Goliarda Sapienza, “L’arte della gioia”. Un’avventura picaresca sulle orme di Nietzsche?

. Nietzsche e il femminile

Può una donna essere nietzschiana? La domanda, così posta, suona oggi, nel migliore dei casi, come una provocazione. Non può esserci – e per fortuna non sussiste – nel XXI secolo, nessuna buona ragione per inibire una persona ad abbracciare la visione filosofica che più le corrisponde. La censura, e con essa la suddivisione delle letture per genere, ha portato a termine la parabola discensiva che la storia occidentale le ha assegnato e oggi nessuno ha il diritto di porre un interrogativo di questo tipo. Nonostante tali considerazioni, il dubbio non è del tutto peregrino a patto di cambiare punto prospettico e di andare a verificare la lettera dei testi nietzschiani. La domanda, infatti, potrebbe avere valore ottativo invece che concessivo: a prima vista sembrerebbe in effetti essere del tutto legittimo opporre un rifiuto ad alcune – in verità non poche – esternazioni del filosofo raccolte soprattutto nel capitolo “La donna e il bambino” del primo volume di Umano, troppo umano. Qui troviamo considerazioni del calibro di: “Alcuni mariti hanno sospirato sul rapimento delle loro mogli; la maggior parte nel fatto che nessuno gliele abbia volute rapire” (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, vol. 1, Adelphi, Milano 200410, p. 226), o dichiarazioni sul ruolo della “buona moglie” che “non può nello stesso tempo essere concubina: significherebbe in genere pretendere troppo da lei” (ivi, p. 234).
Sono queste frasi che difficilmente lasciano indifferente un lettore o una lettrice e che, appunto, possono facilmente riconoscersi in un ostile distacco dalle posizioni dell’autore.

Eppure, anche a questo livello del discorso la questione non può dirsi conclusa, risolta. Non sembra in effetti esauriente la versione dei fatti per la quale Nietzsche sarebbe stato un impenitente misogino: certamente, la sua biografia testimonia di molte difficoltà a rapportarsi con il mondo femminile, a partire dalle controverse figure della madre e, ancor più, della sorella, in prossimità delle quali è cresciuto e che hanno costituito, nel bene e nel male, un punto di riferimento costante per tutta la sua vita. Ma, perfino tra le righe del famigerato capitolo summenzionato, emerge in filigrana qualcosa di più profondo e meno lineare di quanto abbiamo potuto abbozzare in prima battuta. Qualcosa che, per esempio, si evidenzia nel caso dell’aforisma, contenuto nella medesima sezione, nel quale Nietzsche inorridisce all’idea che l’istruzione liceale venga estesa anche alle ragazze, specificando però subito dopo la ragione: essa ha creato già moltissimi danni ai giovani pieni di spirito, trasformandoli in niente più che copie sbiadite dei loro mentori (ivi, p. 229).
La donna, sembra silenziosamente ammettere l’autore, ha un’energia – una potenza – che verrebbe appiattita dall’irrigidirsi in una sua istituzionalizzazione: hanno anzi da imparare gli uomini dalla “donna perfetta”, un tipo umano raro e tuttavia “più alto dell’uomo perfetto” (ivi, p. 225).
È su un crinale sottile che si muove quindi Nietzsche: su di esso, idealmente, la donna ammette le proprie fragilità e le proprie intemperanze, tanto quanto l’uomo, con lo stesso spirito, trova nel suo corrispettivo femminile una forma di alterità che sprona e corregge la sua naturale propensione a chiudersi altezzosamente in se stesso. Si attiva dunque una sorta di movimento circolare di divenire e trasformazione, grazie al quale le identità di uomo e donna si intrecciano, non al punto da fluidificarsi nell’indistinzione, ma fino a giungere a una felice osmosi e sinergia.

