Il primo violino. Così, Anna Achmatova aveva soprannominato l’amico Osip Mandel’štam che, il 27 dicembre del 1938, moriva di fatiche nel campo di smistamento di Vladivostok. Prima di giungere là, dove ogni russo ricorda di avere anche un altro mare, Mandel’štam aveva percorso centinaia di chilometri attraverso la sua terra sconfinata, avendo avuto tempo per ripensare (e rievocare) le sue passate conversazioni con Dante.
Del resto, ricordare Mandel’štam nel suo viaggio verso la morte, vuol dire comprendere la profondità di un uomo che, nella più fatale delle migrazioni, sceglie di avere con sé, avvolta tra vecchi indumenti e un chilo di pane: una pesante edizione della Commedia dantesca.
Basterebbe forse questo fatto, apparentemente trascurato, certamente non trascurabile, a descrivere la grandezza umana, a competere con il gesto di Michelangelo che permette all’uomo (scegliendo!) di toccare Dio. Basterebbe questo fatto a rievocare la grandezza umana dei compianti di Nicolò dell’Arca, o la conclusione, inesauribile, dei Fratelli Karamazov. Un gesto e una poesia, uno scritto e una formula esprimono allo stesso modo l’infinità dell’uomo; esprimono la gravità tutta contenuta in un terror praesentis. Dunque, dobbiamo oggi soffermarci sulla scelta di chi, nella propria tragedia, rileggendo un solo libro, ha scelto di combattere. Senza mai dimenticare che questi gesti, privi di ogni volgare romanticismo, nulla hanno della liberazione e che, al contrario, sanguinano dolore. Come sanguinerà Levi (abbassato lui sì all’inferno!) nel trasmettere vivo il canto d’Ulisse.
D’altra parte sappiamo che ricordare un poeta, non sempre, vuol dire vederlo distratto, stremato, tuttavia, insonne a dettare poesie; eppure, questo è stato Mandel’štam in viaggio verso la morte. Quando nella sua sventura, misera e infinita, ha alzato gli occhi al cielo ritrovando una rosa candida o una poesia. E, sentendo scricchiolare il primo ghiaccio sotto i monti, sceglieva di modulare il canto dell’Alighiero, trasmutando, come un dotto alchimista, la propria anima nell’attesa.
Egli era lì, ultimo lettore perché in fondo ultimo uomo; sordo, con gli occhi istupiditi, con le falangi insensibili, a ripetere nel silenzio, come un vecchio mugnaio insonne che ispeziona le proprie macine, non la grammatica di Marr, non la Sacra bibbia, ma la Commedia divina. E, scavato nel corpo, rifugiato in quel corpo, con la schiena storta, con la faccia levata, pronto a gridare: “E pur convien che novità risponda”.
È questo il suo grido di vita che dobbiamo ricordare, di un’umanità che senza altri ornamenti, restituisce a Dante la propria musica, “formando il nucleo di un’orchestra omofonica a tre sezioni”.
Mandel’štam, vivo, divora le consunte ossessioni filologiche, riscoprendo in Dante il balbettio degli infanti; il lessico di un tribuno e di un predicatore; chiedendosi infine, con una domanda poetica: “quante scarpe, quanti sandali avrà consumato l’Alighiero nel suo percorso?”.
E questa, che ossessi traduttori avranno considerata essere una questione triviale, appare invece come la più splendente evocazione di umanità dantesca. Dante, come Mandel’štam, cammina per sentieri impervi, porta l’esterno in un microcosmo di associazioni fulminee che, dopo di lui, saranno il nostro mondo.
La Commedia, per Mandel’štam, non si compie nelle strade umane, ma si perde, si spande, si comprime e si disperde poi, come un cuore che senza testa cessa di vivere. Anche Borges, lettore di Dante, nel parlare dell’incertezza che Croce e altri avevano ritrovato nel XXXIII dell’Inferno (nell’amletico dolor che poté più del digiuno), aveva infine risposto che la poesia di Dante, nel suo essere totale, aveva compreso persino quell’inutile incertezza. Dimostrando, ancora una volta, che non è mai il rigore tetro di un dottore a disvelare l’umanità del mondo. Se infatti l’intero poema non è altro che “un’unica strofa, indivisibile” le inesauribili letture, in una inattuabile competizione, hanno finito per rompere – o certamente alterare – la sua struttura inalterabile e perfetta, portando la Commedia ad assomigliare più a un esperimento, che a un progetto geometrico divino (dove, certo, è possibile rinvenire una poliedricità di sensi!).
