Destini della sociologia critica. Intervista a Ruggero D’Alessandro

All’interno degli studi propri della sociologia e più in generale delle scienze sociali e politiche, una prospettiva teorica rilevante e dibattuta rimanda alle strutture e ai contenuti della riflessione critica che, nell’ultimo secolo, ha avuto i suoi esponenti più noti nella Scuola di Francoforte, ma che si continua a ritrovare ancora oggi in molti contributi.
In questo contesto l’attenzione al senso delle evoluzioni politiche costituite dalla modernità appare un aspetto ancora denso di spunti.
Ruggero D’Alessandro, saggista e autore di numerosi volumi (tra cui anche alcuni romanzi), muovendo dalla teoria sociologica, alla storia delle idee, alla sociologia della cultura e alla storia contemporanea, nella sua ricerca si è costantemente tenuto in linea con un approccio critico, attraverso autori come i francofortesi, Michel Foucault, Claus Offe, Hannah Arendt, Pierre Bourdieu, e temi come quelli della cittadinanza, del ruolo del welfare, dei movimenti sociali, del modello neoliberale.
Francesco Giacomantonio lo ha intervistato per Scenari in merito all’essenza della sociologia critica sullo sfondo del panorama politico e culturale contemporaneo.

Francesco Giacomantonio: La tua produzione bibliografica è stata avviata da una apprezzata ricerca sulla ricezione in Italia delle opere della Scuola di Francoforte (D’Alessandro, R., La teoria critica in Italia. Letture italiane della Scuola di Francoforte, Manifestolibri, Roma, 2003, frutto peraltro del tuo dottorato in Sociologia): da allora, Ruggero, al di là degli argomenti differenti cui hai dedicato la piuttosto nutrita schiera di tuoi volumi successivi, mi sembra che tu in fondo abbia costantemente tenuto fede all’approccio critico (e attento a incrociare studi e discipline) proprio dei francofortesi. Partirei dunque col domandarti quali sono i motivi per cui può essere proficuo privilegiare tale approccio rispetto ad altri presenti nella sociologia e nelle scienze sociali.

Mi sembra si possano identificare almeno cinque o sei contributi che la teoria critica della società offre alla sociologia – dal punto di vista epistemologico, culturale in senso ampio e politico/ideologico.
Anzitutto, cerca una strada per avvicinare e fare interagire l’approccio marxista con quello freudiano, in ciò mostrandosi profondamente innovativa.
In secondo luogo, sceglie nuovi campi di ricerca e soggetti da indagare; sia dal profilo statistico, dunque quantitativo, che da quello analitico e critico, quindi qualitativo. Si pensi alle ricerche sui rapporti tra autorità e famiglia degli anni Trenta; poi, nel decennio successivo all’indagine sulla personalità autoritaria.
Inoltre, l’approccio francofortese risulta lucidamente critico del mondo capitalistico e del socialismo di marca stalinista.
In quarto luogo, l’Institut für Sozialforschung si avvale di una quindicina di esperti in campi differenziati: dalla sociologia alla filosofia, dall’economia alla geografia, dalla psicologia e psicoanalisi alla critica letteraria, dalla politologia alla geopolitica e alla storia.
Si possono poi aggiungere altri due elementi che caratterizzano in profondità la teoria critica: il rapporto con l’ebraismo e l’analisi sulla Shoah; la capacità di muoversi a livello internazionale, fra Germania, Francia, Stati Uniti d’America, Svizzera, Messico (penso al Fromm ormai distaccato dall’Istituto ma che continua a muoversi in alcune delle direzioni da esso segnate).

Oltre al testo citato su ricezione italiana dei francofortesi, tu hai poi prodotto spesso altri lavori legati a esponenti della Scuola di Francoforte; fra di loro, comunque, qual è l’autore cui ti senti più vicino nello stile di pensiero e qual è quello che invece ritieni abbia i meriti maggiori come studioso? E per quali ragioni specifiche?

