Plato Amicus Sed. Introduzione ai dialoghi Friedrich Nietzsche

In questo estratto, la tesi secondo cui Nietzsche è un antiplatonico risulta, almeno in parte, infondata. Nietzsche ha intrattenuto un rapporto costante con la filosofia di Platone che, seppur in parte criticata, manifestava al filosofo dell’eterno ritorno l’incarnazione per eccellenza del tragico destino del filosofo, destinato a incamminarsi sulle alte vette del pensiero per poi tornare sulla terra a confrontarsi e lottare con l’ordine costituito.
In occasione dell’anniversario della nascita dell’illustre filosofo tedesco, la cui influenza sul pensiero filosofico, letterario, politico e scientifico rimane ancora oggi indiscutibile, su Scenari proponiamo un estratto dal libro “Plato Amicus Sed. Introduzione ai dialoghi” di Friedrich Nietzsche (a cura di Giampiero Moretti, Mimesis Edizioni 2020).

Il compito principale è indicato nel titolo: introduzione ai dialoghi. Quindi trattazione di tutti i singoli dialoghi in vista di una lettura esauriente. In primo luogo i presupposti, l’epoca di composizione, i personaggi, il titolo; in secondo luogo la disposizione. Infine la forma artistica. Annotare tratti caratteristici e pregi. Premettere a mo’ di introduzione 1. un panorama della letteratura più recente sui veri e propri problemi platonici; 2. un profilo biografico in base alle fonti originali, al fine di delineare la personalità di Platone.
In una ricerca di questo tipo si punta o alla filosofia o al filosofo; noi preferiamo riferirci a quest’ultimo e fare del sistema un uso solo strumentale. L’uomo è ancora più interessante dei suoi libri.
A buon diritto Platone è da sempre considerato come la vera guida filosofica della gioventù. Egli incarna l’immagine paradossale di una natura filosofica stracolma, che nel medesimo tempo è capace di grandiose intuizioni e visioni d’insieme e di dialettica fatica del concetto. L’immagine di questa natura stracolma determina la spinta alla filosofia; essa suscita precisamente quel ϑαυμάζειν che è il πάϑος filosofico. La teoria delle idee è qualcosa di stupefacente, una inestimabile preparazione all’idealismo kantiano. Con ogni artificio, compreso quello del mito, viene insegnato l’effettivo contrasto tra cosa in sé e apparenza, con cui ha inizio ogni filosofia profonda: qui, una volta di più, occorre anzitutto superare il solito contrasto tra corpo e spirito.
Ancora più grande è l’importanza di Platone per il filologo. Egli ci deve servire da sostituto dei grandi scritti dei filosofi preplatonici che sono andati perduti. Immaginiamo che Platone non si fosse conservato: se la filosofia cominciasse per noi con Aristotele, non potremmo neppure immaginare quel filosofo più antico che nello stesso tempo è un artista. Non avremmo nessun esempio di quanto ampiamente l’idealismo greco abbia permeato di sé l’età classica; non potremmo comprendere il profondo e del tutto nuovo stimolo venuto da Socrate, il quale con radicalismo incredibile si contrappose al mondo esistente, in campo politico, etico e artistico. Platone è l’unico greco della fine dell’età classica che si appresti a una critica: per noi rappresenta il più grande ϑαῦμα, se pensiamo a quanta stima nutriamo per quel mondo che Platone pose dinanzi al suo foro.
Come scrittore Platone è il fine prosatore, sommamente versatile, maestro di ogni sfumatura, il dotto raffinato dell’epoca più colta. Nell’arte della composizione mostra uno straordinario talento drammatico. Ma occorre tenere sempre presente che lo scrittore Platone è solo un εἴδωλον del vero maestro Platone, un’ἀνάμνησις dei discorsi tenuti nei giardini di Academo. È anche per questo che noi dobbiamo utilizzare i suoi scritti per recuperare lo spirito di quei circoli filosofici. Per un’epoca di cultura letteraria quale è la nostra, è molto difficile conservare intatto il carattere commemorativo proprio dei dialoghi platonici. Non si tratta di un mondo immaginario, puramente letterario, come avviene in tutti i dialoghi moderni. Noi dobbiamo tentare di trasporre lo scrittore Platone nell’uomo Platone: se di norma presso i moderni l’opera (gli scritti) vale più del rapporto con il suo autore e gli scritti contengono la quintessenza, ben diversamente stanno le cose presso gli Elleni, tutti consacrati alla vita pubblica e solo secondariamente alla letteratura. Un’immagine più esatta del carattere fondamentale di Platone si può ricavare, piuttosto che dai suoi scritti, da certe azioni tramandate, per esempio dai suoi viaggi politici. Non dobbiamo considerarlo come un sistematico chiuso in vita umbratica, ma come un agitatore politico, che vuole sovvertire il mondo intero e che, tra l’altro e sempre in vista di questo scopo, si serve della scrittura. La fondazione dell’Accademia è per lui un compito molto più importante: egli scrive per dare sostegno nella lotta ai suoi compagni accademici.

