“Ho bussato tutta la vita alla porta di quei luoghi in cui lui si sposta con tanta sicurezza”, disse Bergman di Tarkovskij.
Quei luoghi possono accompagnare tutta la vita di chi ha avuto la sorte di vederli da giovane: a me successe alla cineteca di Bologna, anni Ottanta, in una retrospettiva sul regista sovietico che era appena morto. Ci restano accanto quei posti onirici attraversati centimetro per centimetro, fatti di detriti, di vegetazione squassata dal vento e soprattutto d’acqua: acqua per terra a coprire, senza nasconderlo, il passato; acqua dai soffitti a scandire, senza ordinarlo, il presente. Li andiamo a rivedere i luoghi inventati da questo grande russo nel momento in cui l’esercito di Putin devasta l’Ucraina e qui da noi dilaga uno sciocco rifiuto dei russi in generale, a volte perfino della loro grande tradizione culturale. Tarkovskij che, nel suo testamento filmico, ci ha raccontato come l’amore e la fede possono cancellare la terza guerra mondiale. Tarkovskij che si muove con faticosa dialettica sul confine tra Occidente e tradizione slava, tra moderno e premoderno: proprio quel confine che oggi molti vorrebbero rendere un fronte.
I. Gli intellettuali, i pazzi, il numinoso, le donne
Mi concentro in particolare su quattro pellicole: Solaris (1972), Stalker (1979), Nostalghia (1983) e Offret (1986). Cosa le accomuna? Anzitutto il contrasto tra la figura del folle o ritenuto tale (lo stalker – avventuriero/sacerdote – del film omonimo; l’astronauta Berton che per primo, non creduto, denuncia la mostruosità del pianeta Solaris; Domenico, il pazzo di Nostalghia; infine il singolare postino Otto di Offret) e la figura dell’intellettuale caratterizzata da razionalità e riconoscimento sociale (lo Scrittore e lo Scienziato di Stalker; Kris lo psicologo-astronauta di Solaris; il poeta Gorčakov in Nostalghia; l’ex-attore Aleksandr in Offret). In tutti i casi e con varie sfumature, il folle è la guida o l’apripista e l’intellettuale, pur titubante, finisce per seguirne le tracce o le indicazioni venendo così in contatto fatale con il numinoso.
Il secondo fondamentale elemento comune ai quattro film è appunto la presenza del sacro, dotato di un potere sconvolgente e meraviglioso (la Zona di Stalker, il mare senziente del pianeta Solaris, la piscina di Bagno Vignoni e il rito che vi si svolge in Nostalghia, Maria la domestica-strega di Offret) che può uccidere, rendere folli, rendere felici, salvare il mondo.
Il comportamento apparentemente illogico e spiazzante del numinoso sembra dipendere da come vi si rapportano gli umani. La disperazione e l’angoscia che spesso caratterizzano i personaggi paiono altrettanto spesso rappresentare la via d’accesso al sacro e a un suo comportamento non ostile. Nessuno schema o previsione razionale si rivelano comunque adeguati a guidarci – personaggi o spettatori – nei luoghi tarkovskijani.
Il mare di Solaris, ad esempio, risponde ai tentativi di dialogo degli umani su un piano totalmente diverso, assorbendoli sempre più nei suoi vortici come una divinità terrificante e incomprensibile. Non potremmo essere più lontani dalle rassicuranti armonie del dialogo con gli alieni nel delizioso Incontri ravvicinati di Spielberg. All’evoluzione morale del protagonista Kris (studioso arrogante arroccato sulle proprie certezze razionali all’inizio, che diviene – attraverso il travaglio intimo cui lo costringe il pianeta – umile al punto di inginocchiarsi ai piedi del padre in una delle ultime scene) non corrisponde affatto un epilogo lieto, visto che l’apparente ritorno a casa si rivela essere un’incorporazione radicale di quel frammento di Terra e di realtà nel mare di Solaris, come una sua isola.
