Alle radici del conflitto: indipendenza e desovietizzazione in Ucraina (parte II)

Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Massimo Vassallo (qui la prima parte), autore di due volumi recentemente pubblicati da Mimesis Edizioni: Storia dell’Ucraina. Dai tempi più antichi ad oggi (2020) e Breve storia dell’Ucraina. Dal 1914 all’invasione di Putin (2022). In questo capitolo si analizza il percorso verso l’indipendenza e le risposte difformi al tentativo di desovietizzazione del Paese.

Il 20/11/1917 n.s la Rada Centrale emanò il III Universale con cui proclamava la “Repubblica popolare ucraina” (Ukraïns’ka Narodna Respublika, UNR) entro una Russia repubblicana federale, rivendicando per sé i 9 governatorati cosiddetti ucraini (in toto Volyn’, Podillja, Kyïv, Černihiv, Poltava, Kharkiv, Katerynoslav e Kherson, più la parte settentrionale, non crimeana, del governatorato di Tavrija), in tutto 94 uezdy (in ucraino povity) di cui 4 oggi in Russia[1], 1 in “Transnistria” (secessionista dalla Moldova)[2], uno in mano dal 2014 ai secessionisti[3], con gli altri 88 all’Ucraina indipendente.

L’Ucraina indipendente del 1991 quindi, con alcune differenze territoriali, venne quindi in esistenza (almeno come affermazione di principio, giacché presto le vicissitudini che vedremo causeranno infiniti colpi di scena nelle terre ucraine) per opera degli ucraini stessi  ben prima delle misure di Lenin (importanti, sia chiaro) che ne confermarono in sostanza le rivendicazioni territoriali e, va riconosciuto, diedero infine per la prima volta una certa stabilità (seppur nella cornice mutevole della società marxista e del sistema a Partito unico): ciò taglia, o dovrebbe tagliare, la testa al toro.

L’Ucraina non fu quindi una creazione di Lenin, anzi, fu esattamente il contrario: Lenin da autentico “animale politico” nel senso aristotelico del termine (cosa che gli è riconosciuta anche dai suoi più acerrimi nemici) decise di riconoscere l’esistenza di un’Ucraina a sé stante – inserita in un quadro sovietico all’inizio sfumato e che più tardi sarà l’URSS – proprio perché ritenne che l’Ucraina già esistesse e avesse anzi già una forza intrinseca da “costringerlo” a tenerne freddamente conto per i suoi obiettivi precipui, che erano la rivoluzione socialista e non certo il rafforzamento del “nazionalismo borghese” per usare il linguaggio dei tempi.

Moltissime cose (purtroppo quasi sempre tragiche e orribili almeno nel 1918-1920 e soprattutto dal 1930 sino al 1945) avvennero nei decenni successivi ma l’idea nazionale ucraina, tenuta viva da coraggiosi “dissidenti” all’interno a partire dal “disgelo” krfuscioviano e dall’emigrazione in Canada e altrove, non si spense: e infine arrivò la perebudova (perestrojka) e la nezaležnist’ Ukraïny (24 agosto 1991, lo storico 24 serpnja).

Il 1/12/1991 si tenne lo storico referendum che confermò l’indipendenza dell’Ucraina (90, 32% di SI e 7, 58 % di NO): i risultati in ordine decrescente per unità amministrativa (allora 27 in tutto cioè 1 Repubblica autonoma, 24 oblasti e 2 città direttamente sottoposte al potere centrale) e contando a parte la Flotta del Mar Nero furono i seguenti:

i.Ternopil’ (98, 70 %)  in “nuova” URSS (sino al 1939 polacco)
ii.Ivano-Frankivs’k (98, 42 %) in “nuova” URSS (sino al 1939 polacco)
iii.L’viv (97, 45 %)  in “nuova” URSS (sino al 1939 polacco)
iv.Rivne  (96, 80 %)   in “nuova” URSS (sino al 1939 polacco)
v.Volyn’  (96, 32 %)  in “nuova” URSS (sino al 1939 polacco)
vi.Khmel’nyc’kyj  (96, 30 %)
vii.Čerkasy  (96, 03 %)
viii.Kyïv obl.  (95, 52 %)
ix.Vinnycja  (95, 43 %)
x.Žytomyr  (95, 06 %)
xi.Poltava  (94, 93 %)
xii.Kirovohrad  (93, 88 %)
xiii.Černihiv  (93, 74 %)
xiv.Černivci  (92, 78 %) in “nuova” URSS (sino al 1940 romeno)
xv.Kyïv città  (92, 67 %)
xvi.Sumy (92, 61 %)
xvii.Zakarpattja (92, 59 %)  in “nuova” URSS (sino al 1945 in teoria cecoslovacco)
xviii.Zaporižžja  (90, 66 %)
xix.Dnipropetrovs’k  (90, 36 %)
xx.Kherson  (90, 13 %)
xxi.Mykolaïv  (89, 45 %)
xxii.Kharkiv  (86, 33 %)  10, 43 % NO, il primo in cui i contrari superarono il 10 %
xxiii.Odesa (85, 38 %)  11, 60 % NO
xxiv.Donec’k  (83, 90 %)  12, 58 % NO
xxv.Luhans’k  (83, 86 %)  13, 41 % NO
xxvi.Sevastopol’ (57, 17 %)  39, 39 % NO
xxvii.Krym ASSR (54, 19 %)  42, 22 % NO
+Flotta del Mar Nero (75 %)

L’indipendenza vinse in ciascuno dei 24 oblasti inclusi i due del Donbass (quasi 84 % dunque votarono per l’indipendenza anche molti russi etnici che in questi due oblasti erano all’epoca sul 44-45% e comunque una minoranza ancorché molto ragguardevole, vedi Annesso) e in 19 oblasti più la città di Kyïv, dunque in venti circoscrizioni, superò il 90 %; pure la Repubblica autonoma di Crimea la approvò, per quanto con uno striminzito 54, 2 % e parimenti la città di Sevastopol’ (ora contata separatamente) con il 57, 2 %; i NO espliciti furono rarissimi al di fuori della Crimea (ove giunsero al 42, 2 % nella ASSR e superarono il 39% nella città “indipendente” di Sevastopol’) e in soli 4 oblasti superarono il 10 % (Luhans’k, Donec’k, Odesa, Kharkiv) senza peraltro mai avvicinarsi al 15 %.

Massimo Vassallo, Storia dell’Ucraina. Dai tempi più antichi a oggi (Mimesis Edizioni, 662 pag., 38 €, 2020)

La vita dell’Ucraina indipendente nel suo primo trentennio (1991-2021) affrontò molte difficoltà (alcune prevedibili, altre no), comprese due rivoluzioni popolari apparentemente simili ma in realtà molto diverse (la Rivoluzione Arancione del 2004; la Rivoluzione della Dignità o Euromajdan del 2013-2014).
L’Ucraina però, e ciò va detto a suo merito, restò sempre una democrazia, ancorché certamente imperfetta; en passant, andrebbe notato che fra le 12 Repubbliche realmente post-sovietiche (escludendo quindi il Baltico che si definisce “occupato dai sovietici”) l’Ucraina mostrò una rara propensione al cambio politico, generalmente pacifico e per via elettorale tranne nel 2013-2014.
Infatti, nessun presidente ucraino, con l’eccezione di Kučma, finora, è riuscito a farsi rieleggere e questo onore fu rifiutato anche a Kravčuk, il padre dell’indipendenza.

Se pensiamo che:

. nelle sei Repubbliche “musulmane” dell’ex-URSS si va dalla tirannia più estrema (Turkmenistan, dove si è passati da Saparmyrat Nyýazow il Türkmenbaşy a Gurbanguly Berdimuhamedow che dieci giorni or sono ha effettuato una successione dinastica di tipo nordcoreano in favore del figlio Serdar) all’autocrazia esplicita (Azerbaigian sotto gli Əliyev, Tagikistan sotto Emomalī Rahmon e, sotto Islom Karimov, Uzbekistan) sino all’autoritarismo “classico” (Qazaqstan, in un certo senso pure Kyrgyzstan il più “democratico” dei sei)

. in Bielorussia vi è stato finora un unico inamovibile presidente (Aliaksandr Lukašenka, in carica dal 20 luglio 1994)

. in Russia l’unico cambio epocale (passaggio da El’cin a Putin) avvenne al di fuori dell’arena elettorale e fu deciso nelle stanza del potere (31/12/1999) e mai le elezioni cambiarono qualcosa (anche il passaggio a Dmitrij Medvedev nel 2008 fu deciso prima, così come altrove si decise il ritorno formale di Putin nel 2012)

