Herbert Marcuse, Michel Foucault: tanto vicini, quanto distanti, vicini per tematiche e risonanza culturale, distanti per metodo, impostazione, direzione.
Quello tra Marcuse e Foucault è un confronto tra metodi diversi, che si consuma anche attraverso differenti lessici. Civiltà vs. società: è tra queste due prospettive che, in partenza, si consuma il loro “scontro” e si misura la reciproca distanza. L’ideale, che diventa anche imperativo utopico, è il modo di procedere per Marcuse, di cui non si contano i richiami quasi platonici a concetti come Eros, Thanatos e a un mito freudiano quale era il principio di piacere. La messa in chiaro di strutture, di luoghi fisici che sono anche dispositivi sociali come la prigione o il manicomio è invece il metodo entro cui si esplica il procedimento a un tempo storico e filosofico adottato da Foucault, impegnato a definire le ambivalenze del rapporto tra sapere e potere.
“Là dove tutto è proibito, chi vuole in fondo può fare tutto, ha la possibilità reale di fare tutto; là dove invece è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa”
Pier Paolo Pasolini, 1975
Il più sessantottino dei libri di Marcuse è Eros e Civiltà, un’esplicita reprise in chiave utopica e rivoluzionaria del Freud del Disagio della civiltà. Eros e Civiltà esce nel 1955, ma solo negli anni Sessanta raggiunge il grande pubblico. Il libro seppe infatti conquistare le schiere di hippies e manifestanti che affollavano le università americane al tempo della Contestazione e delle proteste contro la Guerra nel Vietnam. Fu proprio grazie a Eros e Civiltà e al successivo Uomo a una dimensione che, a differenza del suo ex-collega Adorno, il settantenne Marcuse riuscì a farsi “adottare” dalla Sinistra giovane del tempo, godendo di un tardivo successo come pensatore pubblico.
Già le prime pagine di Eros e Civiltà mettono in chiaro i punti di partenza e i riferimenti ermeneutici della ricerca di Marcuse, ma anche la volontà di mettere in discussione i suoi modelli. “L’affermazione di Freud che la civiltà è basata sulla repressione permanente degli istinti umani, è stata accolta senza discussione. Il suo interrogativo, se la sofferenza inflitta in questo modo all’individuo valga i benefici della cultura, non è stato considerato con troppo impegno […]”. Marcuse sceglie invece di porsela, questa domanda, e, attraverso un percorso in questo caso più filosofico-psicoanalitico che sociologico o storiografico, giunge ad auspicare l’instaurarsi di “un nuovo principio della realtà” e di un inedito concetto di razionalità della soddisfazione che potessero fondare, assieme, un’agognata forma di civiltà non repressiva.
La cosa più istintiva che si possa dire del pensiero di Marcuse, almeno per quanto riguarda Eros e Civiltà, è che esso rappresenta un’ultima propaggine del Romanticismo tedesco nel cuore di uno smaliziato Novecento. Non mancano momenti di lirismo, non mancano intuizioni affascinanti, benché non sempre precise – ma la prospettiva di Marcuse, muovendo dai dualismi pulsionali di Freud, arriva quasi a sacralizzare la sessualità umana, vedendola come una forza in lotta “contro la tirannide della ragione” e contro la morte stessa, fino a invocare un ritorno di Eros che consentisse la fondazione di una “morale libidica”. È proprio contro questa vaghezza e questo dualismo che Foucault si scaglia nel delineare i fondamenti della sua magna opera, senza però mai perdere l’eleganza accademica – senza nominare, di fatto, colui che, assieme a Wilhelm Reich, sembra essere a tutti gli effetti il principale obiettivo della sua polemica.
Il rapporto tra Foucault e Marcuse si consuma unilateralmente nelle prime pagine della Volontà di sapere, e si svolge tutto su un non-detto. Dopo aver riconosciuto tra le righe l’ingenuità di quel discorso critico che mette in correlazione la sessualità, la rivelazione di una supposta verità e il “rovesciamento della legge del mondo”, Foucault affila la prosa e parte a criticare “tutti coloro che vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno, della sua liberazione”. Nello specifico, Foucault vuole criticare tutti i fautori di una “teoria repressiva” che vedrebbe la sessualità repressa e condannata da un’arcigna Società; ed egli critica questa prospettiva non tanto perché la sessualità non sia stata repressa, ma perché la nozione di repressione è semplicistica e del tutto parziale rispetto al complesso snodo dei rapporti tra sessualità, società e potere.
“Se la sessualità è repressa, cioè destinata alla proibizione, all’inesistenza e al mutismo, il solo fatto di parlarne, e di parlare della sua repressione, ha un tono di trasgressione deliberata. Colui che adopera questo linguaggio si mette in una certa misura al di fuori del potere; attacca la legge; anticipa, foss’anche di poco, la libertà futura. Di qui la solennità con cui oggi si parla del sesso”.