Un terzo aspetto che può collegare le quattro opere in questione riguarda il ruolo dei personaggi femminili. A volte stanno in secondo piano rispetto alla centralità del rapporto del protagonista con il sacro. Possono cercare di interporsi in chiave puramente erotica come fa, invano, la traduttrice Eugenia di Nostalghia. Oppure intrecciano la propria vita a quella dell’uomo travagliato dall’esperienza spirituale in una dialettica di contrasto geloso e amorevole comprensione, dove però quest’ultima prevale: così nella splendida scena di Stalker in cui la compagna del protagonista – che in questo caso è il ‘folle’ medesimo, innamorato della Zona – con gli occhi rivolti alla cinepresa spiega allo spettatore perché, nonostante tutto, ami lo stalker e gli sia fedele. Altre volte possono essere emanazioni del numinoso stesso, come lo è Hari in Solaris. Quest’ultimo è l’unico tra i quattro film (in realtà, nell’intera produzione del cineasta) in cui una storia d’amore è al centro del racconto: ma appunto l’amata non è un’umana, bensì un essere interamente costituito da neutrini, generato dal mare senziente del pianeta alieno che l’ha tratto dalla memoria e dall’immaginazione del protagonista. Hari è insomma la concretizzazione fisica dell’icona mentale che Kris conservava della propria moglie, morta dieci anni prima. Quando lei era viva – quando era una persona umana – il marito non l’amava come lei avrebbe voluto e per questo si era tolta la vita. Ora invece, sulla stazione spaziale, lui s’innamora teneramente della propria immagine di lei divenuta materia: ciò è estremamente pregnante sul piano psicologico se è vero che l’innamoramento è sempre proiezione di modelli interiori sulle persone reali. Abbiamo poi Maria, la domestica/strega di Offret: nel caos che segue l’annuncio dell’apocalisse nucleare, il bizzarro postino Otto suggerisce ad Aleksandr l’unica assurda via d’uscita dalla catastrofe: andare a casa della domestica Maria e chiederle di poter fare l’amore con lei. In questo caso la donna s’identifica addirittura con il numinoso, o comunque è un suo tramite diretto e attivo (non semplicemente un’emanazione come Hari).
In sintesi, l’unica cosa che accomuna tutte le figure femminili dei quattro film è di essere antitetiche alla razionalità degli intellettuali e di caratterizzarsi in base al rapporto che intrattengono con il sacro: che sia di opposizione, di ambivalenza, di emanazione o d’identificazione.
Si tratta di temi in larga misura kierkegaardiani: il rapporto strettissimo tra fede e follia, la solitudine del Singolo di fronte a un divino le cui esigenze trascendono l’etica e la razionalità, il nesso conflittuale tra eros e agape.
II. 1+1=1?
L’opera di Tarkovskij, che ha trovato i propri strumenti in Unione Sovietica, un’area politica da cui il sacro doveva essere radicalmente espulso, lo lascia esplodere lentamente sullo schermo fino a meritarsi l’esilio. Ma l’intensità delle sue millimetriche sequenze, che ascoltano una natura sopravvissuta alla violenza umana e creano arte lontanissima dalle logiche dell’industria culturale, sono ugualmente una sfida all’altro materialismo: quello del capitale. Terzo avversario implicito di questa rara bellezza sembra essere la religione istituzionale nel suo abituale aspetto degradato dalla trasformazione dei propri mezzi storici, cultuali e organizzativi in rigidi fini: la religiosità meschina e conformista che spesso fornisce un surrogato sacrilego del numinoso. Su quest’ultimo punto, il discorso è in realtà complesso perché la fascinazione del regista nei confronti del cristianesimo ortodosso è intensa. C’è chi parla di “ambigui corteggiamenti “integralisti’” e di un “ripensamento di tendenza russo-isolazionista” che si manifesterebbe in particolare a partire da Lo specchio[1]. Ciò va messo in relazione a un atteggiamento indubbiamente critico di Tarkovskij nei confronti della modernità occidentale e del suo aver reso progressivamente sempre più periferici e ininfluenti Dio e la comunità umana.
Nella casa gocciolante e spettrale di Domenico campeggia una scritta: 1+1=1.
“Una goccia più una goccia non fa due gocce, ma una goccia più grande!” spiega con fervore il folle – che peraltro è stato un insegnante di matematica – al perplesso ma interessato Gorčakov.
E poco prima di darsi fuoco in piazza del Campidoglio, attorniato da un gruppo di psicotici che manifestano con lui, grida ai “sani” che bisogna ritornare al punto nel quale “avete imboccato la strada sbagliata!”.
Quel punto sembra essere il Rinascimento (anche sul piano artistico, come mostra il complesso e ambivalente rapporto del regista con l’opera di Leonardo), l’Umanesimo, la nascita della scienza moderna e quella dell’individuo (ossia della “goccia” che non vuole più fondersi e confondersi con le altre nel tutto sociale).
Tuttavia, a partire dall’Andrej Rublëv – emblematico a questo riguardo – fino all’ultimo film, Offret, è evidente che “Tarkovskij evita l’angustia del tradizionalismo reazionario grazie ai contrasti della propria vocazione estetica”[2]; che verso l’Occidente egli prova al contempo repulsione e attrazione; che nelle sue opere si affaccia “il dualismo lacerante della cultura russa moderna: da un lato la porta di san Pietroburgo, dall’altro la gelosa identità slava”[3]; che il “paradosso inamovibile” del suo cinema sta “nella contraddizione dinamica e strutturale tra una dimensione latamente ‘umanistica’ […] e un’altra, invece, afferente a una teologia dogmatica e severa”[4].