Dialettica come via per la conoscenza dell’essere

Solo un concetto descritto con estrema precisione, un concetto riconosciuto in tutte le sue parti senza lacune, può aprire la porta verso l’ente. Quindi ci si deve sforzare di afferrare, attraverso la dialettica, il concetto, di superare tutto il pensare non chiaro, di eliminare ogni inganno e ogni ambiguità. Ciò ora diviene il compito della vita del filosofo, trovare il regno dei concetti, dedurli singolarmente, divulgare la conoscenza piena. Ogni insegnamento nell’Accademia si riferisce alla dialettica. Platone non sa nulla di un’apprensione intuitiva delle idee: il percorso verso il concetto è sempre costituito dalla dialettica: al concetto giusto corrisponde poi necessariamente un ente, che naturalmente non si può né vedere né percepire se non tramite il concetto. All’insegnamento per mezzo della dialettica è contrapposta la persuasione per mezzo della retorica e della scrittura. Essa non genera nessun sapere ma solo una δόξα.

Immagine del filosofo perfetto

Egli vive interamente immerso in astrazioni purissime, non vede e non ascolta più, non stima più ciò che stimano gli uomini, odia il mondo reale e cerca di divulgare il suo disprezzo. Dopo aver visto la luce del giorno e i veri ὄντα, vive come in una caverna: gli altri uomini lo devono considerare un folle, se raccomanda loro di non credere più nella realtà delle cose che essi vedono e ascoltano. L’uomo platonico si differenzia molto da quello socratico: perché Socrate dice (Xen. Mem. III 9, 15): “L’uomo migliore, e quello che gli dèi amano di più, è colui il quale compie nella vita politica i propri doveri verso lo Stato, come un contadino compie bene i doveri dell’agricoltura e un medico quelli dell’arte medica. Ma l’uomo che non fa niente di buono non è né utile né gradito agli dèi”. Se Socrate era un buon cittadino, Platone era invece, come Niebuhr osava affermare, un cattivo cittadino. Nel senso che egli combatteva a oltranza contro tutte le forme di organizzazione statale esistenti ed era un rivoluzionario del tipo più radicale. L’esigenza di formare i concetti giusti di tutte le cose appare innocua: ma il filosofo che crede di averli trovati tratta tutti gli altri uomini da ignoranti e immorali e tutte le loro istituzioni come sciocchezze e ostacoli al vero pensare. L’uomo dei concetti giusti vuole giudicare e governare: credere di possedere la verità rende fanatici. Questa filosofia partiva dal disprezzo della realtà e degli uomini: essa ben presto rivela una tendenza tirannica. Platone attraverso l’Apologia di Socrate mostra di avere recepito il pensiero decisivo su come un filosofo si dovrebbe comportare con gli uomini: cioè come il loro medico, come freno imposto alla nuca degli uomini. Egli accentua l’ideale e formula il pensiero: la scienza deve governare: il sapiente, che è il più vicino agli dèi, deve essere legislatore e fondatore dello Stato. I mezzi che egli usa sono: collegamento con i pitagorici, tentativi pratici a Siracusa, fondazione dell’Accademia, produzione letteraria e battaglia indefessa contro il suo tempo.

