Europa e sovranità digitale

Benché sostenuta inizialmente da finanziamenti pubblici, gran parte dell’attuale architettura di Internet è stata costruita da aziende private, anche per dissipare i timori circa i possibili abusi dei dati personali da parte delle amministrazioni e degli Stati. Tuttavia, è evidente ormai da tempo che la realtà di internet non corrisponde affatto alle visioni degli idealisti libertari, che immaginavano un nuovo mondo di sapere e opportunità alla portata di tutti, aperto a rapporti, contatti e interazioni non più definiti in base ai confini di luoghi territorialmente delimitati, ma in relazione a flussi di comunicazione e condivisione.

Anche se l’infrastruttura di Internet è stata elaborata per sfidare le categorie della statualità e la logica della territorialità, le tendenze alle quali è dato oggi di osservare vanno piuttosto in direzione di una frammentazione e di una rinazionalizzazione in ambiti sempre più numerosi, dalle questioni legate alla sicurezza a quelle sul controllo dei dati.
Gli Stati autoritari propendono per un uso di Internet in sintonia con gli obiettivi politici dei rispettivi governi, attraverso forme di accesso e di impiego strettamente regolate e censurabili così da meglio controllare la popolazione. Le democrazie liberali lasciano trasparire una tendenza altrettanto inquietante, per quanto siano il mercato e le aziende, piuttosto che lo Stato, a dare corpo a forme inedite di sorveglianza.

È in questo contesto di deterritorializzazione, rinazionalizzazione e competizione geostrategica che nasce l’idea di una sovranità digitale europea, in tempi diversi e con formulazioni diverse. Qualcuno ha parlato di “sovranità tecnologica”, altri di “autonomia digitale” o “autonomia strategica”. Nel Programma del semestre di presidenza dal 1° luglio al 31 dicembre 2020, la presidenza tedesca ha annunciato la sua intenzione di “fare della sovranità digitale il leitmotiv della politica digitale europea”.
Si è trattato di una delle molte occasioni recenti in cui il termine di sovranità digitale è stato evocato dai governi per riferirsi all’idea che l’Europa dovrebbe affermare la propria autorità sullo spazio digitale e proteggere i propri cittadini e le proprie imprese dalle sfide che si tratta di affrontare nel mondo globale.

Che cosa significa una locuzione così insolita come “sovranità digitale” quando tanto la natura stessa dell’Europa quanto la dimensione del mondo digitale sembrano rispondere a una logica post-territoriale?
Si tratta di una locuzione che somiglia un ossimoro, perché associa il potere che lo Stato esercita su territorio a una materia largamente deterritorializzata. In realtà, in questo caso si tratta di una forma di sovranità che ha ben poco a che fare con il suo significato tradizionale, dal momento che viene rivendicata da una entità politica, l’Europa, che non è uno Stato né una mera aggregazione di Stati. Per questo parlare di “sovranità digitale”, quando si tratta della governance globale delle infrastrutture e delle tecnologie informatiche, non significa evocare un potere monopolistico che non ammette alcuna autorità al di sopra di sé. Significa invece sottolineare la necessità di proporre un proprio modello, capace di reggere la competizione globale senza cadere nei due estremi opposti: la soluzione cinese, ovvero il controllo diretto della rete da parte dello Stato, oppure la soluzione americana, che si affida all’autoregolamentazione da parte del mercato.
La soluzione europea dovrebbe prevedere una “sovranità digitale” che passa per una forma di regolamentazione capace di porre argini allo sfruttamento della rete operato dai populisti, praticato, probabilmente, con l’aiuto dei servizi segreti russi, ma nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della democrazia liberale, e cioè le libertà di pensiero, opinione ed espressione.  

Il primo ambito di applicazione della sovranità digitale riguarda la protezione dei dati personali, che costituiscono il giacimento inesauribile da cui le piattaforme digitali estraggono una ricchezza smisurata e sulla quale pagano tasse sproporzionatamente ridotte in paradisi fiscali come Irlanda e Olanda. Va detto che circa la protezione dei dati personali l’Unione europea è già intervenuta, con l’adozione dell’art. 8 della Carta di Nizza e con il Regolamento generale per la protezione dei dati (RGPD n. 679 del 2016), che vale anche per le grandi piattaforme americane. Questo però non può che essere l’inizio, perché all’Europa spetta anche il compito di dividere i fornitori di servizi digitali in varie categorie, a seconda del loro ruolo e delle loro dimensioni. I servizi di intermediazione, come i provider di internet, hanno infatti una limitata capacità di incidere sui contenuti, mentre le grandi piattaforme online sono invece in condizione di porre almeno alcuni argini alle campagne di disinformazione, fake news, hate speech, complottismi e negazionismi vari che circolano in rete. E ciò garantendo alle istituzioni pubbliche maggiori possibilità di accesso ai dati aziendali e possibilità di affidare a revisori esterni il rispetto delle regole.

Discutere di sovranità digitale non significa, dunque, riproporre modelli politici superati e ormai anacronistici. Significa invece ricordare che l’evoluzione digitale non è un destino inesorabile, ma la creazione di un ambiente che deve adeguarsi alle esigenze umane. E l’Europa deve tornare a essere protagonista anche in questo campo, per lo meno se vuole contare ancora qualcosa nello scenario globale.

Edoardo Greblo – Luca Taddio


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