete immobile dell’essere, e dunque alla fissità dell’identico: alla sua permanenza e alla sua a-temporalità.
Proprio a questo livello, allora, noi possiamo cogliere il tenore innanzitutto etico della prospettiva wagneriana: ciò su cui Wagner ci invita a riflettere è la possibilità di una redenzione che consiste nel salvare se stessi salvando gli altri, nella capacità, cioè, che ciascuno di noi può, e deve avere, di porre la propria opera al servizio degli altri.
Nel Parsifal, non a caso, tutto ruota intono all’immagine (simbolicamente densissima) del Graal. E quell’affermazione conclusiva prima evocata, ossia: “Redenzione al redentore!”, implica precisamente una ricomprensione del rapporto tra l’uomo e il Graal.
Se fino a quel momento infatti il Graal è stato oggetto di una contemplazione riservata solo al cerchio degli iniziati, ciò che adesso si impone con la più vivida flagranza è la consapevolezza che il Graal deve essere aperto a tutti, e questa apertura dovrà rimanere tale. Il Graal, insomma, deve rimanere “scoperto”. Mai più, quindi, il Graal dovrà rimanere nascosto. Il che è importante. E lo è proprio perché, in questa differente relazione con il Graal, noi possiamo leggere l’invenzione di una nuova forma del sociale, la fondazione cioè di una nuova comunità, con il passaggio da un ordine chiuso a un mondo aperto. E a caratterizzare questo “mondo aperto” è il fatto che tutto, ora, è rimesso nelle mani dell’uomo. Stiamo, dunque, parlando di un mondo all’interno del quale l’uomo prende coscienza del suo essere divenuto, e in modo inderogabile, responsabile del proprio destino.
In questo quadro, l’idea di una “redenzione non assoluta” (di una redenzione, dunque, “non definitiva”) si rivela indissolubilmente congiunta a quella di un senso che è tale perché sempre e di nuovo da ricercare, dove la “ricerca del senso” è insieme l’espressione di una sua necessaria e interminabile “attesa”. E questo con la piena consapevolezza della impossibilità di sublimare la finitezza della nostra condizione ontologica nella purezza ideale di un telos definitivamente raggiunto, nella trasparenza di un telos finalmente acquietante. Che lo stesso Redentore, ogni volta, debba essere “redento” significa, allora, che bisogna continuare a lottare e ad impegnarsi, coraggiosamente, “come se” il Senso fosse raggiungibile. E questo agire “come se” si traduce nella costruzione di un senso che, ogni volta, si qualifica per la sua finitezza, per la sua contingenza, e che come tale è costitutivamente esposto al rischio di rovesciarsi in non-senso. A essere evocato, dunque, è un senso da conquistare e ri-conquistare, sempre e di nuovo, nell’inquietudine contro l’inquietudine.
A fare segno verso questa prospettiva è, in modo paradigmatico, il finale del Ring, il finale cioè dell’Anello del Nibelungo (e, di fatto, si può dire che il “Parsifal” costituisce, in qualche modo, lo sviluppo “logico” del Ring).
Nel Ring, nella parte conclusiva del Crepuscolo degli dei, la caduta del Walhalla è leggibile – nietzscheanamente – come la caduta degli eterni: come la caduta, cioè, degli immutabili. Ciò che quella caduta esprime, infatti, è il ritrarsi di Dio, il suo farsi – in termini lukácsiani – “muto spettatore”.
Questo vuol dire che Dio, ormai, si rende esperibile solo nella forma di un’assenza, o come la presenza di un’assenza. E qual è la conseguenza di questa ritrazione, o di questo ritiro, di Dio? È il passaggio dal tempo degli dei al tempo degli uomini. Con la caduta del Walhalla si annuncia, dunque, l’avvento di un “mondo nuovo”, e questo mondo nuovo, questa trasformazione cioè dell’esistente, è qualcosa che si può realizzare solo attraverso il sacrificio di Siegfried e Brunhilde, attraverso la loro morte, e prima ancora attraverso la metamorfosi di Brunhilde da “dea immortale” a “donna mortale”. Ma il fatto stesso che l’amore tra Siegfried e Brunhilde sia stato “reale” è un elemento degno della massima considerazione. E questo perché il loro amore rappresenta un’autentica “promessa” per il futuro. Così come a essere estremamente significativa è la circostanza per cui l’adempimento della volontà di Wotan, e cioè la restituzione dell’anello alle figlie del Reno, è qualcosa che si affida all’iniziativa dell’uomo: alla concretezza logicamente non deducibile delle sue scelte, all’effettività del suo agire.
