Behemoth e Leviathan exsistent. Carl Schmitt e l’arcano

Il giurista tedesco Carl Schmitt rappresenta una delle pietre angolari del pensiero del Novecento. Non solo e non tanto perché sulle sue tesi, e soprattutto sulla sua nozione di “stato d’eccezione”, sono stati pubblicati innumerevoli libri, saggi e riflessioni, l’ultimo, di poche settimane fa, Che cos’è lo stato di eccezione? secondo Mariano Croce e Andrea Salvatore (Nottetempo, 2022). Schmitt è una pietra angolare anche e soprattutto in virtù della sua non sopita capacità di fare scandalo, uno scandalo che solo in parte si giustifica con la sua momentanea adesione e partecipazione ai primi anni del potere hitleriano in Germania. Ma sfogliare le sue pagine tuttora dona un brivido inesplicabilmente panico, come se in opere di filosofia del diritto in parte datate sia rimasto oscuramente celato qualcosa di grandioso, come un segreto antichissimo che si sporge alla luce.

Giudicata “ai limiti dell’escatologico”, e dello gnostico, da Franco Volpi, ogni pagina di Schmitt è prima di ogni altra cosa una grande lezione di eleganza di pensiero, e di stile. La prosa di Schmitt è segretamente ossessiva, come tutte le grandi prose, quando non lo sono apertamente. Senza dubbio, si tratta di un inseguimento: di riga in riga, di pagina in pagina, Schmitt insegue come un cacciatore sacro le “parole originarie” – il conio è suo – su cui intessere una griglia di interpretazione del politico, e del giuridico. Nihil aliud. Ogni fondazione parte dal tracciare una linea di confine, lo sa fin troppo bene Remo. Ecco allora i confini di Schmitt.

“Un intrigante amalgama di interpretazione storica e teoria politica, mitografia e teologia, filosofia ed esoterismo”, venne definito da Franco Volpi il fortunato saggio di Schmitt Terra e mare, in un’elencazione che potrebbe facilmente essere estesa all’intero corpus schmittiano, e a ogni discorso potenziale sulla sua prosa.
“Più che offrirci un’interpretazione storica, Schmitt ci pone dinanzi a una visione”.
Una visione che non ha paura di scontrarsi con la Storia, di basarsi su di essa e, alla bisogna, di affidarsi al suo vaglio. Vaglio che può essere anche negativo: a Norimberga Schmitt dovette usare tutta la sua ars retorica per chiarire la differenza di piani di discorso che intercorreva tra la sua teoria dei “grandi spazi” e i richiami hitleriani della necessità di uno “spazio vitale” per la razza ariana, e scampare così a un processo al fianco dei veri gerarchi. La riflessione che fa Schmitt non ha mai la pretesa di essere immune dalla storia passata, rispetto alla quale è anzi molto precisa nella ricostruzione, soprattutto in ciò che riguarda atti legislativi o giuridici; e sa di poter non essere giudicata esente di conseguenze per un’eventuale storia futura, quando nelle sue analisi subentrano subdolamente degli elementi di profezia circa i nuovi nomos.

Il senso dell’impresa concettuale di Schmitt – impresa, non opera, perché Schmitt, sia pure dall’altro lato della barricata, è stato uno dei pochi pensatori del Novecento a mettere alla prova della Storia e della prassi le proprie idee – lo si ritrova in un suo testo del 1952, L’unità del mondo. Qui Schmitt non parla per sé – lo ha fatto, ma sempre a modo suo, in Ex Captivitate Salus – ma dalla prospettiva dei grandi Stati-blocco della Guerra fredda, dell’Est e dell’Ovest del mondo, URSS ed USA. Entrambi, agli occhi di Schmitt, tentano la loro “autointerpretazione in termini di filosofia della storia”.
E una simile formulazione è interessantissima, soprattutto in un momento, quale è il nostro, in cui la guerra e con essa la Grande Storia torna a bussare alle porte dei nostri giornali, agli angoli non più praticati delle nostre cronache.

Alla forza del marxismo dell’Est, “filosofia della storia in sommo grado”, l’Occidente ha saputo replicare soltanto con una più timida “filosofia della storia saint-simoniana del progresso industriale e dell’umanità pianificata, con tutte le sue numerose varianti e volgarizzazioni”.
Gli intellettuali vivono nell’angoscia provocata dalla “consapevolezza di una discrepanza fra progresso tecnico e progresso morale”, ma “le masse non si perdono in certi dubbi”, e si lasciano conquistare dall’ideale fantastico di un mondo tecnicizzato. Ideale che era lo stesso annunciato da Lenin, quando parlò di un’unità della Terra elettrificata: “qui fede orientale e fede occidentale confluiscono l’una nell’altra”.
In queste parole si lascia cogliere una sinistra corrispondenza di intenti che, negli stessi anni dello Schmitt de L’unità della terra, faceva tremare anche Heidegger di fronte a L’essenza della tecnica. Non per forza l’unità è un bene , soprattutto se affidata a una forza spersonalizzata o spersonalizzante come l’elettricità.