La domanda ipotizza che ci siano due diversi francofortesi: chi sento a me vicino e chi ha oggettivamente offerto i massimi contributi. Condivido in pieno l’impostazione della domanda. D’istinto ti faccio due nomi: rispettivamente Marcuse e Adorno.
Del primo amo la profonda umanità, l’anticonformismo, la capacità di essere vicino, negli anni Sessanta e Settanta, ai contestatori di mezzo secolo più giovani; poi l’umiltà che manifesta nel confrontarsi con chiunque: dagli stessi protagonisti delle proteste al filosofo della scienza Karl Popper nel dialogo televisivo del 1971 in Germania federale.
Di Adorno mi stupisce e m’incanta con felice regolarità la caratura del suo fare filosofia; penso alle lezioni degli anni Cinquanta e Sessanta uscite da Einaudi; la scrittura sofferta eppure di una profondità … mi viene un termine francese, inoui, qualcosa come inaudito; l’erudizione mai fine a sé stessa; lo spaziare dagli studi sociali a quelli filosofici, dalla musicologia alla composizione, l’analisi testuale in letteratura e la psicoanalisi. Anche il sofferto testimoniare politico attorno al ‘66/69 me lo rende profondamente umano.

Una questione su cui si sono concentrate spesso le più recenti ricerche caratterizzate da prospettive critiche nelle scienze sociali riguarda la generale evoluzione delle società occidentali secondo il modello neoliberale. In alcuni tuoi testi più recenti (D’Alessandro, R., L’ uomo neoliberale. Capitale globale e crisi della democrazia, Ombre corte, Verona, 2016 e Id., L’ utopia possibile. Appunti libertari, DeriveApprodi, Roma, 2019), tu hai inquadrato con attenzione le aporie sociali derivate dal modello neoliberale: quali consideri i problemi maggiori di tale modello in ottica sociologico politica? E quale potrebbe essere un punto di partenza decisivo per affrontarli?

Se il liberalismo classico mostra qualche residuo di umanità – il tema dell’etica negli affari, le relazioni industriali, la gestione ancora paternalistica del personale – la sua versione neocapitalistica, con l’esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive” (di leopardiana memoria) della società tardo industriale si ammanta di cinismo, arroganza, negazione della realtà e dei suoi drammi: dalla diseguaglianza istituzionalizzata alla stratificazione sociale, dal disinteresse più miope verso il tema dell’ambiente alle derive politiche, allo sfruttamento in stile tecnologico.
La sociologia degli ultimi trent’anni perde una notevole dose del mordente e della forza innovativa che possedeva, soprattutto, nella stagione fra metà anni Cinquanta e fine Settanta.
Il dramma forse maggiore è che la Sinistra storica rimane infettata dall’esaltazione del mercato, dalla voglia di far piazza pulita di ogni ideologia; dimenticando quanto ideologico sia un simile atteggiamento. I disastri del reaganismo/thatcherismo proseguono con politici come Blair e Schröder che sposano in pieno l’ideologia neoliberale o con presidenti come Mitterand con atteggiamenti “monarchico-democratici”. Si ricordi che un pur preparatissimo pensatore britannico, il sociologo Anthony Giddens, si fa portatore della teoria “third way”, sposata dai governi Blair, ovvero il laburismo thatcherizzato.
Un sano ritorno alla Scuola di Francoforte, al neomarxismo, alla psicoanalisi e alla sociologia critiche, all’ambientalismo non monocorde, a certe correnti radicali del Cristianesimo come la teologia della liberazione non può che riportare aria fresca nelle stanze asfittiche di una società smarrita. Fra crisi del 2008, due anni di pandemia e adesso l’orrore di un conflitto che per la seconda volta (dopo la Jugoslavia di trent’anni fa) riporta la guerra nel cuore dell’Europa.