Esemplare in questo senso è la stessa scelta del mezzo cinematografico da parte di un poeta in senso lato (nonché figlio di un poeta in senso stretto, Arsenij Tarkovskij, spesso citato nelle pellicole del figlio) che avrebbe forse potuto esprimersi anche in forme più tradizionali: da un lato, infatti, il cinema è arte peculiarmente moderna, ma dall’altro – in quanto arte popolare della nostra epoca – “corrisponde alla condivisione dell’opera (la pala d’altare, l’icona) che anticamente legava l’artista alla comunità”[5].
Il tema dell’icona è naturalmente al centro dell’Andrej Rublëv, sorta di biografia di quello che è stato forse il più grande pittore di icone, nonché santo della Chiesa ortodossa.
La pittura iconica è fondamentalmente antitetica a quella moderna occidentale: essa viene infatti intesa come “apparizione del sacro, di cui il pittore è un mero tramite”; come “emanazione della divinità, non […] creazione individuale in senso moderno”; come “presenza” piuttosto che come “rappresentazione”[6].
Tarkovskij però, nella sequenza finale del film improvvisamente a colori – tra dissolvenze incrociate e stacchi netti, e concentrando la cinepresa sulla materialità delle opere – ricava dalle immagini delle icone attribuite a Rublëv una sorta di action painting, di partitura astratta o informale, ipermoderna.
Se è vero che “alla fine del loro divergere”, la tradizione pittorica russa e quella occidentale “tornano a incontrarsi” tramite il cubismo, il futurismo o un autore come Klee, il nostro regista sembra aver intuito ed elaborato tale paradossale convergenza[7].
Quanto al confronto con gli aspetti dogmatici delle confessioni cristiane, la sua posizione complessa e sofferta è già palese quando mette in scena il rifiuto di Rublëv di dipingere il giudizio universale basandosi sulla tradizione che prevede rappresentazioni orrorifiche dell’inferno come monito per i peccatori[8]. Più in generale, la fede che Tarkovskij vorrebbe veder rinascere dalle macerie della modernità “è una fede che si affaccia sul vuoto, che vale per sé ma ha un oggetto incerto”[9].
Egli è convinto che la verità debba “essere vissuta e non insegnata” e che la tradizione possa “essere sancita e inverata solo dall’esperienza personale”; che la verità spirituale sia “polimorfa e inafferrabile”. Peraltro, il muoversi – come avviene in Stalker – “intorno a un centro sfuggente” che non può essere raggiunto attraverso un semplice percorso lineare “diviene per il regista russo il simbolo dell’attività [stessa] dello spirito”[10].
Quanto poi al prodigio della fede che si compie in Offret, anche se ha inizio con la recitazione del Padre Nostro e con una supplica e un voto a Dio, esso non può rientrare in alcuna ortodossia cristiana: si serve infatti degli “auspici di un postino-veggente” e dell’azione cruciale di “una strega contadina”[11]. Si può inoltre rilevare che l’atto di fede del protagonista – quello che consente di salvare il mondo – si traduce in un atto sessuale: fare l’amore con Maria, il cui nome non può certo essere casuale. Sarà anche vero che “nell’amplesso del protagonista con la serva Maria, tutto avvolto in un grande lenzuolo […] non possiamo vedere che la Pietà, la Madonna col figlio morto in braccio”[12], ma resta pur sempre una pietà che si esprime tramite il coito, ed è difficile non pensare che il regista stia alludendo allo squilibrio occidentale (ma occidentale anche in quanto cristiano!) tra materia e spirito, che non consiste solo in un progresso materiale dimentico della spiritualità – come si dice in modo piuttosto banale all’inizio del film –, ma anche e soprattutto in una spiritualità mostruosamente disincarnata.
III. Didascalismo e allegoresi
La lettura del libro completato dal regista nell’ultima fase della sua vita, Scolpire il tempo, mi ha a volte lasciato perplesso. Mentre il tessuto dell’opera cinematografica – il tempo scolpito – è quasi sempre meravigliosamente imprendibile, non categorizzabile e ti costringe a entrare, a essere tu stesso il film, il Tarkovskij interprete di sé stesso (non parlo delle riflessioni sulla forma, molto interessanti, ma di quelle sui contenuti) è invece spesso scontato, moralistico, spiacevolmente didattico.
Anche le pellicole, comunque – in particolare per ciò che concerne i dialoghi – non sono del tutto esenti dal rischio di moralismo e, qui e là, da una platealità che stona nel tessuto complessivo delle opere.
