I paradossi di una conoscenza salvifica

“Con una idea: che siamo esseri immortali
Caduti nelle tenebre, destinati a errare
Nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione”
Franco Battiato, Le sacre sinfonie del tempo

Gnosi. Eresia eterna secondo Roberto Calasso, religione a sé secondo svariati esegeti. Irreplicabile mescolanza di neoplatonismo, cristianesimo, manicheismo – un ibrido che solo i primi secoli della nostra era avrebbero saputo plasmare. Dottrina esoterica dalla salda radice che, nonostante il tronco divelto dal cristianesimo ufficiale e dalla storia, ha saputo gettare i suoi rami fino ai catari, fino a Lutero – fino a Dan Brown.

Autentico “buco nero” del pensiero occidentale, la gnosi è stata oggetto di un grande interesse accademico e interpretativo a partire dal 1948, quando a Nag Hammadi in Egitto vennero ritrovati tredici codici di papiro che custodivano testi gnostici e apocrifi di vario genere a lungo creduti perduti. A giudicare dal gran numero di pubblicazioni che annualmente appaiono sul tema – tra gli ultimi contributi significativi, il volume collettivo Gnosi. Nostalgia della Luce edito da Mimesis e Il serpente e la croce di Paolo Riberi, edito da Lindau – quel mistero storico e religioso che fu la gnosi cristiana è ben lungi dall’essere esaurito.

Il grande mitografo Joseph Campbell, in una delle conferenze che componevano la raccolta Quello sei tu, definiva la gnosi come l’esperienza spirituale relativa alla “comprensione intuitiva del mistero che trascende la parola”. Secondo il Vocabolario della Treccani, la gnosi è un “complesso di dottrine” diffusosi nello stesso periodo del cristianesimo antico, che “considera la salvezza spirituale e la beatitudine dipendenti dalla gnosi, intesa… come conoscenza rivelata dei misteri divini e dell’ineffabile grandezza di Dio”; conoscenza che, più specificatamente, può tradursi in una consapevolezza della propria filiazione divina, come accade nello splendido Inno della Perla. Questa verità è denigratoria nei confronti del mondo terreno, e salvifica per il singolo credente – l’accento comunitario è di gran lunga inferiore, rispetto al cristianesimo ufficiale e alla sua Ecclesia, a favore di un maggior senso di individualità.

La gnosi è più di un’eresia – è una mentalità, un atteggiamento di vita le cui discrepanze col cristianesimo ufficiale esulano dall’aspetto puramente dottrinario, e sfociano in un’esistenziale ante litteram nutrendosi di un ricco retroterra di pensiero in dialogo tanto con l’Oriente quanto col platonismo, il neoplatonismo e le religioni misteriche. L’attendibilità stessa della Bibbia viene problematizzata, e in opposizione a un Dio inteso come ente perfetto e Padre trascendente la gnosi attribuisce la creazione del nostro mondo a un Demiurgo imperfetto, cattivo o comunque manchevole, che ha seriamente compromesso la Materia di cui noi stessi siamo fatti. Solo alcuni individui sulla terra hanno incorporata la cognizione della loro filiazione divina, di cui si parla a volte nei termini di “scintilla”: il Cristo si è incarnato proprio per mostrare loro la strada per ritornare al Padre, a quella Pienezza/Pleroma da cui provenivano prima che arrivasse il Demiurgo a scompaginare le carte.

Sarebbe facile e per certi versi rasserenante liquidare tutto questo come un’antica religione frutto dell’innesto di due o tre tradizioni diverse, e prevedibilmente oggetto di persecuzione soprattutto una volta che il cristianesimo ecclesiale divenne religione di Stato. La gnosi è una delle architravi di ciò che, parafrasando Roberto Calasso, potrebbe essere chiamato l’innominabile attuale: e non solo e non tanto perché, come brillantemente indicato da Riberi nel suo Il serpente e la croce, l’immaginario gnostico continua ad influenzare la cultura pop fino a lambire i romanzi di Philip Dick e i film di supereroi. La gnosi, se a livello di contenuto religioso oggi non ha più alcun valore, può essere tuttora cruciale come struttura di pensiero. Sin nel nome, con quell’etimo γν dalle molte risonanze, la gnosi lascia intravedere alcuni squarci nel rapporto dell’uomo occidentale con la conoscenza che – siano essi dell’ordine dei bias, delle implicazioni, del meta-immaginario o delle ricorrenze – dalle fondamenta del pensiero greco fino a noi.

