Lima, Lima – Un crocevia di scambio tra Italia e Perù. Intervista al regista Roberto Valdivia

Giovane regista italo peruviano, Roberto Valdivia si è recentemente laureato presso la NABA- Nuova accademia di belle arti di Milano, dove ha intrapreso il suo percorso artistico all’interno del vasto mondo del cinema, strumento attraverso cui intende riflettere sulla propria identità e le sue origini. La sua ricerca estetica e poetica è infatti fortemente influenzata dalla doppia appartenenza culturale e dai cineasti a lui più vicini, come Lisandro Alonso, regista e sceneggiatore argentino a cui si è ispirato nel realizzare i suoi primi lavori.

Lo ha intervistato Sara Montini per Scenari a proposito del suo secondo progetto cinematografico Lima, Lima un mediometraggio documentario presentato al Transcinema Festival Internacional de Cine (Lima, 2021) e al FESCAAAL – Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina (Milano, 2021) che si pone al centro di una trilogia cominciata nel 2019 con il cortometraggio ¿Querido amigo hoy a donde vamos? per cui ha ricevuto una menzione speciale al Aquerò Film Festival di Milano.

Locandina del film Lima, Lima (2021)

Sara Montini: Per iniziare vorrei chiederti di parlarmi della genesi di questo tuo progetto, come hai concepito l’idea e perché hai scelto la forma del documentario per metterla in scena, spiegando anche qual è stato il tuo punto di partenza e se avevi già chiaro in testa cosa volevi rappresentare e cosa volevi mettere in luce attraverso questo tuo lavoro.

Roberto Valdivia: Questo film è nato come secondo progetto per la mia tesi di laurea, che consisteva in una trilogia, iniziata con il corto fiction dell’anno precedente. Ho scritto Lima, Lima per partecipare a un bando di concorso la cui tematica era “la comunità peruviana all’interno di Milano”. Un argomento che sapevo di dover prima o poi affrontare e quindi ne ho approfittato. Vicino al luogo delle riprese gira spesso un uomo che vende in strada la papa rellena (ossia patata ripiena), un prodotto tipico peruviano a base di patate, verdure e riso. Questo uomo vive per strada da quando ha perso la casa, e la mia idea inziale era di documentare la sua vita di strada, poi però mi sono sorti molti dubbi circa lo sguardo che volevo porre riguardo a questa situazione particolarmente drammatica. Mi sono chiesto cosa io come autore, tra l’altro di seconda generazione, potessi dare alla sua storia. Vorrei cercare nei miei lavori di non essere quel tipo di autore che a tutti i costi deve sottolineare quanto sia difficile la vita di un immigrato in Italia. Non perché non sia così, però come disse uno scrittore di cui non ricordo il nome “nel raccontare le storie in questo modo non si fa altro che aumentare la distanza tra le culture, perché le vogliamo raccontare in questo modo”. È così che ho pensato che forse fosse meglio rappresentare chi qui in Italia è riuscito a costruirsi una vita, non per forza la scalata al successo, ma la vita normale. Bisogna abituare lo spettatore a vedere la figura dell’immigrato ben inserito, per educarlo al fatto che questa sia la realtà della maggior parte di loro. E sono pochissime le opere che fanno questo, sono molte di più quelle che ritraggono altri tipi di storie, utili sicuramente a sensibilizzare, ma che non aiutano a considerare nel modo corretto l’integrazione.  

SM: Il luogo che hai scelto per le riprese è molto particolare: un money transfer. Per molti dei suoi clienti, in gran parte stranieri, il money transfer è anche un’occasione per incontrare altri connazionali o conoscere persone che hanno alle spalle una storia affine. Che significato ha per te questo posto, che importanza ha all’interno del documentario e come lo hai scelto?

RV: Ho deciso di filmare questo luogo che conosco molto bene, perché l’agenzia fa parte del lavoro del mio nucleo familiare, in cui ho sempre aiutato fin da piccolo. È casa mia, ed ho pensato di realizzare qualcosa all’interno di questo posto senza però una idea ben chiara, né delle references a cui aggrapparmi. Sono stati cinque giorni di riprese all’interno dell’agenzia, in cui ho filmato tentando di discostarmi il più possibile dallo stile documentaristico classico e dell’intervista. È chiara la tematica dell’interculturalità, però non volevo forzarla troppo, volevo che il posto si raccontasse da sé. Volevo anche essere rispettoso del luogo, che di per sé è molto anti cinematografico, con momenti noiosi e che appesantiscono, ma sarebbe stato irrispettoso da parte mia eliminare quelle scene. Questa noia, o meglio contemplazione, andava restituita per far emergere il mio rispetto per questo posto.

SM: L’intero documentario ci mostra il susseguirsi, più o meno veloce, di persone giovani e anziane che si presentano allo sportello dell’agenzia. Trovi che ci siano differenze nel rapporto con la propria vita passata e le famiglie lasciate in patria tra emigrati in Italia di prima e di seconda generazione, e puoi spiegarmi come hai scelto quali personaggi tra tutti quelli che hai ripreso includere nel montaggio finale e cosa ti ha colpito di più di loro?