Friedrich Nietzsche, Plato amicus sed (Mimesis Edizioni, 2020)

Platone come etico

Nell’elemento morale risiede la forza dominante di Platone. Egli è sempre in mezzo alla lotta: da una parte gli antichi ateniesi, in testa i καλοὶ κἀγαϑοί, che si attestano tenacemente sul costume tradizionale; dall’altra i sofisti che contestano tutto ciò che è tradi- zionale. Egli dimostra a quelli l’insufficienza e la non-scientificità dei loro concetti di virtù, poiché essi si attengono, invece che all’essenza, all’una o all’altra caratteristica della virtù.
Questo il discorso dei dialoghi minori: viene fissato il concetto di una virtù, per esempio della σωφροσύνη; quindi vengono esaminati, completati, corretti i singoli momenti del concetto, che è di nuovo rifiu- tato nella sua interezza; a questo punto ven- gono fissati un secondo, un terzo concetto, modificati e di nuovo messi da parte, e tutto il dialogo si chiude con un dubbio (Carmide, Lachete, Eutifrone, Menone). Così Platone combatte i sostenitori dei concetti popolari di virtù.
Quanto  ai  sofisti, la  loro  proposizione cardinale è la identità di ἡδύ (piacevole) e ἀγαϑόν. Ciò è particolarmente chiaro nel Gorgia: una volta che Callicle ha dovuto ammettere la differenza tra ἡδύ e ἀγαϑόν, allora deve cedere, suo malgrado, anche su tutte le rimanenti proposizioni della sofistica. Le dimostrazioni contro quell’identità si trovano nel Gorgia, nel Filebo e nella Repubblica. 1. Anche coloro che considerano identici il piacere e il bene ammettono che ci sono pure piaceri cattivi accanto a quelli buoni, di conseguenza sono costretti a identificare il bene e il male. 2. Se si considerano identici, allora si deve prendere il piacere come misu- ra di valutazione del valore. Ciò è assurdo; il piacere si rafforza proprio in stato di malessere del corpo e dell’anima. 3.
Il bene non può mai essere presente con il suo contrario, il cattivo e il male, nel medesimo tempo e nella stessa identica cosa; ma il piacere è inseparabilmente legato al suo contrario, il dolore. Il piacere consiste nell’appagamento di un bisogno, il bisogno è qualcosa di non piacevole: nel momento del soddisfacimento piacere e dolore sono legati, con il soddisfacimento essi cessano contemporaneamente.
Questa dimostrazione può avere validità solo in quanto il piacere è concepito come soddisfacimento di un bisogno; ma ciò secondo Platone è solo il piacere misto e impuro. Però ci sono più tipi di piacere, anche un tipo di piacere non misto, e puro. Così occorre esaminare il concetto generale di tutti i tipi di piacere, per rifiutare, partendo da questo punto, l’identità di piacere e bene. Ciò accade nel Filebo. Ci sono quattro categorie di enti: l’illimitato e il limitante, il misto e la causa della mescolanza. Nella prima categoria rientra tutto ciò che non è determinabile attraverso nessuna misura (ποσόν), ma è illimitato sia per quantità che per intensità. Platone pone in questa categoria piacere e dolore, con il consenso dei seguaci della teoria del piacere; perché, essi ritengono, il piacere non sarebbe il bene più grande, se esso non fosse illimitato per quantità e intensità. Se la natura del piacere consiste nel fatto che è qualcosa di indeterminato qualcosa di non ermeticamente chiuso in sé, ne segue che a essa si addice solo un divenire, non un essere. In ciò Platone vede la dimostrazione principale contro la identità di bene e piacere. Giacché ogni divenire diviene a causa di qualcos’altro, a causa di qualche essere, per cui non ha in se stesso un suo traguardo e un suo scopo, ma fuori di sé, in un essere; così il piacere, in quanto divenire, non può coincidere con il concetto di bene, perché questo ha il suo scopo in sé. Oltre a ciò colui che colloca la felicità nel piacere sceglierebbe per sé un divenire e un fluire continuo poiché al divenire è necessariamente connesso il fluire.

