Una prova di autoritratto. In ricordo di Salvatore Veca.

Salvatore Veca ci ha lasciato eppure non si allontana perché il suo condividere la vita resta come una evidenza carica di effetti. Su Scenari lo vogliamo ricordare attraverso le sue parole, riproponendo un estratto dell’autobiografia Prove di autoritratto (con Sebastiano Mondadori, Mimesis Edizioni, 2020)

Mio padre Nino venne a sapere della mia nascita con due mesi di ritardo nel campo di prigionia dove si trovava in Polonia. Per celebrare l’avvenimento, i suoi compagni gli prepararono una torta con le bucce di patate bruciacchiate. Era stato catturato dai tedeschi l’8 settembre. Avrebbe tentato la fuga dal campo in due occasioni, ma era stato ripreso. Trascorse più di una notte con la certezza di essere fucilato all’alba del giorno dopo. Fu un’esperienza di cui avrebbe parlato raramente nel corso degli anni, che gli lasciò forse una traccia in un tic facciale.
Io ero nato a Roma il 31 ottobre del ’43. Mia madre Maria si trasferì subito da casa sua a San Giovanni in via Slataper, dove abitava la grande famiglia di mio nonno paterno Salvatore, da cui presi il nome. Intanto mio padre era riuscito a fuggire grazie alla falsa adesione alla Repubblica di Salò. Fece perdere le sue tracce e arrivò fortunosamente a Milano, funestata dai ritmici bombardamenti di Pippo, il leggendario aviatore notturno.

Dopo la Liberazione riuscì a raggiungerci a Roma. Mamma lo scambiò per un nero per tutto il fumo che aveva in faccia, dopo giorni e giorni di viaggio su camion scoperti. Avevo due anni quando mio padre mi vide per la prima volta. Mi guardò perplesso e disse di tagliarmi i boccoli dei capelli: “Immediatamente”. Così mi ha raccontato mia madre.
Prima della guerra mio padre aveva lavorato qualche mese in banca a Roma dopo aver ottenuto una laurea in statistica. Era già tornato a Milano, quando mamma e io lo raggiungemmo alla fine di un lungo viaggio accompagnati dal commendator Hiebsch su una 2005 Alfa Romeo. Hiebsch era un tedesco magiaro, il proprietario della piccola azienda in cui aveva cominciato a lavorare mio padre. Andammo a vivere in viale Lombardia, che allora era in periferia, perché si trovava vicino alla sede della Menini, l’azienda dove lavorava mio padre. Si occupava di ricambi automobilistici e avrebbe avuto molta fortuna a cavallo tra agli anni Cinquanta e Sessanta.
In quel periodo vivevamo in coabitazione con un’altra famiglia in cui c’era un ragazzo di diciotto anni, un adulto ai miei occhi di bambino. Si chiamava Renzo e con la sua grande abilità manuale costruì una capanna di Natale per il presepe che accompagnò la mia famiglia negli anni. I miei erano credenti in modo molto sobrio, in un certo senso più pietista che cattolico. Erano molto liberali nei confronti miei e di mio fratello Alberto, che nel frattempo era nato nel ’46. Mantennero sempre un rispetto discreto nei confronti delle nostre idee riguardo alla fede come alla politica. Mentre mio fratello è stato per tutta la sua vita un credente, durante l’adolescenza io mi allontanai definitivamente dalla fede, ma il comportamento da parte dei miei genitori fu sempre esemplare, ispirato a una sorta di principio di uguale rispetto. A loro devo gratitudine. E non solo per questo.

Credo che questa infanzia e poi giovinezza vissute tra noi quattro abbia condizionato la mia idea di famiglia ristretta a una dimensione nucleare. Avevamo rapporti sporadici, anche se belli e significativi, con i parenti di Roma dove vivevano le famiglie dei miei genitori.
I miei primi ricordi risalgono agli anni delle elementari alla scuola Leonardo da Vinci vicino al Politecnico in zona Città Studi, un edificio di solenne monumentalità in cui mi presentai intimorito col grembiulino e il fiocco. Era il 1949. Rimasi lì quattro anni, alla fine dei quali i miei genitori decisero di farmi saltare la quinta. Così mi presentai a settembre agli esami di ammissione alla scuola media. Fu in quarta che ebbi il primo incontro con l’immagine della morte. Il maestro Olimpo entrò in classe e ci disse: “Purtroppo il vostro compagno Augusto Cagnacci non è più con noi”. Era molto bello, biondo con gli occhi azzurri. Venne stroncato dalla leucemia, come ci spiegò il maestro dilungandosi in particolari e immagini molto crude.
Negli anni delle elementari mi appassionai moltissimo agli esercizi di calligrafia. Avevamo il banco con il calamaio e la penna col pennino che si cambiava. Mi piaceva da morire scrivere marcando il foglio con il pennino che si apriva un po’ come in grassetto, oppure premendolo leggermente per ottenere un filo sottile d’inchiostro. Probabilmente questa prima passione è all’origine di due interessi che mi avrebbero inseguito fino ai diciott’anni, influenzando la mia scelta degli studi universitari. Da un lato, sentivo una profonda fascinazione per i miti greci e, dall’altra, una passione per i numeri. Così, almeno, mi sembra di poter dire.