RV: Non conosco di preciso quante delle persone mostrate all’interno del film siano immigrati di prima generazione e quanti di seconda. Credo che i ragazzi di seconda generazione al giorno d’oggi siano inseriti molto bene all’interno della comunità italiana rispetto invece alla mia di generazione, che purtroppo tende un po’ ad auto escludersi e girare solo con amici della stessa etnia. Io stesso in età adolescenziale frequentavo di più persone sudamericane rispetto a persone italiane, e questo è forse molto meno frequente oggi tra i più giovani. Nei film di genere viene mostrata quasi solo la versione in cui sono gli italiani ad escludere le altre etnie, ma per esperienza personale posso dire che c’è anche un altro aspetto della storia. Inoltre vorrei sottolineare che frequentare tanto le persone che condividono le tue stesse radici ti porta a valorizzare molto di più la tua cultura e ad apprezzarla meglio. E’ stato davvero difficile scegliere quali parti includere nel montaggio finale e quali no, alla fine ho selezionato i personaggi che più sentivo vicini a me e che più credevo potessero aggiungere qualcosa al racconto che si stava andando a formare.

SM: Parlando invece del documentario dal punto di vista tecnico, la cosa che subito si nota è come la telecamera sia sempre posizionata strategicamente in modo nascosto, dietro a pareti o oggetti che risultano di fatto in primo piano e lasciando invece quasi sullo sfondo le persone. È stata una scelta dettata semplicemente da questioni di privacy, oppure hai utilizzato lo strumento per dare un significato specifico alle riprese, come a voler sottolineare una maggiore o minore vicinanza alle persone inquadrate?

Frame del film Lima, Lima

RV: In tutto il processo creativo ho cercato di nascondermi, e l’architettura del luogo mi è venuta incontro anche per far sì che le persone non si sentissero osservate. Questo ha permesso di far emergere una realtà oggettiva del luogo, senza dover enfatizzare le situazioni, senza andare direttamente a chiedere alle persone di raccontare la loro storia, e di conseguenza di drammatizzarle.

L’unico momento in cui mi manifesto personalmente è il finale, in cui interagisco con la ragazza (mia sorella), che rappresenta non solo il mio legame affettivo con questo luogo ma anche le sue possibilità di continuare a vivere nel futuro. L’agenzia è frequentata per lo più da adulti e anziani, ma lei suggerisce la possibilità che continuerà a vivere oltre a loro, perché c’è una figura giovane. Ed è per questo che alla fine del film ho inserito il cartello “to be continued”. Prima o poi magari l’agenzia chiuderà, ma la ragazza rappresenta il futuro, non per forza perché ci lavorerà lei, ma la sua generazione. Mia sorella include idealmente le sue (e mie) origini e anche il cosmo in cui il luogo è inserito. Di fatto nel finale, quando le chiedo che cos’è per lei il cinema, lei rappresenta un aspetto della mia personalità, come se mi ponessi da solo la domanda. Lei ha risposto nel modo più perfetto possibile dicendo “non lo so”. E ancora non lo so nemmeno io cos’è per me il cinema, forse quando si è piccoli si ha la spensieratezza di sapere che cos’è, ossia un immaginario di svago. Ma ora è più difficile rispondere. Tutta questa ultima parte è nata spontaneamente, non era prevista, e credo sia proprio questo il bello della scena, della sua profondità. È la chiusura perfetta.   

Frame dal film Lima, Lima

SM: È interessante vedere, come in uno spaccato di vita personale, che chi lavora in questa agenzia passa il tempo, quando non ci sono clienti, a guardare il notiziario locale del proprio paese di origine. In altre scene possiamo invece ascoltare lunghi dialoghi riguardo questioni politiche e notizie di cronaca. È sicuramente un aspetto molto importante che permette di mostrare come queste persone siano ancora strettamente legate al loro paese e a ciò che vi succede, e anche come un posto come questo possa fungere da ritrovo sociale in cui condividere impressioni e idee con persone interessate in egual modo a determinate vicende. Come hai selezionato gli argomenti? Hai voluto seguire un filo conduttore? E che significato volevi dare a queste scene all’interno del contesto generale del documentario?  