. financo in Armenia vi sono stati problemi, ora auspicabilmente risolti (in parte)

. pure in Georgia ve ne furono per il primo decennio (sino alla caduta di Ševardnadze) e talora anche dopo

. si vede che solo la Moldova ha un pedigree democratico – se così si può dire – paragonabile a quello dell’Ucraina (e Chişinău ebbe un presidente comunista, Vladimir Voronin, dal 2001 al 2009)

I grandiosi festeggiamenti per il trentennale dell’indipendenza (24 agosto 2021) si svolsero con grande entusiasmo e partecipazione popolare e mi offrono l’occasione per fare un bilancio dei risultati ottenuti dall’Ucraina indipendente dopo un trentennio.
Moltissimi obiettivi, che sembravano francamente utopistici trenta anni prima ad un’analisi fredda e imparziale, vennero pienamente ottenuti in quel lasso di tempo.
Innanzitutto la bandiera e il simbolo dello Stato: non era per nulla scontato a fine degli anni ’80 che il bicolore blu-giallo e il tryzub, sempre cari e ritenuti irrinunciabili in Ucraina occidentale e presso una ristretta élite intellettuale a Kyïv e nel resto dell’Ucraina, potessero essere fatti accettare a tutta la Nazione.
Si rammenti che sino all’agosto 1991 financo il comunista “filo-nazionalista” Kravčuk sosteneva una bandiera “ibrida” che conglobasse i colori nazionali con quelli dell’Ucraina sovietica e un simbolo che richiamasse, in parte almeno, quello della URSR (Ucraina sovietica).
Il blu-giallo e ancor più il tryzub, nell’ormai lontano 1988, erano qualcosa di estraneo all’Est e al Sud (e non parliamo del Donbas), di cui si sapeva poco o nulla e talora erano visti con ostilità dai pochi che ne sapevano, o credevano di saperne, di più.
Eppure oggi questi simboli sono accettati, orgogliosamente e con fierezza, da tutta l’Ucraina, da Sumy a Izmaïl, da Melitopol’ a Sarny, da Balta a Zaporižžja (con l’eccezione dei separatisti del Donbass, i quali però, rigettando tali simboli, hanno nel contempo rinnegato l’Ucraina stessa per una nuova identità che si vuole assolutamente “non-ucraina”).
Se pensiamo a quello che è successo in Bielorussia, ove i simboli nazionalisti (bandiera bianco-rosso-bianca e pahonia), brevemente in uso dal 19/9/1991 al 7 giugno 1995 ma nondimeno mai accettati in lungo e in largo, sono stati abbandonati senza significative reazioni popolari per simboli simil-sovietici (referendum del 14/5/1995) e oggi sono quasi obliati se non in ristrette élites intellettuali di Minsk[4] e in alcune città in primis nel nord-ovest, notiamo la differenza.

Poi vi è la questione della desovietizzazione, almeno quella “apparente” in gran parte correlata alla questione simbolica (la desovietizzazione “reale”, effettiva, negli animi, è ben più difficile e probabilmente è stata realizzata[5] solo nel Baltico che mai si sentì veramente sovietico, ma solo e sempre occupato dai sovietici).
Anche qui, dal punto di vista dei nazionalisti ucraini, si è ottenuto molto e soprattutto molto di più di quanto loro stessi potessero razionalmente attendersi a fine ’80 e primissimi ’90.
La Galizia si è desovietizzata addirittura nel 1990, quando l’URSS ancora esisteva e il processo (esteriore) fu completato entro la fine del 1991: le statue di Lenin furono tutte abbattute, le ricorrenze sovietiche cessarono di essere festeggiate ancor prima che Kyïv ufficialmente le abolisse, le strade eliminarono i nomi sovietici e iniziarono a ricordare quelli degli anticomunisti, financo di Stepan Bandera, “uomo nero” per i sovietici, diciamo quello che fu Mazepa per i russi imperiali, anzi peggio.