Una distorsione in cui il pensiero critico può incorrere appare forse quella per cui alcuni lo adoperano solo per polemiche fini a se stesse o per un gusto anticonformista di mettersi in mostra, in una fase storica come quella attuale molto dominata da apparenze e aspetti mediatici. A tuo avviso dovrebbe esserci una sorta di “deontologia” nel pensiero critico, tanto più quando lo si usa nella ricerca scientifica? Come la configureresti?

Per fortuna un qualsiasi pensiero non è responsabile dell’uso indecente che se ne può fare. Non c’è dubbio che nelle polemiche scatenate nei due anni di pandemia e oggi con l’aggressione della Russia all’Ucraina non mancano analisti e commentatori che tirano fuori citazioni a sproposito e riferimenti da mezza cultura – direbbe il buon “Teddie” Adorno. Il medium più potente da una settantina d’anni, il tubo catodico, si presta alle seduzioni per malati di protagonismo.
Quanto alla deontologia nelle scienze sociali mi viene in mente il giuramento d’Ippocrate per la medicina: nel nostro campo manca qualcosa di paragonabile. Premesso che lì si tratta ovviamente del compito più importante: salvare la vita o comunque curare al meglio chi soffre. Ritengo validissime le vecchie ricette: studio, approfondimento, serietà, distanza e al contempo passione, no all’erudizione fine a sé stessa. Sottrarsi all’odierna canea conformista richiede coraggio e sana faccia tosta: due aspetti che provengono dalla passione citata per il genere umano assai malmesso e per il nostro disgraziato pianeta.  

Nei tuoi studi hai anche approfondito la teoria sociologica di Pierre Bourdieu e Michel Foucault (in particolare in D’Alessandro, R., Gusti di classe. Pierre Bourdieu sociologo delle pratiche culturali, Manifestolibri, Roma, 2019 e Id., Sistemi di pensiero. Michel Foucault al Collège de France, Mimesis, Milano, 2016): come li consideri in rapporto ai francofortesi?

Riguardo a Foucault e a Bourdieu sembrano abbastanza lontani dalla Scuola di Francoforte; in realtà punti in comune non ne mancano. Mi viene in mente anzitutto che Marx rappresenta un pensatore gigantesco con cui fanno i conti sia il gruppo tedesco che i due francesi. Semmai, penso che il fondatore del materialismo storico sia una sorta di presupposto per i francofortesi; laddove per Foucault i conti sono già per così dire in via di regolazione; e ancor più lo sono per Bourdieu, grazie all’appartenenza a una generazione successiva.
Il rapporto con le istituzioni pubbliche e con la politica è sofferto sia negli uni che negli altri; più in generale, anche il pensiero foucaultiano e quello bourdieuiano possono essere ampiamente accreditati dell’aggettivo “critico”. Anche se, ovviamente, in senso diverso da quello di teoria critica stricto sensu.

Stai sviluppando una ricerca su teorie di Herbert Marcuse con il sostegno di fondazione Horkheimer di Lugano: puoi anticiparci qualcosa in merito? In generale ci sono studiosi attuali in cui ti sembra di rilevare in modo plausibile l’eredità della sociologia critica?

La ricerca che ho concluso qualche mese fa era su Marcuse in rapporto all’insieme di idee e movimenti di sinistra radicale, fra metà anni Sessanta e fine Settanta. Uno studio che ha ribadito il mio legame marcusiano di cui parlavo prima.
Non ritengo si possa parlare di eredi di Marcuse; a differenza della Scuola nella sua totalità, con le differenze dovute fra le generazioni successive. Direi che Wolfgang Streeck è il nome più rappresentativo; in parte lo è stato il Claus Offe de Lo Stato nel capitalismo maturo (Etas, Milano, 1977), uno dei testi a mio parere più lucidi e attuali a distanza di circa mezzo secolo dall’elaborazione (si tratta di una raccolta di 7/8 saggi sparsi elaborati fra il ’68 e il ’72, se ricordo bene).
In Italia per la radicalità e la lucidità assolute che esprime mi viene in mente un nome certamente poco prossimo all’Institut für Sozialforschung, ossia quello di uno dei più influenti filosofi europei di ultimi anni: Giorgio Agamben. È giusto ricordare che da due anni a questa parte viene messo da parte, attaccato, censurato con violenza verbale vergognosa. Con le stolte etichettature: prima no vax e adesso filo-Putin.