Si tratta soprattutto degli ultimi lavori, quando fu forse l’urgenza data dall’intuizione della morte vicina a richiedere di consegnare un messaggio chiaro anche a costo di qualche cedimento estetico. Si può citare a questo proposito il discorso declamato da Domenico prima di darsi fuoco, in Nostalghia, come anche i monologhi di Aleksandr nei primi venti minuti di Offret (in entrambi i casi è molto probabile che il regista stia esprimendo una propria convinzione attraverso i due personaggi, peraltro interpretati dal medesimo attore, Erland Josephson) e la stessa chiusa dell’ultimo film, con il bambino – il figlio di Aleksandr – che, accanto all’albero secco forse rifiorito, ritrovando la parola ricorda una frase che gli ripeteva il padre: “In principio era il Verbo. Perché, papà?”.
Si può comunque notare che talvolta, proprio nei film in questione, il regista si mostra attento a non cadere nella solennità patetica inserendo elementi di comicità – normalmente esclusi dalle sue opere – proprio nei momenti cruciali legati al sacrificio supremo. Lo fa notare Slavoj Žižek in uno dei passi convincenti della sua lettura “materialista” e lacaniana di Tarkovskij. Nel caso di Offret, non si tratta solo del brano descritto dal filosofo sloveno, col “comico balletto degli infermieri che inseguono il protagonista per portarlo al manicomio, e la scena è girata come se si trattasse di bambini che giocano a nascondino” [13], ma anche di quella in cui Otto cerca di spiegare ad Aleksandr che deve andare a letto con Maria per salvare il mondo dalla catastrofe atomica: è quasi uno sketch, con l’intellettuale che mostra costante incomprensione di ciò che il postino – con urgenza svagata – gli dice più volte. Forse una distribuzione più generosa di questa vena umoristica avrebbe giovato alle ultime opere.
Su un piano diverso, ma imparentato con quello di cui si è detto, accade a volte che il regista senta il bisogno di informare il fruitore riguardo a determinati contenuti del film e lo faccia tramite espedienti narrativi che risultano forzati: è il caso della scena di Stalker in cui, mentre la guida si allontana per entrare in contatto intimo con la Zona, Scrittore e Scienziato hanno uno scambio inverosimile che – senza essere apertamente metanarrativo, ciò che lo salverebbe – sembra avere l’unica funzione di riassumere una serie di informazioni riguardo al contesto in cui i tre si trovano, a beneficio della comprensione razionale dello spettatore.
Del resto, è lo stesso regista – nei passaggi migliori dei suoi scritti – a stigmatizzare la trappola in cui talvolta cade: “l’artista non ha il diritto morale di abbassarsi a un certo livello medio, esistente in astratto, in nome di una malintesa maggiore comprensibilità”[14].
A questo punto è però importante evidenziare che l’opacità del miglior Tarkovskij non ha niente a che fare con la decifrazione di simboli o con la richiesta di risolvere indovinelli.
I registi che mettono gli spettatori davanti a simili rebus, egli afferma, li privano “della possibilità di utilizzare emotivamente il loro personale atteggiamento verso ciò che hanno visto”[15]. In altri termini, “sul versante della fruizione, ‘l’arte può soltanto fornire nutrimento, una spinta, un pretesto per un’esperienza spirituale’. Può soltanto portare sulla soglia ove […] si incrociano esperienza estetica ed etica: superare quella soglia dipende dallo spettatore”[16].
Insomma, Tarkovskij non vuole stimolare l’intelletto, che anzi trova modo di riposarsi nei luoghi onirici attraversati dai lunghi piani-sequenza per lasciare l’anima libera di viaggiare, di entrarci e trovare qualcosa di proprio, di non preventivabile. In questo senso, il russo si trova agli antipodi di un David Lynch, delle cui trame labirintiche (che, anche dove non prevedono soluzioni precise, ti spingono a cercare di capire) godono più facilmente i matematici che i metafisici.
In Stalker o in Nostalghia non troviamo dunque simboli, metafore e nemmeno propriamente allegorie, ma è molto significativo che si sia parlato a questo proposito di “allegorismo” inteso come “struttura generativa dell’allegoria […] per il continuo, sfuggente trascorrere dei significati”[17].
Come ha fatto il cineasta sovietico a portare sullo schermo una simile “struttura”, forse ancor meglio definibile come un procedimento di allegoresi? Si tratta di “prendere un luogo, un oggetto, chiuderli dentro una cornice e ‘alterarli’ attraverso gli artifizi della messa in scena al fine di ricrearli e liberarne le potenzialità espressive, conservandone ‘comunque’ l’aspetto e la riconoscibilità: un compito insieme estetico e morale, che si manifesta nell’interrogazione e nella delicatezza con cui l’occhio scivola sulla decantazione dei materiali”[18].