Ma, a ben vedere, la volontà ultima e più profonda di Wotan – ovvero: ciò che Wotan, in ultima istanza, desidera – è il tramonto del mondo divino: è la dissoluzione cioè di un mondo che appare ormai irretito nella cieca e ineluttabile perpetuazione della colpa (e ad annunciare profeticamente questo tramonto è stata già, nell’ultima scena dell’Oro del Reno, l’apparizione di Erda, la divinità ctonia).
Il punto, allora, è che proprio agli uomini, e soltanto a loro, è assegnato il compito di realizzare ciò che allo stesso Wotan è precluso, e cioè la distruzione di un mondo mitico ormai rovinosamente marcato dalla ripetizione di una logica destinale: dall’eterno ritorno di quel sempre-uguale che è la logica opprimente della maledizione. “Solo la Volontà individuale – osserva, infatti, Di Giacomo – può negarsi, mentre la Volontà universale non può farlo: per questo Wotan non può distruggere se stesso, ma è condannato a errare tristemente e, per arrivare alla fine, cioè all’annientamento del Walhalla […] egli ha bisogno di Siegfried e di Brunhilde” (p. 29).
Con riferimento dunque al Ring, e procedendo lungo la traiettoria che è stata fin qui indicata, non si può non evidenziare la formidabile produttività (direi, proprio, sotto il profilo teoretico) di un allestimento come quello offerto da Pierre Boulez e da Patrice Chéreau nel 1976.
E la rilevanza della loro lettura – sottolineata, tra l’altro, da Alain Badiou – si può cogliere soprattutto pensando al modo in cui viene rappresentato il finale del Ring. Quello che Boulez e Chéreau ci propongono è un finale che risulta intonato a una Stimmung apertamente “interrogativa”. L’accento, infatti, viene a battere proprio sull’immagine di quella folla anonima che è costituita dalle donne e dagli uomini sopravvissuti alla catastrofe: la folla che assiste, silenziosa, alla distruzione degli dèi. Quella “folla”, appunto, “ci guarda”, volge il suo sguardo verso di noi, e nel farlo pone una domanda: una domanda che ci interpella, che ci coinvolge in prima persona.
Si tratta, dunque, di una domanda che fa irrompere in primo piano la nostra responsabilità. Non solo, ma a caratterizzare lo sguardo di quella folla anonima è la sospensione tra due polarità precise. E cioè: da un lato, la coscienza della catastrofe che ha distrutto l’ordine categoriale fino a quel momento vigente nel mondo, e dall’altro lato il sentimento di angoscia al quale è intonata, inevitabilmente, l’idea del futuro. Quello sguardo, dunque, è intriso di turbamento. E il turbamento – in particolare – nasce dal fatto che, a questo livello, non è ancora possibile sapere quali saranno i modi e le forme secondo i quali la nuova comunità, il mondo di là da venire, potrà effettivamente realizzarsi. Ciò che risuona, in quello sguardo, è un: “e adesso che cosa accadrà?”, “che ne sarà, adesso, di noi e di voi?”.
Resta però il fatto che al senso di inquietudine che pervade la scena è inscindibilmente congiunto un altrettanto inestinguibile “senso di fraternità”: la percezione di un compito comune, di un dovere – il “dover essere del senso” – che è, insieme, di tutti e di ciascuno.
In questo modo, l’accento viene a battere sulla consapevolezza che il senso si potrà realizzare solo di volta in volta, e cioè nel tempo. Ma un senso siffatto non potrà non essere segnato, e in modo irrimediabile, dalla finitezza. Si tratterà, dunque, di un senso “necessario” nella sua stessa “precarietà”: nella sua stessa contingenza.
Si può, dunque, davvero parlare di “redenzione”? In qualche modo, sì. Ma tenendo conto del fatto che, qui, a essere evocata è un’istanza di Redenzione irriducibilmente paradossale. Stiamo insomma parlando di una redenzione che viene, simultaneamente detta e disdetta: posta e tolta. In particolare, a negare l’affermazione della Redenzione è l’abbandono degli uomini, è la loro solitudine, è la loro sospensione appunto in uno stato di incertezza. Ma – come precisa l’autore – “questa negazione c’è perché c’è quell’affermazione” (p. 221, cors. mio).