In alcune occasioni, hai voluto impegnarti anche nella scrittura di romanzi e hai sviluppato studi riconducibili alla sociologia della letteratura (come in D’Alessandro, R., Il romanziere in cattedra. Thomas Mann, Vladimir Nabokov, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lezioni di letteratura, Mimesis, Milano, 2018, ma non solo): pensi che la letteratura possa costituire una risorsa concreta in più per chi vuole capire i processi sociali e le relazioni? Nei tuoi romanzi sono implicite anche, in qualche misura, alcune tue visuali sociologiche di cui potresti parlarci o in essi preferisci solo esprimere un tuo gusto narrativo?

La letteratura vive immersa nella società ed è da essa stessa prodotta. Gli scrittori non vivono su Marte. Non mi sento di distinguere troppo fra romanzo e saggio.
Nei romanzi che scrivo mi sembra si produca un incontro sottile, complesso, un interscambio tra la gioia del narrare e la “visione del mondo” – quello che in tedesco si indica con il termine weltanschauung. Ogni personaggio è un essere umano che vive nel mondo, organizzato in società, con propria cultura, economia, politica, scienza. La forma romanzo, che esiste a tutt’oggi, è chiamata a raccontare gli umani e le realtà sociali in cui si trovano a vivere, in un reciproco rispecchiamento.

Anche alla luce dei temi che abbiamo toccato nelle domande precedenti, quale valutazione d’insieme ti sentiresti in grado di dare da un punto di vista sociologico sull’evoluzione dei processi culturali e politici dell’ultimo cinquantennio? Condividi le ipotesi di una fase attuale di “grande regressione” dopo il “trentennio glorioso” di espansione e sviluppo civico del Secondo dopoguerra? Forse la gestione dell’emergenza della pandemia ancora in corso nonché il recentissimo ritorno della guerra in Europa stanno contribuendo a evidenziare ancora di più una certa transizione?

 Mi sembra indiscutibile che nell’Italia degli anni Settanta si sono prodotte circa un quarto delle riforme dal 1945 a oggi. In tanti Paesi occidentali i movimenti sociali – studenteschi, operai, femminili, intellettuali – hanno dato vita a una stagione straordinaria fra metà anni Sessanta e fine Settanta. Il “glorioso trentennio” ha rappresentato un potente laboratorio di razionalizzazione e gestione semi illuminata delle dinamiche di tardo capitalismo. L’illusione socialdemocratica ha regnato per alcuni decenni infrangendosi poi sugli scogli della seduzione neoliberista.
Oggi usciamo (sperando sia vero!) da due anni pandemici per trovarci davanti a mesi, se non anni bellici.
I punti chiave per me restano gli stessi da decenni: i valori dell’eguaglianza nella diversità, la solidarietà, l’antirazzismo, la ricerca di forme possibili di gestione collettiva della società (la politica) direttamente dal basso, con autogoverno e spontaneità, in una visione libertaria e finalmente a misura d’uomo.
Schegge di mondi possibili ce ne sono state parecchie, fra la Comune di Parigi del 1871 e la Russia dei primi mesi post 1917, la rivoluzione sociale nella Spagna degli anni Trenta e la Cuba fra 1959 e 1964 (quando Guevara si dimette).
Marcuse afferma nel citato dialogo con Popper: «la Storia non è una società di assicurazioni». Quindi, nulla è deterministicamente deciso in anticipo. Per gli esseri umani non vale il detto arabo «sta scritto».
La Storia la fa l’uomo se riesce a opporsi alle istituzioni che tendono a gestirlo come impiegato, consumatore, elettore, turista, spettatore. Una somma di posizioni che ne fanno il tipico ingranaggio kafkiano.



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