Questo modo di intendere il fare artistico ricorda le riflessioni che Walter Benjamin ha dedicato appunto all’allegoresi, analizzandone a più riprese il procedimento: esso consisterebbe nel disarticolare ogni ordine dato (ogni prospettiva che tenda a mascherare il carattere effimero e futile di tutte le cose) per conferire ai frammenti così ottenuti significati arbitrari che alimentano il mesto sapere, meramente soggettivo, proprio della melanconia. Ma in questa pars destruens – per il filosofo berlinese – esiste latente una possibilità di salvare le cose, che può manifestarsi se il rimuginare melanconico si ribalta in esercizio filosofico.
Che vi sia in Tarkovskij e nei suoi appassionati fruitori una vena melanconica mi pare fuori discussione, ed è altrettanto evidente l’aspirazione del regista a “salvare” – anche in senso teologico – i fenomeni attraverso il proprio lavoro.
Forse allora si può intendere, seguendo Benjamin, l’alterazione tarkovskijana degli oggetti più o meno quotidiani tramite gli artifici della messa in scena come quel malinconico lavoro di disarticolazione della realtà (o meglio dell’ordine conferito alle cose dalle convenzioni sociali) che da un lato consente poi allo spettatore di rimuginare costruendosi le proprie personalissime allegorie e, dall’altro, prepara il terreno per un salto dall’estetica all’etica, per un’esperienza spirituale mai prevedibile ma sempre latente tra i fotogrammi.
La legittimità di un confronto tra il filosofo tedesco e il cineasta russo – relativamente al tema dell’allegoresi – trova conferma se si prende in considerazione il procedimento artistico di un altro grande melanconico opportunamente citato da Benjamin a tale riguardo, ossia Gustave Flaubert. Il romanziere (già nell’esperienza quotidiana, pre-artistica) tendeva a estraniarsi dal proprio ambiente, nutrendo una percezione deformata anche della cosa più intima e naturale, che diveniva in tal modo vertiginosa ed enigmatica. E proprio su tale introiezione e deformazione dei fenomeni osservati egli ha fondato il proprio metodo di scrittura: per riprodurre efficacemente la realtà – si legge nell’epistolario flaubertiano – bisogna innanzitutto entrare in essa con l’“organo speciale” della poesia, il quale, “senza cambiarla, la trasfigura”[19].
Anche se è evidente che le opere di due artisti così diversi non sono assimilabili, si può dire che lo sguardo di Flaubert mentre si accinge a scrivere e lo sguardo della cinepresa di Tarkovskij hanno qualcosa in comune: l’“intenzione allegorica” di cui parla Benjamin.
Un altro riscontro in tal senso si può trovare nella descrizione che il regista fa del modo in cui è nata l’ambientazione dell’Andrej Rublëv: descrizione perfettamente conforme alla convinzione “melanconica” di Benjamin che non sia nemmeno il caso di tendere a un’impossibile ricostruzione del passato come realmente è stato, sicché – come si legge nel Passagen-Werk – “il vero metodo per renderci presenti le cose [del passato] è di rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro)”[20]. Ecco il brano da Scolpire il tempo: “Uno degli scopi che ci prefiggemmo […] fu quello di ricostruire il mondo reale del XV secolo per lo spettatore di oggi, ossia di rappresentarlo in modo tale che lo spettatore non avvertisse alcun esotismo da museo […]. Allo scopo di ottenere la verità dell’osservazione diretta – una verità, se così ci si può esprimere, ‘fisiologica’ – ci toccò a tratti scostarci dalla verità archeologica ed etnografica. […] Non possiamo ricostruire alla lettera il XV secolo […]. Il modo in cui lo avvertiamo è completamente diverso da quello in cui lo sentivano gli uomini che vivevano allora. Anche la Trinità di Rublëv la percepiamo in modo diverso […]. E tuttavia la vita della Trinità si è prolungata attraverso i secoli […]: possiamo rivolgerci al contenuto spirituale e umano della Trinità, vivo e comprensibile per noi […]. Ciò determina anche il nostro approccio al reale che ha generato la Trinità”[21].
Ho accomunato in questo paragrafo la critica ai cedimenti didascalici di Tarkovskij e la lode alla sua “intenzione allegorica” – che si esprime al meglio nei meravigliosi piani-sequenza generatori dei luoghi di cui stiamo parlando – perché credo che si trovino agli antipodi.
L’allegoresi tarkovskijana permette al massimo grado allo spettatore di entrare soggettivamente nel film, di proiettarvi la propria caotica realtà interiore e di lasciarla muoversi e orientarsi entro un terreno iconico e narrativo dilatato e fertilissimo; e solo così, per eccesso di soggettività, potrà forse avere luogo il miracolo dell’esperienza etica trasformativa: quella che nessuna predica, spiegazione o declamazione di principi morali “oggettivi” potrebbe generare.
