1933: Parigi è un vortice di vita. Un brulichio di formiche si fa spazio tra negozi, passages, panorami e vetrine che rispecchiano chi si ferma a guardare. La strada è percorsa da un continuo via vai che mai si volta indietro. Siamo tra le strade di una nuova Parigi, nata nel XIX secolo, in cui Walter Benjamin si fa da parte e osserva: la città, la gente, la moda e quel sonno affollato di sogni che il capitalismo ha trascinato con sé. Al contrario di quanto visto a Napoli pochi anni prima, (ci riferiamo al testo Napoli del 1924), in quel vortice di vita le case non sembrano fatte per abitare, ma appaiono soltanto come edifici da attraversare; e lo stesso le strade, così popolate ma povere di vissuto. Allo stesso modo, è tra i vicoli e le vetrine parigine che Frédéric Pajak ci conduce questa volta, nel secondo volume di quel Manifesto Incerto dedicato proprio al filosofo Walter Benjamin. Se nel primo libro, pubblicato nel marzo del 2020, Pajak seguiva le orme del filosofo nei suoi viaggi a Ibiza dei primi anni Trenta, qui ci spostiamo «sotto il cielo di Parigi», tra le strade e le vetrine della capitale della nuova modernità. Qui la storia sembra avanzare mascherata e con lei sguardi, vite e personaggi si intrecciano e godono di una visione miticizzata del mondo capitalistico.
Il testo, dopo il grande successo del primo volume, è stato nuovamente pubblicato in Italia nel marzo 2021 da L’Orma Editore nella traduzione di Nicolò Petruzzella (Frédéric Pajak, Manifesto incerto. Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin, L’orma Editore, Roma 2021). Il viaggio di Pajak scorre velocemente fra i capitoli, attraversati da vari personaggi e figure intellettuali. In quest’ultimo volume del Manifesto, Pajak non vuole soltanto seguire le orme del Walter Benjamin di quegli anni, ma propone nuovi e vari personaggi, immersi anch’essi nella fluidità del tempo moderno: lo scrittore svizzero Ludwig Hohl, Franz Kafka, il surrealista André Breton, il pittore Edward Hopper. Se Parigi ospita alcuni di loro, ne disorienta altri. Essa non è fatta soltanto da giocatori, collezionisti o flâneur seduti su tavoli da caffè. C’è anche chi si fa da parte e indaga sulla nostalgia che questa città magica è capace di lasciare. Sfogliando le pagine del testo ci spostiamo tra i vicoli e possiamo catturare vari stralci di vita quotidiana. Dalla malinconia di un intellettuale seduto in un caffè, al silenzio brulicante che avvolge il mercato in pieno giorno, a relazioni intellettuali nate e morte in breve tempo. Così, ad esempio, Pajak dedica un capitolo alla relazione tra Nadja e André Breton, padre del surrealismo. Un rapporto nato a Parigi il 4 ottobre 1926 e destinato a vivere pochi giorni, ma ricco di passione, sofferenza e contraddizioni. Allo stesso modo qui, nel Manifesto, questa storia evapora tra la gente parigina e lo scorrere di poche pagine. Tra la folla ci si muove, e se non si è costretti gli sguardi non si incrociano mai.
Pajak cita Benjamin, il quale riflette su una citazione di Georg Simmel riguardo all’avvento delle ferrovie e dei tram. Prima di queste, ricorda, non si era mai stati costretti a guardarsi, per minuti o per ore, senza dire una parola. Ci si osserva, ci si riconosce e si concorre con chi si ha di fronte fino a distogliere lo sguardo, scendere e tornare ad attraversare una strada di tutto e tutti. Lo sguardo non appartiene alla folla, che si muove tra le strade senza mai alzare la testa. Visti di profilo, gli occhi di chi passa sono un tratto. Di fronte diventano due punti. È così che Edward Hopper dipingeva gli abitanti della città. Ma, se non costretto, egli non amava dipingere persone. E, specialmente in una città come Parigi, ciò che più ama dipingere è la rarità del tempo sospeso che, piuttosto, può offrire la luce su una facciata di una casa, Notre-Dame, il Louvre: la vita morta. Allo stesso modo Pajak, per mezzo delle sue illustrazioni nero su bianco, congela attimi di una città inafferrabile. Una scrittura scorrevole accompagnata dal tipico tratto a china del Manifesto, con cui l’artista ripropone, anche nel secondo volume, stralci di vita quotidiana. L’intera città è a tratteggio: sguardi, personaggi. E Pajak, con un tratto realista, è in grado di rappresentare le immagini più rare di una città che si muove e non si volta indietro. Vite sui marciapiedi, scorci su chi la città non se la può permettere, sorrisi e sguardi catturati, paesaggi dimenticati. Chiaroscuri che ricreano un’atmosfera unica di immagini e scene spesso trascurate dalla storia.
Quella di Benjamin a Parigi è una passeggiata tra oggetti senza storia, tra strade omologate sotto la dittatura dell’arredo urbano. Monumenti e palazzi distrutti dall’interesse storico. In quel mondo di sogno che il capitalismo sta offrendo, gli stessi architetti hanno smesso di considerare la città come un essere vivente di cui prendersi cura. Le finestre si spengono, le tubature arrugginiscono, tutto è piegato ad un’estetica d’occasione, ogni spazio attraversato e non tanto vissuto. Parigi: Gennaio 1938. Benjamin vive in isolamento dalla vita parigina, e abita al numero 10 di rue Dombasle, nel XV arrondissement, suo ultimo indirizzo parigino. Egli ha amato Parigi, ma quest’ultima non ha ricambiato. Ciononostante, il suo nome resterà legato al destino utopico della città. Essa, infatti, deve molto a Benjamin e al suo tentativo di spogliare dall’estro la capitale del sogno, la cui chiave dimenticata è nel secolo passato. Berlino: 9 Febbraio 2013. Frédéric Pajak è in viaggio per il Manifesto e passa il pomeriggio vagabondando tra le strade berlinesi, nel freddo e nella quiete di una folla che cede il passo tra giganteschi palazzi che sembrano giocattoli. I palazzi non sono abitati, ci si lavora, e basta. Al massimo qualche piccola sosta in quelle che definisce «città nelle città», i centri commerciali. Ancora qui la città muore per l’eccessiva voglia di vivere e di ricostruirsi. Il XIX secolo è ancora il sogno da cui bisogna risvegliarsi, già per Benjamin un incubo che peserà sul presente fino a quando il suo incantesimo non sarà spezzato. Pajak non sembra tanto voler creare un parallelismo tra sé e il filosofo Walter Benjamin, quanto piuttosto seguire le orme del suo destino e qui, in particolare, quello di non riuscire ad amare ed essere amato dalla fluidità parigina.
Allo stesso modo Pajak, nato in Francia nel 1955, non ha infatti avuto vita facile. Egli ha conosciuto la povertà e la solitudine tra il caos di vari mestieri. Se, però, il primo volume del Manifesto assumeva un carattere più autobiografico per la necessità di raccontare e presentare la sua storia, il secondo affronta invece anni importanti nella vita di Walter Benjamin e il loro frutto, ovvero il Passagenwerk, una delle sue opere più celebri. Dunque, in questa seconda uscita della raccolta, lo scrittore francese non soltanto riesce a mescolare perfettamente il tratto autobiografico con la vita del filosofo in quegli anni, ma riesce ad offrire, presentando punti di vista di vari intellettuali dell’epoca, un perfetto ritratto della Parigi capitale del sogno moderno.