Nick Cave: il dolore e l’amore, il conflitto e la conciliazione. Intervista a Massimo Padalino.

Tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.

Baruch Spinoza, Etica.

The moon is a girl with the sun in her eyes.

Nick Cave, Shattered Ground.

Nel recente libro di Massimo Padalino Nick Cave. Bad Seed. La ballata di Re Inkiostro (Odoya, Bologna 2020) viene raccontata la vita e l’opera di Nick Cave. All’interno del libro il celebre cantautore australiano figura sia come il protagonista individuale attorno al quale ruota un vasto e complesso universo musicale e poetico, sia come un personaggio emblematico della cultura degli ultimi decenni, il cui percorso creativo aiuta a dispiegare, narrare e comprendere molti avvenimenti importanti della nostra epoca così ricca di cambiamenti storici, talvolta di portata epocale. Abbiamo approfittato della disponibilità di Padalino per porgli alcune domande su questi argomenti per i lettori e le lettrici di “Scenari”.

Stefano Marino. Vorrei partire da una domanda un po’ generale sul tuo libro, al fine di procedere poi eventualmente con qualche approfondimento su tematiche più particolari. Per prima cosa, quindi, vorrei proprio chiederti di illustrare ai lettori e alle lettrici di “Scenari” la genesi del tuo libro, spiegando ad esempio che cosa ti ha motivato originariamente a scrivere Nick Cave. Bad Seed. La ballata di Re Inkiostro e magari illustrando anche in che cosa il tuo libro si differenzia da altri testi esistenti su Cave, cioè che cosa lo caratterizza in maniera specifica quanto ai contenuti, al taglio interpretativo che hai adottato o ad altro ancora.

Massimo Padalino. Il libro è nato da una mia vecchia proposta alla casa editrice, Odoya, che a un certo punto si è ricordata di quella mia richiesta e mi ha domandato se fossi ancora interessato a scrivere un saggio sui testi di Nick Cave. E qui c’è la prima caratteristica del mio libro, che lo differenzia ad esempio dall’ottimo testo di commento alle liriche di Luca Moccafighe per Arcana, che si “limita” (divinamente, peraltro) al commento dei testi, nonché da una classica biografia dell’artista incentrata sui fatti della sua vita analizzati in parallelo alle vicende artistiche. La mia idea era invece quella di vergare un libretto snello, agile, a tratti romanzato, ma con i contenuti del saggio, dove ad emergere fosse la poetica dell’australiano, di modo che funzionasse un po’ come una guida per neofiti caveani, ma fosse anche d’aiuto a coloro che lo seguono da anni ma che per ovvi motivi non si erano mai troppo addentrati in quella selva chiaroscura di allegorie, metafore, parole enigmatiche e quant’altro che fa di Cave il perfetto seguace virtuale di un certo Pico della Mirandola che da qualche parte scrisse: “Sotto enigmatici velamenti e poetica dissimulazione coprire”. Nick copre un sacco di cose in quel profluvio di metafore – bibliche in primis, ma non solo – che sono le sue canzoni, perché bisogna ricordare sempre che la metafora ha orrore del vuoto e questo fa del nostro eroe, in barba alla vulgata, un tipo che guarda alla vita come uno scienziato dentro al microscopio, solo che il suo microscopio non è un aggeggio meccanico-elettronico bensì la letteratura.

S.M. La parabola artistica di Nick Cave comprende ovviamente in primo luogo la musica – con un repertorio ormai ampio e variegato che consente senza dubbio di collocarlo accanto a giganti del songwriting rock moderno, come Bob Dylan, Leonard Cohen, Paul Simon, Neil Young, Bruce Springsteen, Lou Reed e altri – ma, accanto alla musica, anche la letteratura e, in modo minore, altre pratiche ed esperienze artistiche. Da studioso dell’opera di “re Inkiostro”, quale rapporto vedi fra il Cave scrittore di canzoni, il Cave scrittore di romanzi, il Cave compositore di colonne sonore e, ancora, il Cave attore (seppure in ruoli minori, singoli cameo e rare apparizioni) e last but not least il Cave “performer” nel senso più ampio e pieno del termine, anche come imbattibile trascinatore di folle nei concerti ora infiammati e dissonanti, ora invece pacati e armoniosi, dei Bad Seeds? Quale rapporto sussiste tra le varie facce del Nick Cave artista, nel senso più completo di quest’ultimo termine?