“È impossibile che uno veda qualcosa delle realtà essenziali, se non è diventato come quelle – tuonava il Vangelo di Filippo – L’uomo, davanti alla verità, non si trova come di fronte al mondo: vede il sole pur non essendo sole, vede il cielo, la terra e ogni altra cosa pur non essendo nulla di tutto questo”.
Lo sguardo gnostico implica una distanza, una separazione: ma solo se “tu hai visto qualcosa di quel luogo”, che si suppone essere il regno ultraterreno del vero Dio, “tu sei diventato quello [che hai visto]”, come integrava Luigi Moraldi, pioniere dello studio dei Vangeli gnostici in Italia. “Tu hai visto lo Spirito, e sei diventato Spirito; tu hai visto il Cristo, e sei diventato Cristo; tu hai visto il Padre, e diventerai Padre”: una mimesi dello sguardo, non molto lontano da quel Diventare Dio che lo “Pseudo Meister-Eckhart” proponeva, e che è di fatto adombrato in ogni celebrazione eucaristica. In queste poche frasi del Vangelo di Filippo c’è tutto il cuore pulsante della gnosi.

Postulare una equivalenza, o comunque una conseguenzialità, tra conoscenza e salvezza è altrettanto arbitrario, ma forse più pregnante, di quel classico nesso tra bellezza e virtù che i greci nella formula καλοκαγαθία avevano eternato. Certo, è anche più intellettualistico – più elitario, se vogliamo. Ma la conoscenza che la gnosi pretende e propaga non è certo uno studio “matto e disperatissimo” alla maniera di uno scholarus. Ciò che la gnosi sembra incessantemente ricercare è un colpo d’occhio, un’intuizione superiore che fa comprendere al credente Dio, nei limiti assoluti della sua comprensibilità. A proposito di questa intuizione assoluta e di questo colpo d’occhio si possono tracciare molti echi lungo tutta la storia della filosofia occidentale – ma in realtà era tutto inscritto già nella sua origine, all’interno della lingua greca, con il verbo θεωρέω che dapprincipio voleva dire “guardare”, e che col tempo si è risemantizzato in “investigare” e quindi “meditare”, “giudicare”, da cui teoria e soprattutto Teorema.

Se lo gnostico “vede il sole pur non essendo sole, vede il cielo, la terra e ogni altra cosa pur non essendo nulla di tutto questo”, la gnosi è una grandiosa teorizzazione del sentimento di estraneità che, per come insegnano Kierkegaard, Heidegger e in maniera indiretta anche Hegel, sembra essere alla base del sentire umano – perlomeno dell’autocoscienza.
La Seconda Apocalisse di Giacomo tramanda tra le parole pronunciate da Gesù dopo la Resurrezione anche un ferale “io sono l’Estraneo” – e per testimoniare il loro generale senso di estraneità a questo mondo, nella promessa di appartenenza a una patria celeste, gli gnostici si rivolgevano al termine greco αλλογήνης, lo stesso per “straniero”. È attraverso una separazione che si sancisce la propria ex-sistentia, verrebbe da dire.

Non per nulla, e in maniera solo apparentemente paradossale, gli gnostici arrivano a teorizzare un vero e proprio disprezzo della bellezza. È la conseguenza logica di questa presa di distanza assoluta dal mondo in nome di una separazione, di una non-appartenenza originaria.
“Perciò l’Errore si è affermato: ignorando la verità – ovvero ignorando il Padre – ha elaborato la sua materia nel vuoto”.
L’Errore, è questa la brutalità che insegna il Vangelo di verità, “si industriò a formare una creatura sforzandosi di ancorare nella bellezza l’equivalente della verità”.
La bellezza in quanto tale non solo è priva di valore, è del tutto ingannevole: siamo ancora più “giù” di Platone, se così si può dire.