Materia

Tutto il divenire si svolge secondo un modello eterno, le idee, e perciò tutte le forme e le qualità delle cose sensibili derivano dalle idee. Ma in queste cose si trova, oltre a ciò, qualcosa che non può derivare dalla partecipazione alle idee, una base che, anche se tutte le forme e le qualità fossero eliminate, resterebbe immutabile nel fluire e nel divenire (non al di là del divenire come le idee).
Non sono gli elementi di Empedocle, perché questi hanno qualità già determinate; in genere nulla che sia plurale, perché le peculiarità, per mezzo delle quali più corpi si differenziano gli uni dagli altri, debbono appunto essere eleminate; né può essere un singolo corpo in qualche modo determinato, ancor meno un caos nel quale le qualità apparirebbero solo mescolate disordinatamente. È una materia prima senza alcuna determinazione: ἄπειρον, indefinitum. Come alla base di più statue sta lo stesso oro, con cui sono state realizzate l’una dopo l’altra, e come alla base di molte figure sta la stessa cera, così alla base di ciò che nasce, cambia e passa, sta quel sostrato di fondo, che Aristotele denomina ὕλη [Tim. 48 e – 52 d]. Poiché tale materia non può mai divenire altro, essa ha una certa immutabilità, un mirabile vantaggio nei confronti delle cose. Le idee sono νοητά, le cose sensibili δοξαστὰ καὶ πιστά, la materia, poiché risiede ancora più nel profondo (essa non ha nulla a che spartire con le idee), μόγις πιστόν; eppure, giacché essa è sempre identica a sé e immutabile, si inserisce di soppiatto, illegittimamente, senza diritto di cittadinanza, nel regno dei νοητά. In ciò si trova la difficoltà per cui Platone la denomina χώραν ed ἕδραν e denomina il divenire in essa come divenire ἔν τινι τόπῳ. Grossa controversia se la cosiddetta materia non sia forse altro che lo spazio.