. Un’avventura picaresca

Non sappiamo se Goliarda Sapienza abbia studiato Nietzsche, anzi l’impossibilità di sciogliere le riserve su questa ipotesi traendone certezze rende in un certo senso ancora più avvincente la lettura dei suoi testi, e in particolare dal suo L’arte della gioia (Einaudi, Torino 20175).
Si dà infatti in queste pagine una traduzione sorprendentemente precisa del dettato esistenziale nietzschiano, al punto che si scorge nei tratti caratteriali della protagonista la sagoma di un’eroina filosofica davvero al di là del bene e del male. Modesta è il personaggio che fa da perno a tutta la vicenda, che non è infatti una saga familiare, ma individuale e che, nel genere, non descrive la traiettoria del romanzo di formazione ma segue piuttosto la linea della peripezia picaresca. Le storie che si annodano attorno alla protagonista sono molteplici e variegate, e seguono l’andamento di un arabesco molto più che quello di una linea retta. Tutto ciò non toglie tuttavia coerenza al personaggio, anzi gli donano una multidimensionalità non scontata all’interno di uno spazio – quello letterario – in cui troppo spesso i soggetti vengono fatti emergere dallo sfondo narrativo attraverso una tipizzazione talvolta stereotipica del loro carattere.

. Modesta a parte

Nata nell’anno fatale 1900 (lo stesso della morte di Nietzsche), durante l’infanzia Modesta viene violata dal padre e scatena un incendio che è letale a madre e sorella; successivamente è parte in causa della morte delle sue due tutrici; è affezionata al figlio disabile della seconda di queste ma lo sposa per ottenere il titolo nobiliare che così le viene garantito; fuori dal matrimonio, ha un bambino dal fattore Carmine e una relazione con il figlio di quest’ultimo; ama appassionatamente uomini e donne, cresce i figli suoi e quelli altrui, in una casa comune che è uno spazio di transito tanto quanto il luogo del radicamento. Le ambiguità che contrappuntano la sua vita vengono rese coerenti da una pulsione all’autodeterminazione che ne scandisce ogni fase e ciascuna improvvisa inversione di rotta. Come accade con lo Zarathustra di Nietzsche, anche il nome di Modesta è ironico e destinale al contempo: se in Ecce homo Nietzsche si rammarica del fatto che nessuno ancora gli abbia domandato che cosa significhi sulla sua bocca il nome Zarathustra, “perché ciò che costituisce l’enorme unicità di quel persiano nella storia è proprio l’opposto” (Ecce homo, Adelphi, Milano 200510, p. 129), abbiamo il sospetto che anche per Goliarda Sapienza valga lo stesso.
Non c’è traccia di moderazione, semplicità, né mediocrità in Modesta, eppure questo aggettivo sostantivato che marca il suo destino è monito per tutte le sue altre numerose contraddizioni, la prima delle quali si mostra appunto nello scarto tra ciò che è e come ella si dice. Al pari di Dioniso, dio nietzschiano per eccellenza perché capace di ricevere e incarnare opposti inconciliabili, l’eroina dell’Arte della gioia è luce e tenebra, affascinante e tremenda, capace di una generosità vertiginosa ma allo stesso tempo mai dimentica di sé, delle sue pulsioni e dei suoi anche brutali desideri. È pura gioia di vivere, maestra della più antica e difficile arte della libertà.

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia (Einaudi, 1998)

. Gioia come arte

Anche il titolo del romanzo che Modesta popola da protagonista ci dice qualcosa del pensiero che lo anima. E, anche in questo caso, il paragone con Nietzsche non può venire eluso. In particolare, nel leggere il frontespizio dell’opera principale di Goliarda Sapienza, risuona e riaffiora un altro grande titolo, quello della Gaia scienza, che l’autore ha scelto proprio perché in esso “profondità e petulanza si tengono teneramente per mano” (Ecce homo, cit., p. 92).
Nietzsche realizza il paradossale miracolo di un episteme che si fa gaia per non aver perso il legame con la vita che infatti celebra e onora, laddove Sapienza parla, al polo opposto, di una gioia imbrigliata nelle regole di un’arte. Non dobbiamo però farci ingannare: che la gioia sia un’arte non significa che essa venga limitata nella sua espressione, anzi.
L’arte di Goliarda Sapienza si colloca nello spazio semantico del mestiere artigianale, della creazione poietica, frutto di un immane lavoro esistenziale di plasmazione della propria vita. Fare della gioia un’arte significa prendersene cura, coltivarla nella sua spontaneità, amandone i punti luce così come i chiaroscuri, come gli artisti fanno con le loro opere – “tutto questo dobbiamo imparare dagli artisti, e per il resto essere più saggi di loro. In essi, infatti, questa loro sottile forza cessa di solito, laddove cessa l’arte e comincia la vita; noi, invece, vogliamo essere i poeti della nostra vita” (La gaia scienza, Adelphi, Milano 200314, p. 216).


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