È chiaro, allora, che una redenzione così concepita non elimina il finito: non lo annulla, non lo nega a favore dell’infinito. E a testimoniarlo è proprio quella domanda che, nella messa in scena di Boulez-Chéreau, viene rivolta dalla folla dei sopravvissuti al pubblico, e quindi più in generale, a tutti noi: all’umanità presente e futura. A qualificare dunque una tale domanda è il suo non potersi mai estinguere nella determinatezza di una risposta: il suo non potersi mai dissolvere nella positività di un’affermazione presuntivamente portatrice del senso finale. Redenzione, sì, dunque, ma soltanto come apertura, e cioè soltanto come sospensione del vivente alla stessa possibilità del possibile.
Ma a testimoniare il carattere non-ovvio, il carattere anzi altamente problematico, del ruolo giocato in Wagner dall’idea di “redenzione” è anche un’opera come il Tristan.
Qui, in particolare, il tema della redenzione è strettamente connesso – come sappiamo – al tema dell’attesa. Quella medesima “attesa” che, per Adorno (per l’Adorno del “Saggio su Wagner”) non è veramente tale, nel senso che qui si avrebbe a fare con un’attesa “truccata”: con un’attesa che appare “dettata dalla sua soluzione ultima, dal suo risultato”. E questo perché, alla fine del Tristan, nell’atto terzo, Isolde comunque arriva. E tuttavia, come è stato sottolineato in particolare da Alain Badiou, e come lo stesso Di Giacomo rileva, il modo in cui Wagner presenta e articola il motivo dell’attesa – il modo in cui egli lo elabora sotto il profilo musicale e drammatico – “eccede” una lettura di questo tipo.
Nel momento in cui Isolde arriva, infatti, Tristan muore: Tristan riesce appena a pronunciare il nome di Isolde. Ciò, allora, sta a significare che l’attesa prosegue. In questo senso, si può dire che il sopraggiungere di Isolde costituisce non un superamento, ma piuttosto una integrazione dell’attesa. Qui, insomma, a essere allusa è l’idea di un’attesa strutturalmente “vana”. Con un’attesa, cioè, che non trova il suo compimento nemmeno quando Tristan ritrova Isolde. Da questo punto di vista, si può parlare di un’attesa che ha già in sé la sua conclusione.
Ma, ancora una volta, a indicarci la strada da percorrere in vista di una ricomprensione di questo motivo è un contributo offerto in sede di “prassi esecutiva”, e cioè, in questo caso, l’interpretazione fornita da Heiner Müller (con la sua messa in scena realizzata a Bayreuth nel 1995).
Di Giacomo fa notare che Müller sapeva che Adorno aveva opposto l’attesa di Wagner a quella di Beckett – che, per Adorno, com’è noto, è uno degli esponenti paradigmatici di quel particolare tipo di arte che lo stesso Adorno, in Teoria estetica, definisce “moderna” – e tuttavia nella lettura proposta da Müller l’attesa esibita dal Tristan viene presentata come di fatto identica all’“attesa vana” che connota l’opera di Beckett. E a testimoniarlo è proprio il tenore chiaramente beckettiano che Müller imprime al suo allestimento, come in particolare mostra l’atto terzo. Qui, infatti, quello che troviamo è un paesaggio “apocalittico”: uno scenario invaso dalla polvere e abitato da personaggi che appaiono ricoperti di cenere. Ma beckettiana è la stessa figura del pastore, che suona con il suo corno inglese un’aria triste e malinconica (la Alte Weise): il pastore, infatti, è cieco, indossa un paio di occhiali neri, e appare seduto sulla nuda terra.
Qui, allora, a essere esclusa è ogni possibilità di redenzione: ciò che la regia di Müller mette in scena è la caduta di ogni speranza. Il che, ancora una volta, conferma il carattere “vano” dell’attesa. Se è vero dunque che l’attesa si qualifica per la sua inutilità, è anche vero che quell’attesa comunque si dà, e ciò che in essa si esprime è pur sempre un barlume di speranza: un suo pur debole e fragile risplendere al fondo di un mondo tragicamente abbandonato al non-senso. Un mondo abbandonato, per dirla con il giovane Lukács, alle sue “crepe” e ai suoi “abissi”.