Derivazione della materia

Come fa Platone, dopo aver immaginato di eliminare in una cosa tutte le qualità e le forme, a pensare che rimanga qualcosa? Non ci si deve assolutamente confondere con ciò che la scienza atomistica della natura denomina materia. Questo ἄπειρον non è affatto materia, esso è un μὴ ὄν. Si pensi a un cavallo: esso è la copia dell’idea di cavallo, quindi anche il cavallo successivo e così via. Tutti sono identici, cioè cavalli rispetto all’idea, e pur tuttavia essi sono diversi, perché sono più cavalli. L’idea di cavallo può spiegare solo l’essere identico, non l’essere diverso, solo il ταὐτόν, non il ϑάτερον. Come l’idea è solo la causa dell’essere uno, dell’es- sere identico, così deve esserci una causa, un principio per l’essere diverso e molteplice. E così è per tutte le molteplicità delle copie di una idea. Ma così è pure per la molteplicità delle idee stesse. Esse sono, per un aspetto, la stessa cosa, una idea è come l’altra, cioè a dire idea: ma esse non coincidono, e di conseguenza deve esserci una differenza, un elemento dell’essere diverso.
L’elemento dell’essere diverso è in sé diverso, cioè porta in sé ogni occasione del diverso, è indeterminato, ἄπειρον. L’elemento che determina e delimita quell’elemento indeterminato e lo trasforma in unità, è τὸ πέρας; attraverso il πέρας ogni idea diviene l’idea determinata, per esempio quella di cavallo. Dentro il campo d’azione di un’idea ora l’idea è a sua volta τὸ πέρας, le singole cose determinate provengono dall’ἄπειρον, che viene determinato attraverso l’idea.
I pensieri di fondo sono pitagorici. Nello scritto di Filolao [44 B 1-2, 6-7, 10-11DK] i principi sono per l’appunto τὸ πέραςe τὸ ἄπειρον, che si uniscono in armonia, che è l’unità delle varietà e la concordia di ciò che è disparato. Così gli stessi elementi gradualmente generano l’unità, poi la serie dei numeri aritmetici e così via. Qui si trova l’origine delle ottave o dell’armonia in senso più stretto, il fenomeno che serve a illustrare gli altri: dal diverso e dall’identico nasce una nuova unità. Così in Platone ogni cosa è il risultato di una mescolanza di ταὐτόν e ϑάτερον, da cui nasce un τρίτον οὐσίας εἶδος [Tim. 35 a]. Ora ci sono tre regni di ὄντα: ἰδέαι, μαϑηματικά, σώματα. Perché nasca una singola ἰδέα, un singolo μαϑηματικόν, un singolo σῶμα, si devono sempre mescolare i due elementi dell’essere uno e dell’essere diverso; il risultato della mescolanza è pertanto il singolo ὄν. I nomi platonici per gli στοιχεῖα sono ora τὸ ἕν o ταὐτόν (per πέρας) e τὸ μέγα καὶ τὸ μικρόν o ϑάτερον (per ἄπειρον). Naturalmente ora l’ἕν in un genere di ὄντα deve essere diverso da quello di un altro genere, quindi comporta un riferimento all’ἄπειρον; altrimenti, se fossero uguali, la mescolanza dovrebbe essere sempre la stessa, cioè non potrebbero esserci tre regni di enti. Piuttosto l’ἕν e l’ἄπειρον da cui provengono le idee sono molto più alti e nobili dell’ἕν e del l’ἄπειρον da cui provengono i μαϑηματικά; e questi a loro volta sono più alti e nobili di quelli da cui provengono le cose sensibili.
Il compito di mediare tra questi regni, quindi per esempio rendere partecipe il mondo sensibile alle idee, spetta alle anime, anzitutto all’anima del mondo. Aristotele (de an. I 2, 404 b) dice che Platone costruisce l’anima dagli elementi perché così il simile si riconosce attraverso il simile, però le cose consistono degli stessi identici principi dai quali è nata l’anima. In conseguenza della sua formazione essa è in grado di conosce- re le cose in modo duplice: afferrando ogni genere tramite la totalità dei suoi elementi, oppure tramite uno dei suoi elementi.
Quindi l’anima con il primo dei suoi elementi comprende il  primo  elemento  delle  cose con il secondo l’altro elemento delle cose. Il secondo tipo di conoscenza: l’anima ha bisogno di tutti i suoi elementi per la conoscenza di ogni singolo genere delle cose. Ora l’anima del mondo è nata così in conseguenza di una doppia mescolanza:

Ciò significa: le cose stesse e gli elementi delle cose sono mescolati per generare l’anima. I due tipi di conoscenza ora sono: a. l’anima afferra le idee, i μαϑηματικά, le cose sensibili, tramite la totalità dei suoi elementi; b. essa afferra le idee, per esempio tramite il ταὐτὸν e l’οὐσία e il ϑάτερον, cioè essa nelle idee cerca soprattutto l’identico (ciò che rende l’idea idea); perché essa riconosce la singola idea come tale (quindi non nelle sue relazioni con le altre) come οὐσία. In ciò consiste quindi la διαίρεσις, nello scomporre un genere nelle sue specie, ridurre un concetto mediante l’intera scala progressiva delle sue sottospecie. Il secondo tipo di conoscenza è la συναγωγή, che consiste nel risalire al genere.
Tralascio la fisica di Platone, cioè la spiegazione più specifica di come l’anima del mondo produca il mondo, e rimando al Timeo. Poiché si tratta non dell’essere ma del divenire, qui non si dà alcun sapere, ma solo πίστεις e εἰκότες μῦϑοι: quindi, come dice Platone (Phaed. 114 d): “Sostenere per certo che le cose stiano esattamente così [come le ho descritte], non si addice ad alcun uomo che abbia senno: pure così o qualcosa del genere (ὅτι ἢ ταῦτ᾽ ἐστὶν ἢ τοιαῦτ᾽ ἄττα)”.



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