IV. Credere nella felicità e salvare il mondo
La cinepresa di Tarkovskij rende tutto sacro, o meglio mostra la sacralità di ogni dettaglio del mondo con il suo incedere meditante. Il suo panteismo di fatto è inseparabile dalle lentissime carrellate che lo hanno reso celebre. D’altra parte, i suoi film mostrano parti del mondo in cui la concentrazione di vita sembra essere tale da renderle amplificatori del sacro, catalizzatori di energia vitale. Cosa sono la Zona, il pianeta Solaris, la piscina di Bagno Vignoni…?
Il regista, infastidito dalle “interpretazioni più impensabili”, taglia corto: “la Zona è la Zona, la Zona è la vita”[22]. Sì, ma è vita concentrata al massimo grado. Se tutto è Dio, la Zona – come i luoghi analoghi nelle altre pellicole – è però ciò che ci permette di capirlo. In questo senso, le aree sacre tarkovskijane sono per certi versi paragonabili ai mandala di alcune tradizioni giapponesi: condensati dell’universo e delle sue leggi in grado di amplificare e diffondere nel macrocosmo quel che di noi esprimiamo nel rivolgerci ad essi; e, se usati bene – con cuore attento –, specchi di ciò che in noi non ha bisogno di guardarsi. Del resto, abbiamo già visto come il regista sia particolarmente attento a quello che è forse il parente più prossimo del mandala nella religiosità cristiana, cioè all’icona dell’Ortodossia. A questo proposito, non mi pare irrilevante che il protagonista di Offret (e con lui l’ultimo, testamentario, Tarkovskij) guardi “all’antica cultura giapponese come a un patrimonio integro e […] affidabile […]. Battezza ikebana l’albero secco, indossa un kimono ‘armonico’, recupera da quell’Oriente estremo il modo di abitare”[23]. E la stessa musica che attraversa il film è in larga misura legata al Giappone grazie al flauto di bambù di Watazumi Doso.
La Zona, come già accennato, è spiazzante oltre ogni dire: anche in questo incarna il sacro, il cuore della vita stessa. Lo dimostra il fatto che perfino lo stalker, il quale le dedica la propria esistenza e la scagiona dall’accusa di essere capricciosa sostenendo che la sua imprevedibilità si connette allo stato d‘animo di chi la attraversa, è costantemente contraddetto nelle sue devote convinzioni dal modo in cui essa reagisce alle azioni – che egli ritiene sconsiderate – dello Scienziato e dello Scrittore. Ogni sacerdozio, perfino quello tutt’altro che istituzionale dello stalker, è sempre inadeguato in rapporto al numinoso.
Ma se – nonostante le apparenze contrarie e i pensieri coscienti dei protagonisti – quel che succede nella Zona dipende dagli umani che vi entrano (come l’avventuriero continua fino alla fine a sostenere), ciò sembra significare che la realtà attraente e spaventosa che essa incarna ha molto a che fare col loro (col nostro) inconscio. È in fondo un Sé che si estende ben al di là del livello ordinario di coscienza ciò che la strana guida cerca d’intercettare abbandonando i piani razionali e affidandosi al lancio fortuito dei dadi.
Nella Zona c’è una casa e in questa casa c’è la stanza, entrando nella quale si dice che vengano esauditi i desideri più intimi e profondi.
La domanda terribile che la stanza – nei fatti – pone è: qual è il tuo vero oggetto di culto?
La stanza è smascherante come la sventura, come la morte. L’oggetto di culto interiore autentico, ciò a cui diamo realmente più importanza (che sia una persona, il riconoscimento sociale, il potere…), corrisponde spesso alla ferita originaria che segna la nostra vita. Anche nel caso in cui ne diventiamo parzialmente consapevoli, è facile illudersi di riuscire a sanarla tramite sforzi di auto-perfezionamento, trasformando il centro del nostro cuore in qualcosa di più nobile, di bello e di buono. La paura di entrare nella stanza è la paura di vedersi per come si è, al di qua di tutto l’impegno che può esser stato profuso per cambiare.
Se avessimo davvero come oggetto di culto l’amore, forse la stanza salverebbe il mondo amplificando il nostro amore. Ma questo potrebbe avvenire se avessimo guarito la ferita tramite l’amore per noi stessi, l’auto-accettazione totale. D’altra parte, Tarkovskij sembra suggerire con un monologo dell’avventuriero che la meravigliosa meta del “credere in sé stessi”, connessa al divenire flessibili e duttili come bambini, richiede di passare attraverso l’avverarsi dei desideri più sofferti e magari più immorali: “che si avverino […] e che possano ridere delle loro passioni!”