Come ironizzava Foucault, la tesi secondo cui la civiltà o società che sia – ma già tra i due termini c’è un notevole scarto, proprio lo scarto che separa Foucault da Marcuse – rimuove costantemente la sessualità dalla vita dei suoi membri e sinanche dai loro discorsi, dai loro pensieri, ha comportato un paradosso. Nel dopo-Freud, tra Marcuse, Reich e altri “repressivi” della loro schiera, si è giunti agli occhi di Foucault ad uno stato di cose per cui il discorso sulla sessualità, il discorso a favore della sessualità contro la sua repressione, è diventato più importante della sessualità stessa: à demain le bon sexe!
“Noi, da decine di anni, non ne parliamo [di sessualità] quasi mai senza prendere un po’ la posa: coscienza di sfidare l’ordine stabilito, tono di voce che lascia intendere che si sa di essere sovversivi, ardore nello scongiurare il presente e nell’invocare un avvenire di cui si pensa di contribuire ad affrettare la venuta. Qualcosa della rivolta, della libertà promessa, dell’età futura di un’altra legge passa facilmente in questo discorso sull’oppressione del sesso. Alcune delle vecchie funzioni tradizionali della profezia vi si trovano riattivate. A domani il buon sesso”.
La ricerca di Foucault – perlomeno a partire dalla Storia della follia in poi, ma ancor di più con la Volontà di sapere e i successivi volumi e abbozzi della Storia della sessualità – avrebbe rifiutato la nozione di repressione, per volgersi a inquadrare e a tratteggiare strutture di potere più complesse. Se la civiltà volesse davvero limitarsi a reprimere la sessualità (questo è il sottinteso, quasi banale, della critica di Foucault a Reich e a Marcuse) starebbe scivolando lungo un percorso suicida: nei confronti del sesso, la società cerca se mai di mantenere una tensione di controllo tanto verticale quanto orizzontale, ossia reciproco tra i singoli individui. Questo controllo non mira solo a reprimere il piacere individuale, a restringere nello stretto campo del “lecito” le pulsioni umane: il controllo può anche contemplare la possibilità di rendere il coito un obbligo sociale, a seconda dei momenti, delle necessità storiche e concrete in cui può insinuarsi un irradiante biopotere.
È così che il paradigma di Marcuse risulta programmaticamente “datato”, risalente a un’epoca passata e più puritana della nostra: certo non si può dire che la sessualità sia attualmente “repressa”, se quasi ogni inserzione pubblicitaria ha il suo sottotesto ammiccante e continuamente si sente parlare di consenso, di identità di genere, di coming out; fermo restando che anche per il passato la nozione di repressione potesse suonare fatalmente semplicistica.
Al contrario, il paradigma interpretativo aperto e cangiante imposto da Foucault può valere anche per l’oggi: e, a quasi quarant’anni dalla morte del suo delineatore, può contribuire tratteggiare con invidiabile precisione le ambiguità e le aporie del discorso odierno sulla sessualità, con particolari applicazioni sulle teorie queer e dai gender studies. Un fenomeno diffuso nelle comunità LGBT come il coming out, e in particolare il coming out sui social, fino a che punto è indice di liberazione? Non potrebbe essere interpretato anche nei termini di un costituirsi o un “confessarsi” che, pur cambiando di segno dal negativo al positivo rispetto alla tradizionale confessione cattolica, replica comunque le logiche e le formule di uno schedarsi, di un esporre la propria interiorità di fronte a una collettività in ogni caso giudicante? Sono dubbi che può essere fecondo porsi, anche se non per forza li si debba confermare come veri, al termine della riflessione.
C’è un ulteriore, forse ultimo, passo da fare. Marcuse e Foucault sono accomunati da una voglia di rivelazione nei confronti della società e dei suoi ambigui rapporti con la sessualità che pure biologicamente è il fondamento primo della stessa. L’epifania negativa di Marcuse, la presa di coscienza della repressione, data per buona sin dalle prime pagine di Eros e Civiltà, dovrebbe ribaltarsi positivamente nella costruzione collettiva di un’utopia non-repressiva. Foucault è meno monistico, più sfaccettato, e a una singola categoria polemica quale può essere quella della repressione contrappone un fare archeologico che va di epoca in epoca a scoprire le correlazioni tra sessualità, individuo, potere e sapere. In entrambi c’è l’idea di una verità come svelamento: ma in Marcuse, almeno nel Marcuse di Eros e Civiltà, c’è la presa di coscienza di un fondamento unico, e quasi metastorico, della civiltà, che è la repressione – metastorica al netto del suo connubio con il capitalismo. In ultima analisi, Marcuse condivide con Marx e con Cristo un essenziale bias cognitivo: la presunzione che “la verità vi renderà liberi”.
