Alessio Lega, cantautore Targa Tenco nel 2004 e nel 2019, porta avanti ormai da molti anni tramite i suoi spettacoli un lavoro di recupero del repertorio di canzoni legate alla Resistenza partigiana.
Cantare la Resistenza, con i suoi volti e i suoi luoghi, significa salvaguardare un patrimonio a rischio, custodire una Memoria collettiva che il numero sempre più esiguo di testimoni diretti e certe politiche istituzionali minacciano di far sparire per sempre.
In occasione dell’uscita del suo ultimo libro La Resistenza in 100 canti (Mimesis Edizioni, 2022), Lega si racconta su Scenari in un’intervista che va a toccare diversi aspetti della sua arte, caratterizzata da una continua ricerca e da un impegno che per certi versi ricorda quello dei grandi esponenti della canzone popolare.
Silvia Eccher: La Resistenza in 100 canti esce a oltre trent’anni dai Canti della Resistenza italiana a cura di Michele L. Straniero e Virgilio Savona (1985) e a più di sessanta dall’antologia di Tito Romano e Giorgio Solza con prefazione di Roberto Leydi (1960). Nel suo libro troviamo 100 canti, affiancati dalla loro interpretazione, da alcuni spartiti e da un vasto apparato iconografico. In che cosa si differenzia la sua raccolta dalle precedenti?
Alessio Lega: Le storie. Il mio libro riparte dalle storie. Le raccolte precedenti sono pietre miliari, non vi è nessuna competizione con quei veri e propri “testi sacri” che hanno trovato e organizzato materiale che altrimenti oggi sarebbe perduto. Quelle sono raccolte basate sui testi, curate con rigore filologico. Il mio invece è un libro di storie, le storie che si nascondevano dietro le canzoni, le storie delle persone che hanno scritto, cantato, vissuto o sono morte con quelle canzoni in bocca, durante i mesi terribili ed esaltanti della guerra partigiana. Ho riprodotto con cura i testi delle canzoni e ho restituito loro il paesaggio umano in cui son nate.
Queste canzoni hanno avuto una diffusione prevalentemente orale e di ciascuna esistono talvolta più versioni. Che tipo di lavoro di ricerca è stato effettuato e quali sono stati i criteri per la selezione del materiale?
Le fonti principali sono proprio quei due libri (i più completi e attendibili) che citi tu. Poi ho risalito il fiume carsico per giungere ai documenti originali: manoscritti, dattiloscritti, piccole pubblicazioni clandestine, in modo da poter sentire “l’odore” di quelle canzoni, il senso delle varianti e delle modifiche che sempre avvengono nella tradizione orale. Inoltre mi sono immerso in biblioteche intere di letteratura e testimonianze della vita e dell’aneddotica partigiana, per poter restituire il lato più vivo, colloquiale e umano di quell’esperienza.
Il libro non comprende soltanto canti della Resistenza partigiana propriamente intesa ma anche canzoni del periodo precedente e di quello successivo dal 1945 a oggi. Quali sono le ragioni di questa scelta?
La Resistenza – ovvero i mesi compresi fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 – sono il cuore del mio libro, la parte essenziale e fondativa, quindi le canzoni nate in quel periodo ne rappresentano la ragione stessa e fisicamente sono una metà delle pagine. Volevo però testimoniare – in modo molto più rapsodico e di conseguenza arbitrario – anche le premesse (i canti dell’antifascismo prima della Resistenza) e soprattutto le conseguenze: quanto l’esperienza partigiana ha contato nella nostra storia collettiva e come è giunta fino ai nostri giorni, sempre attraverso le canzoni.
Nel suo libro affiora anche il rapporto tra i canti della Resistenza e la canzone d’autore del secondo Dopoguerra, come per esempio nei brani firmati da Fo e Jannacci e dagli Stormy Six. Che cosa rimane oggi di quell’eredità?
A mio avviso rimane parecchio: dobbiamo tristemente constatare che gli ideali della Resistenza, già solo pochi anni dopo, erano come svuotati, che quel grande movimento unitario andava frantumandosi nel contesto della Guerra fredda, nella terribile stagione delle stragi neofasciste. I canti militanti, le canzoni d’autore ebbero un ruolo fondamentale – forse più di letteratura e cinema – nel perpetuare la memoria e dunque l’etica libertaria della Resistenza.
Nel 2004 ha vinto il premio Tenco con l’album Resistenza e amore, ha collaborato con i maggiori esponenti della canzone popolare italiana come Fausto Amodei, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli e Giovanna Marini. Che ruolo ha occupato nel suo percorso la musica popolare e perché è così importante mantenerla in vita?
La musica popolare è la fonte più pura, cui tornare ad abbeverarsi quando ci sentiamo troppo stretti nella prigione dell’ego. Oltre ai nomi dei maestri del Nuovo Canzoniere, si parva licet, anche il nostro maggior cantautore Fabrizio De André, quando capì di aver esaurito il bagaglio poetico che gli veniva dalla canzone francese di Brassens o da quella di Dylan, si rivolse alla musica popolare, al dialetto. Guccini, De Gregori non hanno mai nascosto la loro passione per i canti tradizionali. Insomma direi che mi trovo in buona compagnia.
Molti dei canti partigiani sono ormai introvabili e rischiano di andare perduti. Alla luce della sua attività di musicista ha mai pensato di reinterpretarli in studio e di lavorare a un album?
Per il momento le presentazioni del libro di cui parliamo si sono trasformate in veri e proprio concerti “resistenti”, avvenendo non solo nelle librerie e nei festival della letteratura, ma anche nelle sedi ANPI o degli istituti di storia della Resistenza. Non escludo del tutto l’ipotesi discografica, ma ora mi sento più propenso a far vivere in concerto queste canzoni. Nei prossimi mesi lavorerò – con il regista Michelangelo Ricci – a uno spettacolo di teatro-canzone per tenere insieme la musica “resistente” e le sue storie. Debutteremo a fine settembre a Santarcangelo di Romagna e il titolo sarà “Qui radio libertà: storie e canti dalla Resistenza”.
Nelle sue canzoni, come anche in questo libro, l’attivismo è un tema che ritorna. Come riesce a far vivere le sue idee politiche all’interno delle canzoni?
Questa è una domanda alla quale sinceramente non so rispondere: per me parlare delle mie idee sulla società è altrettanto naturale che parlare dei miei sentimenti… dunque non ho mai percepito nessuna differenza fra una canzone d’amore ed una canzone impegnata. Anzi, per la verità mi stupisco quando vedo che i miei colleghi cantano esclusivamente canzoni sentimentali. Possibile – mi chiedo – che riescano ad esprimere così bene l’amore per una persona, e non l’amore per l’umanità?