I protagonisti del film si ritrovano concordi nel non avere mai visto una sola persona felice. E chi lo guarda può essere portato a concordare a propria volta, intuendo che la realizzazione dei desideri più segreti non comporta di per sé felicità, ma che una felicità che non passi in qualche modo da lì non è davvero tale. La beatitudine – la gioia interiore, indipendente dalle circostanze – è il cuore e la base dell’essere felici, ma non è ancora la felicità completa perché questa, in quanto siamo esseri fenomenici, implica anche un rapporto con la soddisfazione dei desideri. E i due sentimenti – entrambi già difficili da provare come tali – sembrano per giunta incompatibili o comunque in contrasto (lo sono secondo buona parte delle tradizioni morali del pianeta). Forse è anche in relazione a tale difficoltà che si può leggere la poesia di Tarkovskij-padre letta dal protagonista in una tappa del percorso: quella che ripete ossessivamente “eppure questo non basta”. Ma nella felicità bisogna continuare a credere per continuare a vivere.
L’unica ad affermare di essere contenta della propria vita è la moglie del protagonista nel suo monologo finale: una felicità amara, nutrita di continuità travagliata dei rapporti, di fedeltà alla promessa di un giorno, di sogno doloroso e vivo, di eros agapico. Per lo stalker l’analogo di quel sentimento consisterebbe forse nel portare moglie e figlia nella Zona, ciò che gli viene in mente quando si trova sulla soglia della stanza (dolcemente piovosa) dopo l’ultimo conflitto con i suoi compagni di viaggio. Ma quando sarà poi la moglie, nelle ultime scene, a chiedergli di portarla là, lui le dirà in un soffio disperato che non è possibile e che teme che lei non sia in grado di ottenere ciò che spera dalla stanza.
Nemmeno lo stalker ha pienamente fede nella Zona e lo dimostra la sua stessa disperazione. Anche questo è kierkegaardiano.
Ne La malattia mortale – opera per la quale Kierkegaard adotta lo pseudonimo di Anti-Climacus, il cristiano perfetto perché antiascetico – il filosofo danese sembra denunciare sé stesso come disperato, cioè come succube della malattia che si oppone alla fede: “È pure una forma di disperazione quella di non voler sperare nella possibilità che una calamità terrestre, una croce temporale, possa essere tolta […]. Quando si è accertato che quel ‘pungolo nella carne’ […] si è conficcato così profondamente che egli non può più astrarre da esso […], lo vuole quasi accettare per l’eternità […]: egli vuole […] essere sé stesso con quel male, portarlo con sé, andando quasi fiero del suo tormento. Perché sperare nella possibilità di un aiuto, specialmente in virtù del pensiero assurdo che a Dio tutto è possibile – no, questo egli non lo vuole”[24].
Viene da pensare che se davvero si avesse una fede assoluta (nella Zona, in Dio, cioè in fondo in sé stessi) trascendendo così il rifugio della disperazione, si realizzerebbero i desideri impossibili.
Dal canto loro, i due intellettuali – le cui discussioni si trovano certamente sul piano della “chiacchiera” e la cui aridità si contrappone senza dubbio al timore e tremore della guida[25] – mostrano in certo modo un percorso di fede.
Quando infatti “raggiungono la meta dopo aver provato, pensato e valutato in modo nuovo molte cose, non si decidono a entrare nella stanza” perché “si sono innalzati fino alla coscienza della propria imperfezione […]. Essi non trovano la forza spirituale per credere in sé stessi, ma hanno abbastanza coraggio per guardarsi dentro e rimanerne atterriti!”[26]. Insomma, se non entrano nella stanza è perché – nonostante quel che dice di loro lo stalker lamentandosene con la moglie – in qualche modo credono nella Zona e temono che essa possa realizzare i desideri più autentici e/o più meschini.
Significativa, a questo riguardo, è anche l’invettiva dello Scrittore quando irride il timore dello Scienziato che qualcuno intenzionato a distruggere il mondo possa giungere alla stanza e ottenerne tale distruzione (è questo il motivo per cui il fisico si è proposto di far saltare in aria la mistica casa): “La smetta! Non è possibile che nell’uomo si racchiuda tanto odio o anche tanto amore da riuscire a sommergere tutta l’umanità. Vorrà denaro, una donna, o una vendetta. Desidererà che il suo capo venga schiacciato da una macchina, questo magari sì. Ma il dominio del mondo…una società giusta…il regno di Dio sulla Terra…Questi non sono desideri, sono ideologie, categorie, concetti!”
Inoltre, al termine del viaggio i due intellettuali sono visibilmente rapiti dal “miracolo” dell’amore che unisce il folle alla sua compagna, invidiando quella famiglia dolorante ma unita.
“Nonostante i protagonisti subiscano in apparenza una sconfitta” – commenta ancora il regista – “in realtà acquisiscono qualcosa di incalcolabilmente importante: la fede! La scoperta dentro di sé di ciò che è più importante”[27].
Il viaggio è dunque in corso, per tutte quelle parti del sé che i personaggi tarkovskijani forse rappresentano, ma il film del 1979 lascia molto in sospeso.