Comprendere la Commedia non vuol dire allora raffigurarla con un cerchio, ma migrare come stormi in terre ignote, essere – forse – quel cerchio; vuol dire scoprire il nulla che si “racchiude al suo interno”, la forza evocativa di una trama irrisolta che appare come un grido o un malanno. Del resto, che il mondo sia un malanno ce l’ha insegnato proprio Dante.
“La Commedia – dice Mandel’štam – non ha volume”, è riempita del nostro peso, compiuta in un’umanità che la toglie alla tragedia, che porta Dio in terra, che ama l’Inferno, che costringe il Poeta alla sua vocazione politica, ovvero, a farsi quel personaggio, spogliato di una santità quasi paolina.
In Dante, scrive Mandel’štam, la citazione lascia il passo all’evocazione, anima stessa della cultura (senza per altro ammettere che comprendere un’evocazione voglia dire essere uomini colti!). Risolvere in uno schema il mondo vuol dire infatti non comprendere una poesia che, meglio di ogni altra, evocando il mondo, non tace gli odori fetidi di “metropoli babeliche”, le sue crude sofferenze. Poiché, è guardando in faccia la vita che le ossessioni di Schelling, le perversioni di frustrati interpreti, scivolano via inutili, pesanti, insensate. E tutto quanto rimane, quanto si afferma, è il senso possente di una verità mai cercata e dunque mai tradita. Della commedia dantesca, appunto.
Mandel’štam accetta il dolore in fuga come Dante e nella tragedia ritrova la sua commedia, mischiando quegli stili che vecchi scrittori, trascurando il tempo e la storia, avevano per tanti anni tenuti distinti. Egli non soltanto ha capito che la fama di Dante è forse il massimo ostacolo alla sua conoscenza, ma ha compreso come, meglio di altri, Dante ci abbia insegnato che gli eroi sono nascosti in penombra (come lo è Farinata) e scompaiono “in una botola acustica”. Beato quel popolo che non avrà bisogno di eroi, gridava Brecht, invocando il contrario. Ma l’eroe allora, o forse più, l’eroismo, non è che un libro pesante, trascinato a fatica senza un lamento, tra insonnie gelide e coatte. L’eroismo è nelle scarpe rotte di Mandel’štam e Dante; dove più che in altre è passata la storia perché è passata la vita. Basta questo a ricordarci le responsabilità di un’umanità atrofizzata dietro a schermi luminosi, che non trova altri modi per meravigliarsi, per assumere un’altra volta la speranza dei cori di Orfeo o per ascoltare le grida assordanti di Ugolino.
Troppo spesso ci siamo domandati se il Conte guelfo di Donoratico, nel pagare la sua inimicizia a Ruggieri degli Ubaldini, abbia mangiato o meno quei suoi tre figli, e troppo poco ci siamo invece interrogati su quante scarpe abbia consumato Dante nel suo lungo, e del resto, impervio viaggio. La Commedia cade come un malanno, lasciando segni e cicatrici, ma è in questo modo che produce il passato, che inventa il mondo che al mondo sarà futuro, che produce senso. Siamo terrorizzati dalla profondità di un piatto di minestra, ripete mio padre, dovremmo allora ripensare il significato (e dunque il peso) di un libro, nei nostri viaggi per troppo tempo rimandati. Le sofferenze esistono come moltitudini sensoriali, comprendono Dante e Mandel’štam, ma la moltitudine, oggi, non ci fa (più) soffrire. Riscoprire la vita, amare la vita o la pagina di un libro, vuol dire intendere Dante per la sua chiarezza, togliere l’aura di mistero che soltanto il tempo gli ha consegnato, restituendo – come ha fatto Mandel’štam – l’alloro di un poeta laureato, le sue scarpe rotte, la sua viva, indescrivibile, umanità.
Per approfondire: Conversazione su Dante (a cura di Serena Vitale, Adelphi, 2021).