M.P. Nick Cave non è un megalomane. Esiste Nick il songwriter, Nick il poeta, Nick il romanziere, Nick il fabbricante compulsivo di colonne sonore, Nick l’attore, Nick il performer, soprattutto in epoca Birthday Party. Ma tutti questi aspetti si riassumono in una unica paroletta: Artista. Il mito dell’’artista, come colui che domina il mondo, le sue sciagure e le sue bellezze, attraverso il proprio guizzo creativo, fa sicuramente parte del bagaglio colturale di Nick Cave, che da ragazzo studiò l’arte e la letteratura e volle da sempre cimentarsi con le parole, col loro senso e il loro controsenso, a più livelli. Due dei livelli più importati con cui si è cimentato sono la poesia e il romanzo. Per gli esiti, posso esprimere qui la mia opinione, che come tutte le opinioni, per quando dall’alto possano piovere, è pur sempre opinabilissima. Il poeta Cave è un poeta legato a doppia corda da un lato al linguaggio simbolico dell’Antico Testamento, dall’altro ai poeti simbolisti francesi dell’Ottocento, il tutto unito da un pizzico di pathos/ethos confessionale-autobiografico che però in Cave è sempre camuffato, sino a renderlo un messaggio universale. Il limite di queste poesie è che spesso sono state meglio sviluppate nel canzoniere di Cave e quando le si legge si ha sempre in mente quello, cosicché ci sembrano delle “brutte” di un tema che verrà poi consegnato in forma definitiva sui dischi dell’australiano. Discorso diverso per i due romanzi di Cave, La morte di Bunny Monroe ed E l’asina vide l’angelo. Quest’ultimo, che fu il primo romanzo scritto da Nick, dà soprattutto sfogo a quella passione per le vicende bibliche o simil tali nascoste sotto le mentite spoglie di una storia sudista a stelle e strisce. È un romanzo a tratti “troppo pieno”, ma è anche ricchissimo di spunti metaforici e biografici (il tema del gemello, ad esempio, che rimanda al tema di Elvis Presley e del suo gemello morto), a loro modo indispensabili per viaggiare appieno dentro l’immaginario caveano. Bunny Monroe è invece il tentativo del nostro di slegarsi definitivamente dalla forma canzone e di scrivere a braccio sciolto una storia tutta sua. Narra di un tipo alla Bukowski, un po’ puttaniere, un po’ sfigato, che vende cosmetici porta a porta e deve badare a suo figlio dopo la morte di sua moglie. Il romanzo, sebbene non sia stato sempre accolto favorevolmente dalla critica, ha il merito di farci vedere il potenziale del Nick narratore ma, come dicevo poc’anzi, è forse un po’ troppo bukowskiano per imporre una voce letteraria autonoma e potente. Comunque sia, è un’opera che fa sperare in altri romanzi, dove Nick troverà finalmente una sua voce.