Dicevamo dei limiti estetici di Offret, ma non di rado la bruttezza e il bene si fanno compagnia: e allora forse non è un caso se il regista riesce proprio qui, per la prima e ultima volta, a testimoniare fino in fondo che la fede realizza l’impossibile. Lo stalker, l’abbiamo visto, pur innamorato della Zona, non giunge ad abbandonarsi completamente alla fiducia in essa e la pellicola non ospita veri e propri miracoli, se non il gioco della bambina che muove i bicchieri col pensiero nelle meravigliose immagini finali: gioco potente ma in fondo inutile e triste. La fine di Nostalghia, pur testimoniando la speranza cupa e testarda di Gorčakov nel valore del suo folle attraversamento della piscina con la candela accesa, ci lascia nell’agnosticismo di immagini ambigue: è una chiusa certamente più bella di quella di Offret, ma resta il dubbio che il gesto del poeta, come anche il sacrificio di Domenico, non siano serviti a niente. Solo il rapporto di Aleksandr con la strega ci pone di fronte allo sconvolgente risultato di una fede totale: le leggi del mondo fenomenico vengono stravolte, il tempo regredisce, la guerra nucleare non c’è più, sostituita dalla crudeltà dei litigi quotidiani. Aleksandr chiede con tutto il cuore alla donna di salvare tutti, non desiste di fronte all’apparente incredulità della stessa Maria che finge di non capire e gli chiede di tornare a casa: si punta la pistola alla tempia, disperato senza residui né rifugi, disperato come un bambino (e infatti il regista ci fa ascoltare una scena che sembra riaffiorare dall’infanzia del protagonista durante l’amplesso levitante), pronto veramente a qualunque cosa pur di realizzare quel desiderio che – e qui viene smentito il punto di vista dello Scrittore di Stalker – non è solo privato, è collettivo anche se parte dal proprio dolore, è il desiderio della pace per tutti, della fine della sofferenza infernale per tutti.
Forse si può dire che Aleksandr sintetizza la guida della Zona (ha la sua passione, il suo cuore nudo) e Gorčakov (che compie il “salto” assurdo di entrare nella piscina – l’analogo della Stanza – ma lo fa restando fedele alla propria perplessa melanconia): l’ex attore entra nella stanza di Maria e lo fa a cuore aperto credendo senza riserve nell’impossibile. Il mondo è salvo.
[1] T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Milano, Il Castoro 2015 (edizione digitale), pp. 295-298.
[2] Id., p. 309.
[3] T. Masoni, C. Vecchi, Da sempre in esilio, in A. Signorelli (a cura di), Andrej Tarkovskij (Bergamo Film Meeting 2004), 2014 (edizione digitale), p. 21.
[4] F. Cattaneo, Rifrazioni dell’icona. Per una lettura di Andrej Rublëv, in A. Signorelli, cit., p. 42.
[5] T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij cit., pp. 56-57.
[6] F. Cattaneo, Rifrazioni dell’icona. Per una lettura di Andrej Rublëv, in A. Signorelli, cit., p. 45.
[7] Cfr. Id., pp. 46-53. Qui Cattaneo fa riferimento anche a una riflessione di Sergio Givone.
[8] Cfr. T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij cit,, p. 103.
[9] Id., p. 265.
[10] F. Cattaneo, Rifrazioni dell’icona. Per una lettura di Andrej Rublëv, in A. Signorelli, cit., p. 42-43.
[11] Cfr. T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij cit,, p. 298.
[12] Id., p. 306.
[13] S. Žižek, Tarkovskij: la Cosa dallo spazio profondo, Milano-Udine, Mimesis 2011, p. 44.
[14] Cfr. T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij cit,, p. 34.
[15] Cfr. Id., p. 27.
[16] F. Cattaneo, Rifrazioni dell’icona. Per una lettura di Andrej Rublëv, in A. Signorelli, cit., p. 44.
[17] Cfr. T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij cit., p. 227.
[18] A. Signorelli, Nel labirinto del tempo. Stalker, in A. Signorelli, cit., p. 86.
[19] Cfr. D. Ferdori, La Tesi VII sul concetto di storia di Walter Benjamin, «Filosofia e teologia» 2/2004, pp. 359-374.
[20] Cfr. Id., p. 368.
[21] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Perugia, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij 2015, pp. 75-76.
[22] Cfr. T. Masoni, C. Vecchi, Andrej Tarkovskij cit., p. 221.
[23] Id., p. 290.
[24] S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Opere, vol. III, Casale Monferrato, PIEMME 1995, pp. 82-83.
[25] Cfr. A. Signorelli, Nel labirinto del tempo, in A. Signorellicit., p. 90.
[26] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo cit., p. 181.
[27] Id., p. 182.