Massimo Vassallo, Breve storia dell’Ucraina. Dal 1914 all’invasione di Putin (Mimesis Edizioni, 384 pag, 22 €, 2022)

Nel resto dell’Ucraina occidentale e nella capitale Kyïv la desovietizzazione esteriore, dopo una fiammata nella tarda estate/autunno del 1991[6], fu più lenta e meno comprensiva, ma comunque inesorabile e venne accelerata dagli avvenimenti del 2004/2005.
Infatti come conseguenza della rivoluzione arancione la desovietizzazione toponomastica riprese forza e in breve divenne praticamente compiuta (il poco di sovietico che restava fu eliminato dopo la rivoluzione del febbraio 2014).
Nel resto dell’Ucraina (Ucraina Centrale, Sud, Est) non vi fu una vera e propria desovietizzazione “esteriore”, tranne sporadici e isolati casi, sino alla rivoluzione arancione del 2004, quando iniziò dapprima bruscamente poi con maggior lentezza.
In quelle aree, specialmente quanto più si andava verso Est e verso Sud, la desovietizzazione esteriore non fu però completata se non dopo la “rivoluzione della dignità” del febbraio 2014: emblematico fu l’abbattimento della grande statua di Lenin a Kharkiv nel 2014, “segno” visivo che Kharkiv sarebbe rimasta ucraina e non avrebbe seguito i secessionisti del Donbas come per un attimo, ad inizio aprile 2014, le nuove autorità di Kyïv temettero (e, dal loro punto di vista, non a torto).

Le uniche aree dell’Ucraina ove la desovietizzazione non ci fu, rimasero la Crimea e il Donbass, in quanto (specialmente nel secondo caso[7]) l’attaccamento ai simboli sovietici divenne una parte ritenuta essenziale della propria identità[8], contrapposta a quella dei nazionalisti ucraini.
I simboli e i nomi sovietici rimangono ben visibili e ostentati nelle aree del Donbas in mano ai separatisti, ma in base alla legge del 2016 sono stati eliminati dalle parti del Donbass sotto controllo ucraino, così come da tutto il resto dell’Ucraina (ove permanessero).

Con l’eccezione del solo Baltico (e in parte anche della Georgia e della Moldova), non vi è oggi Repubblica che fu inclusa nell’URSS più desovietizzata esteriormente (per esempio, dal 2017 non vi sono più statue di Lenin nelle aree sotto effettivo controllo ucraino): il contrasto con la vicina Bielorussia e anche con la Federazione Russa è impressionante.
La cronologia della desovietizzazione è quindi un buon indicatore della maggiore o minore forza e incisività sociale del nazionalismo ucraino in un dato luogo.


[1] tutti del governatorato di Černihiv

[2] dal governatorato di Kherson

[3] dal governatorato di Katerynoslav

[4] Ora però l’opposizione bielorussa in esilio li sta riprendendo e proprio in questi giorni una manifestazione a sostegno dell’Ucraina da parte di esuli bielorussi che riconoscono Sviatlana Cichanoŭskaja (la candidata sconfitta, si disse con gravi brogli, nel 2020 quando per un momento il regime di Lukašenka parve vacillare e si salvò solo con l’appoggio totale del Cremlino) ha issato a Vilnius sull’Ambasciata del regime di Lukašenka la bandiera bianco-rosso-bianca

[5]Anche su quello ci sarebbe da discutere, ad onta di un certo trionfalismo di molti estoni, lettoni e lituani nell’affermare apoditticamente che più nulla di sovietico rimarrebbe da loro

[6] A Kyïv un monumento a Lenin fu abbattuto subito dopo il fallito golpe, a fine agosto 1991 e vi furono alcuni cambi toponomastici sin dal 1991, ma presto cessarono o quasi

[7] In Crimea è forte anche una tradizione specificatamente russa, a-sovietica

[8] La stessa ragione che spiega il permanere dei medesimi simboli nella “Transnistria” (Pridnestrov’e, in ucraino Prydnistrov’’ja) secessionista dalla Moldova (la cosiddetta PMR/RMN), che li mantiene addirittura ufficialmente; là è forte anche il “mito” del grande generale russo imperiale Suvorov che portò il confine dell’Impero russo al Dnestr/Nistru/Dnister, come venne sancito dalla pace russo-ottomana di Iaşi del 9/1/1792 n.s, dunque può considerarsi il “conquistatore” per la Russia dell’attuale Pridnestrov’e; Suvorov è raffigurato su diverse banconote del rublo di Pridnestrov’e


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