S.M. Tralasciando qui per rapidità la produzione con i Birthday Party e limitandoci alle uscite discografiche con i fidatissimi Bad Seeds, da From Her to Eternity (1984) al recentissimo Carnage (2021) e passando per molti dischi che fanno ormai parte in maniera indiscutibile della storia e, per così dire, della leggenda della musica rock, nel caso di un autore come Cave ci si imbatte in un repertorio poetico-musicale talmente vasto, caleidoscopico e ricco di dettagli e sfumature, da rendere talvolta difficile orientarsi e individuare delle costanti o comunque delle cifre stilistiche ben definite e costanti. Eppure, cercare di rinvenire una qualche forma di unità nella molteplicità è non soltanto il compito e la sfida per ogni filosofo dai tempi di Socrate fino a oggi, ma probabilmente anche una tendenza spontanea di ogni spettatore di fronte alla varietà delle forme e dei colori del proprio pittore preferito, di ogni lettore di fronte alla pluralità dei temi e dei personaggi del proprio romanziere preferito, e anche di ogni ascoltatore di fronte ai mutamenti e alle trasformazioni del proprio cantautore preferito. Il quarto capitolo del tuo libro si intitola, in modo essenziale ma quanto mai significativo, “Canzoni di morte e d’amore”: ecco, è possibile, a tuo giudizio, individuare nell’intreccio apparentemente inscindibile di dolore e amore il tema fondamentale e davvero decisivo della poetica di Cave?

M.P.  “Canzoni di morte e d’amore” è una frase che ben esemplifica il complesso rapporto che Nick ha con la vita, innanzitutto quella immaginata, perché un artista vive immaginando anche quando vive. A ben pensarci, “Canzoni di morte e d’amore” è una frase che ben si adatterebbe a riassumere anche le caratteristiche sia del canzoniere, sia della visione della vita del suo autore, di uno dei numi tutelari di Nick a livello di songwriting: Leonard Cohen. La differenza fra Cohen e Cave è che il primo guarda e canta di questi temi con distaccata e partecipe passione, mentre il secondo li canta con emotiva, teatrale e partecipe passione. La morte per Cave è sempre, un po’ kafkianamente, la punizione per dei peccati enormi che non sempre emergono a livello della collettività, che spesso rimangono colpe sentite come inespiabili che il protagonista delle vicende caveane imputa a sé stesso come fosse dinnanzi a un tribunale in cui l’accusato è anche il giudice, il colpevole e la pubblica giuria. In quel teatro dell’anima che è l’arte di Cave tutto è autentico, specialmente la finzione. Ed ecco allora che la morte, lo yin, trova il suo contraltare nell’amore, lo yang, in un appaiamento che solo superficialmente attribuisce due ruoli diversi a ciascuno dei due attori principali delle canzoni di Cave. Sì, perché anche l’Amore, in Cave, non è altro che una forma di autoprocesso, in cui l’imputato dissolve la propria ansia di autocolpevolezza, e spesso di autodistruzione, nella sensazione che l’amore sia o qualcosa che non ti meriti, o qualcosa che qualche divinità chissà dove nascosta ti manda per farti espiare colpe gravissime che solo tu, cantautore che hai scritto la canzone (ma anche tu, ascoltatore che ne ascolti le parole e ti ritrovi in esse), conosci e riconosci.

S.M. Infine, venendo all’ultima uscita discografica di Nick Cave, ovvero il succitato Carnage – realizzato solitariamente con Warren Ellis e, a mio avviso, interpretabile come terza parte di una trilogia di espressione ed elaborazione del lutto che aveva trovato nei due album precedenti, Skeleton Tree (2016) e Ghosteen (2019), le sue precedenti tappe -, in una mia recensione del disco ho proposto di individuarne la chiave di lettura nella compresenza degli opposti e, soprattutto, nella nozione di conflitto. Infatti, pur essendo un album intriso di dolore, sofferenza, perdita, incomprensione, distanza, dissonanza, conflittualità e lutto (e, dunque, quanto mai oscuro), a mio avviso Carnage è altresì un’opera capace di offrire squarci inaspettati di serenità, apertura, trasparenza, rinascita, empatia, euforia, comprensione, vicinanza, armonia e pura visibilità (e, dunque, a suo modo anche luminoso, perlomeno in alcuni brani). Opera gravida di conflitti e del senso stesso del conflitto come modalità specificamente umana di essere-in-relazione con gli altri, Carnage mi sembra essere al contempo un disco che invita a non arrendersi alla datità del conflitto, come se tale condizione fosse immodificabile e assoluta, ma stimola viceversa a imparare a gestire il conflitto (cosa che, per alcune persone, può essere a volte un compito che richiede anni di studio ed energie) alla luce dell’idea e della speranza in una conciliazione possibile. Alcuni versi di Carnage in cui si intrecciano e si saldano insieme le dimensioni poc’anzi citate, cioè il dolore e l’amore, secondo me recano una chiara testimonianza di tutto ciò (“We won’t get to anywhere, darling / Anytime this year […] / We won’t get to anywhere, darling / Unless I dream you there”; “There’s a madness in her and a madness in me / And together it forms a kind of sanity”; “And it’s only love / With a little bit of rain / And I hope to see you again / […] It’s only love / And it comes on like a train / Rolling down the mountains / In the rain”). Essendo forse Carnage, per vari motivi, il disco che mi ha maggiormente impressionato, colpito e assorbito quest’anno, mi piacerebbe conoscere la tua opinione al riguardo, cioè sapere come tendi a interpretarlo, se hai trovato una chiave di lettura privilegiata (simile alla mia o magari anche diversa, ovviamente), e se vedi una connessione speciale con i due magnifici album precedenti che ho già ricordato, Skeleton Tree e Ghosteen.