Michel Foucault ha un approccio diverso. Egli, più subdolamente, ribalta il concetto stesso di verità: quello che svela non è più un’essenza, un fondamento, un’ousia alla base della civiltà tutta; più laicamente, Foucault svela delle strutture e dei nuclei di potere discorsivo. Quello che conta non è più gridare la verità in faccia al potere, che la verità già la sa; quello che conta è scoprire, se mai, proprio l’atopia, la non-localizzabilità del potere e della verità stessa. Verità che è cercata e investigata dal potere, molto più di quanto lo sia da parte dell’individuo. Infatti, è proprio il potere ad essere il primo ossessionato dalle confessioni e dal carattere catartico della “verità” – lo mostra bene il capitolo L’incitazione ai discorsi de La volontà di sapere, e ancor di più Le confessioni della carne, il quarto capitolo della Storia della sessualità uscito postumo nel 2018.
“Si evocano spesso gl’innumerevoli procedimenti attraverso i quali il Cristianesimo antico ci avrebbe fatto detestare il corpo; ma pensiamo un po’ a tutte queste astuzie con le quali, da molti secoli, siamo stati spinti ad amare il sesso”.
Così scriveva Foucault nelle pagine conclusive della Volontà di sapere prima di lanciarsi, con L’uso dei piaceri, a scandagliare le radici “etimologiche”, mediche e culturali, necessariamente latino-greche, del complesso atteggiamento dell’Occidente nei confronti della sessualità. In realtà, già ai tempi de Le parole e le cose, datato ’66, Foucault si era lasciato andare a cenni caustici sulla questione, contrapponendo la silenziosa risata filosofica a quelle “forme di riflessione sinistre e sinistrate” portate avanti e propugnate da “coloro che vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno, della sua liberazione”. Parole che hanno un’attualità sgradevole.
Ricostruire i margini e le modalità del contrasto tra Marcuse e Foucault non è solo un esercizio erudito, che fa riecheggiare l’atmosfera intellettuale e la finesse accademica di quei tempi in cui non era necessario uno scontro aperto tra colleghi per mettere in chiaro la propria posizione. Infatti, benché più a livello di editoriali, blog e social network che nei dibattiti accademici, le linee di fondo di questo scontro silenzioso si ripetono ancora oggi, soprattutto nel dibattito che accompagna la rivendicazione dei diritti delle minoranze LGBT.
La questione ovviamente non è capire “da che parte starebbero”, oggi, Foucault e Marcuse. La questione è capire i margini strutturali di questo scontro silente, e come si riverberano sull’oggi. Farsi domande scomode, capire, per essere concreti, quanto porre l’accento sulla repressione e sulla persecuzione di cui le minoranze omosessuali sono state oggetto nei secoli passati e in misura minore ancora oggi sia effettivamente funzionale alla lotta per i diritti civili e alla comprensione dell’effettiva “storia dell’omosessualità” nel mondo occidentale.
Questo è solo uno degli interrogativi che la critica di Foucault a Marcuse, attualizzata, fa sorgere – forse uno dei più urgenti. Ce ne sarebbero altri, relativi anche al ruolo delle donne, all’uso dei social network, a quanto sia ancora applicabile all’oggi il concetto freudiano di sublimazione, se vogliamo. Ma l’importante, in questa sede, non sta tanto nell’elencare domande: l’importante per ora è delineare strutture. Strutture critiche che permettano anche di sfuggire alle reti di un potere – strutture critiche che ci facciano capire quanto reciproco, coercitivo e mimetico sia, questo potere.
Il potere è atopos, eppure tende a strutturarsi e, soprattutto, mira ai corpi. Questa intuizione, questa immagine di un potere senza faccia perché composto da migliaia di volti, che si può ritrovare nella visione asfissiante che accompagna il romanzo Petrolio di Pier Paolo Pasolini, è una delle ultime, grandi intuizioni del Foucault di Storia della sessualità ed è quanto mai attuale adesso, che il controllo sociale passa prevalentemente attraverso il regno del digitale, fra social e smartphone, e che non prevede più decaloghi fideistici, ma conformismi mediatici. Apparentemente, non c’è più alcuna repressione, e su Instagram si consuma anzi un continuo inneggiare alla body positivity, all’esposizione del proprio corpo e alla libertà di amare: ma non è proprio questa costante esposizione ad essere il sintomo del ritorno di una pratica coattiva? Nel costante bisogno di esprimersi e parlare di sé di cui i social lasciano costanti tracce, non si può leggere, strutturalmente, l’attualizzazione di quella pratica cristiana della confessione su cui Foucault più volte tornò, tra la Storia della sessualità e i corsi universitari? Per questo è cruciale saper cogliere la lezione contenuta, fra le righe, nelle prime pagine della Volontà di sapere: o, a voler essere più schematici, ecco perché Marcuse è datato, e Foucault ancora attualissimo.