Fotogramma di MacBeth (1948) di Orson Welles

Continuiamo ad affondare le mani nel sostrato greco alla base del nostro pensiero. Se la conoscenza autentica per definizione dev’essere sempre conoscenza della verità, ed è relativamente secondario in questa fase se si tratta di una conoscenza di Dio o dei rapporti profondi che intrattengono l’umano, anche il termine “verità”, se adeguatamente spogliato, può rivelare fecondi sottintesi.
A questo punto però è paradigmatica, e quasi paralizzante, la celeberrima analisi etimologica che Heidegger, ne L’essenza della verità e in svariati altri passi della sua opera, compiva segmentando il termine greco ἀλήθεια. Verità, o il vero, τὸ ἀ-ληθές, ἀ-ληθές: “I Greci intendevano ciò che noi chiamiamo il vero come il dis-velato, il non più velato; ciò che è senza velatezza e dunque ciò che è stato strappato alla velatezza, ciò che le è stato, per così dire, rapito”.
Verità come svelamento – o, come meglio Heidegger traduce il più delle volte, come svelatezza.

Tre considerazioni s’impongono d’obbligo a questo punto. La prima: se il processo che conduce alla verità è una forma di svelamento, allora il mondo in cui viviamo e in cui facciamo esperienza di noi stessi si propone a un primo sguardo come intrinsecamente falso e mendace – e questo è da una parte placidamente gnostico, dall’altro lato pienamente in linea con le più profonde linee del pensiero greco, uno dei pochissimi assunti su cui tanto Parmenide quanto Eraclito con il suo “la natura ama nascondersi” potrebbero concordare.

La seconda: nell’oscillazione che si può cogliere tra svelamento e svelatezza, si riconosce lo stesso scarto che c’è tra l’erotismo e la pornografia.
Non per nulla già Platone aveva a più riprese lasciato scorgere il carattere sessuale della verità, e il carattere epistemologico della sessualità. Che il platonismo e lo gnosticismo si situino sostanzialmente nella stessa grande linea di pensiero è evidente; con il rimpianto che, forse per effetto di una certa nozione veterotestamentaria di impurità, la gnosi crebbe di gran lunga più severa in materia sessuale e non solo – all’infuori di un suo filone “anarchico” pure significativo che postulava la trasgressione sociale proprio allo scopo di dimostrare la vacuità di questo mondo.

La terza: se la verità è svelatezza, e il processo che conduce alla verità è svelamento, l’Apocalisse è una faccenda intrinsecamente epistemologica. E tanto l’apocalisse cristiana, l’ἀπο-κάλυψις, che con parole diverse voleva sempre dire “rivelazione”, quanto ciò che di in più sensi apocalittico poteva cogliersi nella tradizione religiosa greco-romana, come quella tradizione del munuds patet su cui l’ultimo de Martino spese delle belle pagine. Del resto anche Heidegger aveva i suoi innegabili retrogusti religiosi, come bene ha dimostrato Hans Jonas: e già prima che chiudesse la sua vita con Ormai solo un dio ci può salvare, nelle pagine di Che cos’è la metafisica? riconosceva nel pensiero “essenziale” dell’essere “l’immemorabile avvento dell’ineluttabile”. Ma sono solo correspondances, come dire…

L’ineluttabile, l’ineffabile, l’inimitabile: siamo lontani e per molti versi siamo prima della via negationis della teologia cristiana, eppure siamo all’interno degli stessi procedimenti mentali. Si deve infatti ai Vangeli gnostici anche una delle più belle definizioni di Dio, “l’inafferrabile l’incomprensibile”, che Moraldi, con una finezza che da sola testimonia il suo talento da esegeta, traduce senza virgola. Non è senza motivo che Basilide, uno dei più noti gnostici del II sec., arrivò a parlare di Dio come di colui che “non esiste”, tanto è superiore a ogni definizione e comprensione umana. È evidente che in quest’esaltazione di Dio, della sua necessità, della sua incommensurabilità, si arriva paradossalmente a un passo dall’ateismo: ma già frantumare il monoteismo biblico tra un Padre inattaccabile e un Demiurgo “pasticcione” è sintomo di un malessere, di una fragilità. Una fragilità che, forse – può anche essere emendata. Anche a costo di usare la forza.