M.P. Carnage porta a maturazione una tendenza che, in Cave, è iniziata forse sin dai tempi in cui ha cominciato a collaborare con Ellis, che poi sarebbe la seguente: Cave si lascia andare anche a squarci benevoli, ottimistici, forse, chissà, sull’umanità. Vero è che, sin dai tempi di The Boatman’s Call, Nick ha imparato a mettere nelle sue canzoni anche le sue emozioni personali più sincere, cedendo al diktat del biografismo (sebbene sempre reso in forma universale e mai da cantautore piagnone/fregnone) a cui aveva raramente ceduto in precedenza. Credo che la tragica scomparsa di Arthur e la volontà di dare un senso all’età che avanza siano i principali volani di questo cambiamento di rotta nella poetica di Cave. Mentre Nick, all’inizio di carriera, e non solo come songwriter (sin dai tempi dei Boys Next Door) ma anche come performer, tendeva a una forma di canzone che potremmo chiamare canzone/esorcismo, dove le emozioni messe in scena erano parte di un rito magico atto a espellere amore e odio in parti uguali attraverso i pori della canzone, adesso tende invece alla canzone poetico/analitica, dove attraverso immagini laconiche, essenziali, a loro modo molto debitrici della poesia orientale, Cave cerca di trovare la chiave per rimettere ordine in un universo, il suo ma anche il nostro (vedi Carnage, scritto in piena pandemia), che ha bisogno costante di nuovo senso e nuovi sensi. Naturalmente, il poeta sa che la cosiddetta realtà, a partire da quella sociale, dentro la quale si inscatolano tutte le altre realtà (famigliare, individuale, ecc.), ha bisogno che qualcuno, nel segreto e nelle segrete di quegli spazi chiamati “canzoni”, riesca a configurare realtà alternative che donino “senso” all’ascoltatore, aiutandolo a rimodulare e tarare in modo nuovo il proprio immaginario sull’immaginario del cantautore/poeta. L’operazione, da parte di Nick, come da parte di qualsiasi scrittore e songwriter che valga qualcosa, non è fatta in modo esplicito. I mondi che si configurano all’interno di una canzone, e il loro senso, e l’effetto che quel senso ha sui sensi degli ascoltatori, sono “effetti collaterali” della messa in scena teatrale/poetica/musicale, ma paradossalmente sono anche il modo in cui, volente o nolente, il songwriter riesce a creare ponti col mondo circostante, che a conti fatti non è altro che una sommatoria degli infiniti mondi in cui ciascuno di noi vive e chiama “Il Mondo”. Ecco, lì, in quell’intercapedine di senso fra il mondo e Il Mondo, fra il personale e il collettivo, si situa l’arte di Cave, in una situazione di perenne e perfetta osmosi fra l’uno e l’altro, pur senza mai cedere alle lusinghe di un realismo farlocco o peggio ancora alla cronaca et similia.



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