Passaggi come questo dimostrano appieno la profonda attenzione tributata da Schmitt all’attualità che lo circondava, attenzione che è però inattuale, se così si può dire.
Pochi pensatori del Novecento sono stati così consequenziali e deduttivi nello stile del pensare, eppure il suo armamentario concettuale, e l’immaginario visivo da cui attinge per illustrare i suoi concetti, è antichissimo. Schmitt è uno degli ultimi, grandi pensatori cattolici, e uno dei più complessi, sin dai tempi della Controriforma.
Dopo di lui c’è solo René Girard, poi il pensiero occidentale sembra intenzionato a fare del tutto a meno del messaggio di Cristo. Messaggio che, in sé e per sé, nel suo portato salvifico, è invero poco presente nelle pagine di Schmitt: da buon primitivo, lui guarda indietro, più indietro, verso i tempi del Diluvio, o tutt’al più di Giobbe. Magnifico commentatore di Hobbes, Schmitt non teme di evocare, in pieno XX secolo, il Leviatano, e anche la sua controparte terrigna, l’ancor più ineffabile Behemoth. Behemoth et Leviathan erano una coppia di mostri biblici su cui già William Blake nel secolo precedente si era inerpicato, ma più come pittore che come poeta. Risvegliarli in pieno Novecento non fu impresa da poco, l’occasione venne data a Schmitt da un agile saggio intitolato Terra e mare. Scritto che, nella sua brevità, rappresenta un punto cruciale nell’evoluzione del pensiero di Schmitt, perché segna le prime occorrenze del concetto escatologico di katechon.

“I cabalisti dicono che Behemoth si sforza di dilaniare il Leviatano con le corna o con le zanne, mentre il Leviatano serra con le pinne la bocca e il naso dell’animale terrestre, in modo che non possa più mangiare né respirare”.
In Terra e mare, il gusto di Schmitt per le immagini albeggia sin dalle prime pagine, non meno del suo amore per un’ontologia dei conflitti, che pone il tedesco in una genealogia diretta con Eraclito.
“Ora questa è – icastica come solo un’immagine mitica può esserlo – la rappresentazione del blocco di una potenza terrestre da parte di una potenza marittima, che taglia i rifornimenti alla terraferma per affamarla”. Poche pagine dopo Schmitt non temerà neanche di scomodare il Moby Dick di Melville, definendolo “il più grande epos dell’oceano in quanto elemento” mai scritto; e per tutta la lunghezza di Terra e mare la dimensione saggistica resta assediata da una sotterranea pulsione romanzesca, con cui Schmitt traccia, nella cornice ideale di un racconto fatto a sua figlia Alma, l’opposizione tra potenze marittime e potenze terragne nella storia dell’Occidente, sin dai tempi di Roma e Cartagine.

Gli sforzi teorici dell’ultimo Schmitt confluirono in quello che rimase uno dei suoi testi più voluminosi, Il nomos della terra – per l’esattezza, Il Nomos della Terra nel diritto Internazionale dello «Jus publicum europaeum». Questo lungo saggio, datato 1950, riprendeva le preoccupazioni del più coinciso Terra e mare, e sarebbe stato ulteriormente riverberato in due testi radiofonici, messi in onda negli anni cinquanta, il Dialogo sul potere e il Dialogo sul nuovo spazio. Per l’ultimo Schmitt, il punto sferzante è sempre quello: se già la scoperta dell’America e l’affermarsi della Gran Bretagna come vasto impero transoceanico avevano rappresentato una rivoluzione giuridica e quasi ontologica, perché ha accostato accanto al tradizionale nomos della terra il ben più sfuggente ambito del mare e dell’oceano, i progressi della tecnica stanno complicando ulteriormente la questione, perché adesso ad assistere al passaggio di uomini di diversi Stati ed, eventualmente, a entrare in guerra e diventare materia di conflitto c’è anche il cielo.

Schmitt non ha potuto assistere agli esiti, per il momento, ultimi della tecnica, all’instaurazione di un mondo dapprima digitale e adesso, sempre più spesso, tout court virtuale. Il virtuale è l’antitesi definitiva a ogni nomos della terra, a ogni fondazione chiara, a ogni confine netto: il virtuale è un regno di atopia. L’insistenza di Schmitt sulla terra come nomos resta nondimeno essenziale proprio nell’evidenziare una cesura. Il digitale ha dato un’illusione di unità al mondo, che il blocco di Facebook e Instagram imposto dalla Russia ha senza dubbio contribuito a scalfire. Lo diceva anche Roberto Calasso ne L’Innominabile Attuale: l’imporsi del digitale sta implicando delle rivoluzioni anzitutto cognitive nell’umano e nel sociale, che nessuno studioso di nessuna disciplina contemporanea sembra intenzionato ad affrontare fino in fondo. Se Schmitt aveva predicato cautela e attenzione nel momento fatidico dell’instaurarsi del “terzo nomos” dopo terra e mare, il nomos dei cieli, a maggior ragione oggi avrebbe rinnovato il monito su cui si chiudeva il Dialogo sul nuovo spazio: “la sottomissione della tecnica scatenata, questa sarebbe l’impresa degna di un nuovo Eracle!”.