Fotogramma di Vampyr (1932), di Carl Theodor Dreyer

Una delle tesi più estremistiche a proposito della gnosi, certo approssimativa e per ciò stesso affascinantissima, vuole infatti che tutti i “rivoluzionari”, nel senso storico del termine e in modo particolare i marxisti, sono in realtà, consapevolmente o meno, degli gnostici – una tesi raccolta, fra gli altri, anche da Luciano Pellicani ai tempi del suo sodalizio con Craxi. Quello tra rivoluzione e rivelazione non è un mero gioco di parole, e non per nulla i Vangeli gnostici, ancor più dei Vangeli canonici, insistono ad appellare Gesù come “colui che rivela ciò che è nascosto”.
La gnosi è un modo per sospendere il mondo, renderlo innocuo, in un certo senso anestetizzare il credente dalle sue brutture, che anticipa e riformula tutto ciò che da Cartesio in poi può significare l’epochè. Una volta messo tra parentesi il mondo, ignorarlo completamente o rivoluzionarlo completamente sembrano essere due scelte quasi indifferenti, quasi equivalenti.

“Ciò che non ha radice non ha frutto”, insegna il Vangelo di verità, senza appello. Negli accenti patetici con cui rivolgono la mente alla Patria celeste perduta, gli scritti gnostici testimoniano in una maniera primigenia quell’elemento di nostalgia disturbante che, ben presente già in Platone, è di fatto uno dei grandi leit motiv del rapporto dell’uomo occidentale con la conoscenza. Ma sempre dall’immaginario gnostico si può attingere anche un’altra visione complessiva della Conoscenza, ben più rasserenante e legata all’idea di un ritorno al Padre, di una riconciliazione: così come si può rintracciare una sorta di visione erotica della verità da Platone ad Heidegger passando per la gnosi, al tempo stesso, soprattutto nelle Apocalissi tramandate con la firma dell’apostolo Giacomo, è reiterata e ribadita una condizione di dolcezza nel rapporto con Gesù tanto che, come scrive Moraldi, “l’abbraccio, il vero abbraccio, si mostra come conoscenza”. Qui fa eco non il greco ma il latino, per una volta: il lemma complector, che da “cingere”, “abbracciare” si è fluidamente risemantizzato in “comprendere” in quanto “cogliere con il pensiero”.
Una sovrinterpretazione filosofica della gnosi permette di riassumere davvero l’intera gamma di sentimenti e implicazioni che ha avuto, diacronicamente e sincronicamente, il rapporto tra uomo occidentale e conoscenza: e se il più delle volte la lotta per la verità ha preso le forme di un agone tragico, la gnosi mostra tanto il lato nostalgico e “privativo” della ricerca di una conoscenza originaria, quanto il carattere rasserenante e quasi materno di una possibile anamnesi.

A voler continuare a inseguire etimologie, si potrebbe suggerire un ultimo parallelismo nell’orizzonte semantico greco, quello tra γιγνώσκω, “conoscere”, e γίγνομαι, “diventare”. Ma a questo punto, nonostante la comune ed evidente presenza della radice γν, la paura di forzare i parallelismi e risultare arbitrari prende il sopravvento. Più prudente sembra ricordare un nesso, quello tra verità e libertà, su cui olim i vangeli gnostici e quelli ufficiali riescono a sentire. “L’ignoranza è schiava. La γνῶσις”, quindi la conoscenza, “è libertà”, sanciva il Vangelo di Filippo, e a questo faceva eco uno dei passi più noti del Vangelo di Giovanni, “la verità vi renderà liberi”, Veritas Vos Liberat. Forse, a prescindere da ogni fede e a monte di ogni illuminismo – forse è in questa fiducia nella verità e nel carattere liberatorio di ogni analisi/ἀνάλυσις, che si può davvero cogliere ciò che ha accomunato i pensatori occidentali di ogni genere, dai più accademici ai più eretici, nel comune sforzo di conoscere – fino ad arrivare, con quel gioco di parole meta- che sta alla base di ogni epistemologia, a conoscere la conoscenza. Oppure Dio – il che è quanto dire.

Per M.


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