RV: Considero la rappresentazione dell’agenzia come un microcosmo all’interno di un cosmo più grande. Ed è indubbiamente un microcosmo che si avvicina di più al Perù rispetto all’Italia. Questo perché è abitato da persone di questa etnia, che però ai miei occhi sono comunque impregnate della cultura italiana. Tanto che spesso parlano in un misto di spagnolo e italiano, e le tematiche di conversazione sono legate tanto alla Lima andina quanto alla Lima intesa come quartiere di Milano. Considero il film come una sorta di ponte, e lo dimostrano le azioni dei personaggi ma soprattutto le transizioni di denaro. Un continuo scambio da qui a lì e viceversa, che si materializza nello scambio tra euro e sol. Forse è più impregnato di cultura andina, ma credo emerga forte anche l’italianità; ricordo che al Fescaaal la direttrice mi disse che ci mise un po’ a capire che il documentario era ambientato a Milano, credeva fosse stato girato in Perù. Questo gioco è del tutto involontario ma posso capire perché alcuni spettatori lo abbiamo interpretato così, e lo apprezzo, anche perché dimostra bene la metafora del ‘ponte’. A livello narrativo non ho voluto mettere in luce nulla a priori, però ci sono stati momenti che mi hanno colpito più di altri. Ad esempio le scene in cui si parlava dell’ex presidente del Perù Alberto Fujimori, che fu accusato e condannato per violazione dei diritti umani, perché la situazione politica peruviana da molti anni è in crisi profonda e questo mi sta a cuore. In fase di montaggio ho comunque cercato di non concentrarmi troppo su nessun aspetto nello specifico, perché considero Lima, Lima un documentario composto da tante piccole storie metropolitane, nessuna più importante delle altre.  È come un mosaico di tanti piccoli corti in cui ogni personaggio racconta, nel modo più naturale possibile, sé stesso. Il formato del mediometraggio mi ha permesso di rimanere “estraneo” e permettere alle immagini di raccontare la storia per me.

SM: Per concludere, questo progetto si inserisce all’interno di una trilogia, cominciata con il cortometraggio ¿Querido amigo hoy a donde vamos?. Parliamo del rapporto tra questi due lavori, e se possibile facciamo anche riferimento al terzo capitolo, a cui stai lavorando in questo periodo. Il tema delle tue origini è sicuramente argomento che emerge molto in entrambi i lavori, anche se in modi diversi. Come l’hai affrontato nel primo e nel secondo film, cosa c’è di differente (oltre al genere) tra i due e cosa invece li lega? E come affronterai queste tematiche nel terzo capitolo della trilogia, e nei tuoi lavori in futuro? 

RV: Il terzo capitolo della trilogia è in fase di sviluppo. È stato già girato e parzialmente montato, ora è in fase di ri-ragionamento. È un progetto che vorrei elaborare meglio. È un corto di fiction (come il primo lavoro) che però vorrei approfondire di più dal punto estetico. La trilogia è un ideale percorso personale di ricerca della mia vera identità, ed è per questo che i film che la compongono sono tutti diversi tra loro. Il terzo sarà il più ‘occidentale’, e il più vicino al genere del cinema sperimentale, che apprezzo molto, anche se poi in fase di lavorazione potrei prendere altre strade. Ancora non so quale strada voglio prendere sia dal punto di vista estetico che cinematografico, e questa trilogia è per me come uno spazio in cui sperimentare portando avanti le tematiche che mi smuovono, per far emergere spontaneamente il mio stile personale. Il nuovo lavoro è un film d’amore, che però tenta di discostarsi da quello che può essere considerato il classico ‘film d’amore’ per provare a rispondere alla domanda ‘cos’è il film d’amore per me?’. Non perché io abbia la presunzione di creare un nuovo genere, non voglio e non sono in grado di sconvolgere le forme cinematografiche, ma per fare una rilettura personale molto distante dal genere hollywoodiano (drammatizzazione estrema, effetti speciali, ecc), con cui sono cresciuto e a cui devo moltissimo ma che trovo distante da me. Voglio realizzare i miei pensieri nella mia forma più consona.

Con questo terzo film vorrei fare un passo avanti, ma sono talmente in una fase di ripensamento che posso dire solo che sarà sicuramente diverso, perché comunque a distanza di un paio d’anni ho acquisito a livello di montaggio ed estetica diverse nuove conoscenze ed ho avuto modo di apprezzare nuove forme e nuovi autori, soprattutto del cinema sudamericano e peruviano. Nei miei prossimi lavori le tematiche sociali forse si ripeteranno ogni tanto, ma non sento la necessità di limitarmi a questo. Non voglio essere il regista di seconda generazione che deve forzatamente parlare di immigrazione e integrazione. Di fatto Lima, lima ne parla nel sotto testo, è un racconto di un luogo e delle persone che lo abitano. Mi piace dare l’input su una tematica e lasciare poi lo spettatore a rifletterci su.

Lima, Lima all’interno della trilogia è sicuramente il più maturo dei film, e l’unico a cui al momento non cambierei nulla. È il ritratto artistico di me come persona in quel preciso momento. Così come Querido risulta tecnicamente e visivamente più immaturo e oggi forse modificherei alcune inquadrature, ma va bene così perché rimanda proprio a quella situazione di insicurezza che provavo ad approcciarmi alla mia prima opera. Mi chiedevo se fossi davvero portato per questo lavoro, tentavo di produrre qualcosa per dimostrare che potevo farlo.

Lima, Lima ha una struttura più solida, ho avuto più tempo per lavorarlo sicuramente, e avevo inconsciamente una sicurezza maggiore dei miei mezzi dovuta al fatto che Querido era stato molto apprezzato. Anche a livello di montaggio è stato più semplice ragionare sulla struttura che volevo ottenere alla fine.  



Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139