Proprio qui si coglie il risvolto primitivo del pensiero di Schmitt. Primitivo non à la Lévi-Strauss, non solo perlomeno, primitivo nel senso di archetipico, di inevitabilmente religioso, di pericolosamente vicino a tutto ciò che, nel duplice senso della parola, compone gli arcana imperii. In quella rete eterogenea di filosofi, antropologi, romanzieri e psicologi alla Julian Jaynes che si potrebbero variamente definire “pensatori della secolarizzazione”, Schmitt riveste una posizione unica, sia per l’eterogeneità del suo percorso, sia per il suo carattere superbamente metariflessivo. Che un antropologo come Ernesto de Martino affermi che le esperienze di “apocalisse psicopatologiche” narrate nella letteratura esistenzialista dei suoi anni siano il riflesso simmetrico, in un tempo di crisi del rito, dei miti di “apocalisse culturale” tramandati dalle civiltà antiche, è un conto; che sia un filosofo del diritto e del politico ad affermare, a proposito della sua stessa disciplina, che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati” apre questa diagnosi a una dimensione riflessiva inaspettata, per speculum.
Ecco allora spiegata l’invocazione a Behemoth e al Leviatano non solo nell’affrontare la produzione di Hobbes, ma anche in un saggio metastorico come Terra e Mare: Schmitt pensa di praticare in prima persona una forma secolarizzata di teologia, e non teme di adoperare in forma esplicita alcuni dei concetti e dei protagonisti di quella “scienza madre” ormai defunta. È un gioco di specchi.

Risvegliare i mostri, invocare i titani. Non si può dire che l’agenda intellettuale di Schmitt mancasse di imprese cavalleresche, degne d’altri tempi. Conficcata nel cuore del Novecento nella posizione più insicura e al tempo stesso più vicina alle mostruosità del politico, nella posizione di chi bene o male si è compromesso col regime nazista al suo sorgere, la sua opera si erge tuttora come un’aspra lezione. All’interno della sua produzione, per potenza simbolica e per una capacità insperata di commischiare un pensiero “pagano” con i simboli della tradizione giuridico-cristiana, Terra e mare riveste una posizione felicemente liminare, a cui si deve la brillantezza della prosa di quel saggio. Se altri suoi testi più pragmatici come la giovanile Teologia politica o il più conclusivo Il nomos sulla terra possono assolvere più facilmente alla funzione cronachistica di essere riesumati per commentare il presente – nella contingenza, il conflitto tra Russia e Ucraina, o, prima, il Coronavirus – Terra e mare preserva l’eleganza intatta di un sovrastorico incarnato.

“Non pretendere di forzare gli arcana, ma aspetta di esservi ammesso e iniziato in forma conveniente”, scrisse Schmitt ad Ernst Jünger nel 1938, “altrimenti potresti essere tentato di distruggere qualcosa di indistruttibile”. Si parlava, ancora una volta, del Leviatano, ma con una magnifica incertezza fra l’originario Leviatano di Hobbes e il commento che Schmitt gli aveva dedicato in quell’anno tanto fatidico per la storia della Germania. Far così spesso riferimento ai mostri biblici, all’interno di testi per il resto così cristallini e quasi kantiani nella conseguenzialità delle loro teorie e interpretazioni, sembra quasi una cesura, una reazione restaurativa, nei confronti della cecità illuminista contro il sacro, ma anche un corollario del più oscuro monito goyano. La biografia stessa di Schmitt lascia intendere come, a furia di studiare i mostri, ci si possa trovare ad affiancarli.

C’è un verso meraviglioso di Eliot, dice You ought to be ashamed, I said, to be so antique. Si trova al termine della seconda stanza della Terra desolata, e le traduzioni, qui, un po’ si perdono: “ti dovresti vergognare, dissi, di sembrare una mummia” è la più comune, ma non rende appieno il tono disarmante e dolce di quell’antique.
Se la teoria junghiana non ha l’esclusiva sul concetto di “archetipo”, si può dire che il pensiero di Schmitt, almeno nella seconda parte del suo percorso inaugurata proprio da Terra e mare, proceda con fare archetipizzante. Dev’essere in questo che risiede la sua forza, dev’essere in questa inattualità dei simboli, che rende le tesi schmittiane paradossalmente contemporanee a ogni momento, e a ogni congiuntura storica.


Tagged:


Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139