Quali sono le forme tramite cui, oggi, si manifesta la sorveglianza digitale?
In Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale (Edizioni Il Galeone, 220 pag., 15 €, 2022), Gioacchino Toni attinge al pensiero di filosofi, sociologi ed esperti di cultura visuale per analizzare un sistema estremamente articolato che si avvale di dispositivi digitali atti a stimolare negli individui azioni, atteggiamenti ed emozioni sempre più monitorate, in certi casi persino indotti. Su Scenari pubblichiamo un estratto dell’introduzione al libro.
In un panorama contraddistinto da una tendenziale messa in finzione e dematerializzazione della realtà, da una spiccata propensione esibizionistica degli individui e da un processo di desoggettivazione antisociale, il settore del capitalismo della sorveglianza trova il suo motore di crescita nei mezzi di analisi, predizione e indirizzo comportamentale e nella trasformazione dei consumatori in lavoratori senza che questi ne siano (o ne vogliano essere) consapevoli, sempre più dipendenti dal mondo digitale così come è strutturato.
Quello che è stato definito capitalismo della sorveglianza incide sul reale attraverso le applicazioni, le piattaforme e gli oggetti tecnologici che si utilizzano quotidianamente e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti dalla società della prestazione; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri; la parcellizzazione dell’apprendimento; l’accesso selettivo alle informazioni utili a esigenze immediate di relazione; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sui comportamenti degli individui raccolte ed elaborate.
Si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio, predizione e indirizzo comportamentale mai visto all’opera nella storia e tali pratiche di controllo e manipolazione sociale e individuale non sono in possesso di un tradizionale Stato di polizia, ma di alcune grandi aziende private, vere e proprie nuove superpotenze, che agiscono con il supporto di un certo entusiasmo popolare: dopotutto questi accattivanti dispositivi digitali sembrano offrire gratuitamente ciò che tutti desiderano, compresa una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità e di protagonismo. Cioè tutto quanto è stato fatto loro perdere per strada un poco alla volta.
A insinuarsi nell’intimità degli individui non sono soltanto le sofisticate forme di controllo esercitate dalle piattaforme digitali di condivisione, ma anche i tanti oggetti tecnologici di uso quotidiano progettati per raccogliere e condividere dati. Si pensi alla domotica, alle smart-city o alle automobili senza conducente, tanto per fare qualche esempio. In un tale contesto risulta sempre più difficile individuare un confine tra fisico e non fisico, tra online e offline: Internet sta diventando lo sfondo invisibile della vita quotidiana, trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità circoscritta all’uso degli schermi a una modalità diffusa nel quotidiano. Si è infatti spesso online anche senza volerlo o saperlo. Viene da domandarsi se nel prossimo futuro esisterà ancora qualche aspetto privato della vita umana. E se tanti acritici tecno-entusiasti non mancano di rimarcare come la manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso Internet permetta un miglioramento della vita umana, occorre constatare come molti dei miglioramenti di cui parlano abbiano in fin dei conti a che fare con i tempi e i fini imposti dalla società della prestazione, della mercificazione e del controllo. È per forza a questa triade che si deve far riferimento quando si parla di qualità della vita?
Con riferimento a Internet, si parla spesso di servitù volontaria, quasi a voler colpevolizzare gli individui. Si fa presto a dire che la forma assunta dai processi di digitalizzazione dell’esperienza umana abbia potuto prosperare grazie a una certa propensione alla servitù volontaria scambiata volentieri dagli individui con qualche servizio offerto dal Web e dai social… ma la carenza di rapporti sociali fuori dagli schermi e la dipendenza dalla rete non possono che essere rapportate a trasformazioni di cui non si possono colpevolizzare gli individui. Molte relazioni sociali e civiche si sono dematerializzate anche perché le comunità e i rapporti sociali tradizionali sono stati scientemente fatti brillare da quel neoliberismo che ha fatto dell’individualismo più cinico e spietato il suo cavallo di battaglia e l’asservimento digitale non è che la logica conseguenza di quella ricerca spasmodica di nuovi ambiti di sfruttamento che coinvolgono anche gli aspetti più privati dell’individuo. Gli utenti delle tecnologie digitali sono diventati merci e macchine produttive, incessantemente al lavoro per produrre dati e profitto.
Tutto questo deve essere tenuto presente anche quando si afferma, seppure giustamente, che la cultura della sorveglianza contemporanea si caratterizza, rispetto al passato, per una maggiore partecipazione attiva dell’individuo alla propria e all’altrui sorveglianza (si pensi all’esibizionismo/voyeurismo dilagante sui social) contribuendo a fare in modo che si sia tutti controllati e controllori allo stesso tempo. Dal tracciamento tramite GPS di smartphone di familiari al controllo tramite software della navigazione in Internet dei figli o del partner, dal ricorso sempre più diffuso a telecamere di sorveglianza fino alla miriade di oggetti connessi a Internet nelle abitazioni o direttamente indossati, tutto contribuisce a rafforzare la convinzione che la sorveglianza sia parte integrante di uno stile di vita, un modo naturale con cui rapportarsi al mondo e agli altri.
A differenza delle ansiogene forme di sorveglianza tradizionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, le nuove forme di sorveglianza hanno saputo rendersi desiderabili e farsi percepire come pratiche poco invasive, ottenendo così una maggior propensione alla complicità, inducendo ad accettare con estrema disinvoltura di farsi, come detto, sorvegliati e sorveglianti.
Non è difficile scorgere nella contemporaneità una vera e propria ossessione per la trasparenza e una propensione all’esibizionismo. Si tratta di questioni contraddittorie. Se la smania per la visibilità e l’ossessione per la trasparenza possono derivare da finalità nobili, come ad esempio rivendicare pubblicamente e con orgoglio condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, non di meno rispondono anche a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali prestazionali e mercificate. In cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, sancito magari dall’ottenimento di tanti like, si è facilmente indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da risultare graditi ai più.
La cultura della sorveglianza contemporanea esige che organizzazioni e governi siano trasparenti, anche alla luce dell’attività di controllo che questi svolgono nei confronti della popolazione, ma tende anche a suggerire la necessità di concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicando ciò inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo. Se, in generale, la sorveglianza agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, il tipo di sorveglianza reciproca e orizzontale che si sta dispiegando – la cosiddetta sorveglianza sociale – produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza tende dunque a essere interiorizzato agendo sulle pratiche degli appartenenti alla comunità coinvolta.
Sebbene gli esseri umani abbiano sempre tentato di valorizzare la propria immagine nei confronti degli altri, nell’era digitale tale esigenza sembrerebbe essersi resa sempre più impellente all’interno delle competitive società massificate. Dagli individui viene avvertita l’urgenza di costruirsi identità valorizzanti; la tendenza all’esibizionismo sulla Rete ha anche a che fare con la necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità tentando di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti nella società al fine di allestire il proprio sé, la propria soggettività in una realtà d’interesse pubblico. Non pare azzardato vedere in tale pratica di esposizione (anche) una pratica di auto/etero sorveglianza.
Impugnane uno smartphone per condividere sulle piattaforme social il proprio desiderio di libertà tradisce l’impossibilità di liberarsi da quei graziosi walled garden digitali di cui si continua, nei fatti, a essere prigionieri nel timore non solo di essere altrimenti esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che equivale di questi tempi alla morte sociale, ma anche dalla possibilità di trasmetterne a propria volta in un contesto però profondamente viziato. Un cortocircuito da cui è indubbiamente difficile difendersi.