La mitologia greca, con tutto il suo sterminato repertorio di dèi, ninfe ed eroi, veniva alimentata dalle letture appassionate dei libri divulgativi per bambini. L’amore per i numeri non era dovuto tanto a una vocazione che negli anni mi accorsi di non avere, quanto piuttosto all’eleganza e alla precisione richieste dall’aritmetica che si studiava allora. Nel fare i calcoli – addizioni e sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, la teoria degli insiemi allora non si studiava – era fondamentale scrivere bene le cifre per non sbagliare. E se eseguivi bene tutti i calcoli, raggiungevi un risultato certo. Coi numeri, pensavo, non c’è una via intermedia tra il vero e il falso.
Fin da allora i miei interessi sono oscillati tra strumenti formali che ti consentono di verificare o falsificare qualcosa, e linguaggi di carattere ermeneutico, interpretativo, legati a narrazioni. Forse, l’origine dell’interesse per l’indagine filosofica, l’unico interesse costante del mio impegno intellettuale, affonda le sue radici in questo duplice amore per i numeri e gli dèi, due passioni per discipline in cui in fondo ho fallito. Se nella matematica forse ha inciso il livello mediocre dell’insegnamento impartito al liceo classico, sul versante narrativo avrei insistito a lungo prima di desistere.

Si chiamava Aktor, un fenicio rappresentante di bronzo, il protagonista di un romanzo di cui scrissi una quarantina di pagine. In precedenza mi ero cimentato con le tragedie greche, affascinato dalla saga degli Atridi – Atreo, Agamennone, Oreste. Ricordo che ero rimasto molto colpito da uno sceneggiato tratto dalla Fedra di Racine che vidi per caso alla televisione.
Tutte le tragedie le scrivevo a mano, quindi mio padre le dava alla sua segretaria per batterle a macchina e farle rilegare. Forse fu per l’impegno che la segretaria gli sottraeva, che papà un giorno mi regalò una Olivetti 22 con la quale cominciai a scrivere i viaggi nel Mediterraneo di Aktor. Per rendere verosimili le vicende, mi documentavo con grande cura. Cercai per esempio di stabilire i tempi di percorrenza delle rotte in barca a vela, studiai il rapporto tra miglia e nodi. A un certo punto però mi resi conto che non era il caso di andare avanti. Tuttavia, forse, il mio stile filosofico è rimasto segnato da questa continua relazione tra il controllo analitico dell’argomento e la passione per la narrazione, per la storia entro quello straordinario repertorio di possibilità e alternative in cui consiste la tradizione filosofica. Perché la ricerca filosofica non può sfuggire alla propria storia nel tempo, come mi avrebbe detto John Searle. I numeri e gli dèi hanno trovato il loro modo di sopravvivere.

A preparare l’esame di ammissione alle medie mi aiutò mia mamma, una donna di cui ho imparato ad apprezzare le straordinarie virtù nel corso del tempo. Quell’estate eravamo ancora sull’Adriatico, che presto avremmo abbandonato per il Tirreno, sulla spiaggia tra Bellaria e Igea Marina nella seconda metà di agosto, quando la gente cominciava a rientrare in città. Davanti al mare, su una spiaggia ormai quasi deserta, le ripetevo italiano, storia, geografia e matematica – erano poche le materie d’esame.
Dopo aver passato l’esame, mi aspettavano i nuovi compagni. Erano tutti maschi, non solo più grandi di me di un anno se non un anno e mezzo, ma anche molto più grossi fisicamente: questa vistosissima differenza mi valse il soprannome di Vechino. Rispetto alla solennità della Leonardo da Vinci, le medie di via Tadino erano una classica scuola del Regno, un edificio un po’ anonimo ma dignitoso, vicino alla nuova casa di via Stradella in cui ci eravamo trasferiti.
Fu in prima media, alle prese con i miei compagni più alti e grandi di me, che si manifestò il mio personale modo di giocare a calcio, già allora e da tempo un rito collettivo. Durante la ricreazione in cortile provai a unirmi ai miei compagni, quasi tutti bravissimi, con esiti desolanti: “Vechino non ha ancora capito che non è la palla che deve seguire lui, ma è lui che deve seguire lei”. Questa sentenza, che anticipava con sottile eleganza di alcuni decenni le future pratiche del bullismo, fu la pietra tombale sul mio rapporto col pallone.
Non però con lo sport, che ho sempre affiancato all’impegno forzato in palestra per via dei piedi piatti. Nel mio apprendistato sportivo ricordo di aver praticato tennis ed equitazione, sci, scherma e judo, oltre al nuoto che, a differenza degli altri sport, è diventato una passione della mia vita legata all’amore persistente per il mare.
Il mio rapporto con gli sport seguiva un decorso inesorabile, in cui eccellevo nella prima fase, per poi crollare miseramente in quella successiva. A cavallo imparai subito il trotto ma il galoppo non mi veniva, a judo presi velocemente la cintura gialla senza arrivare più al colore successivo, e così con lo sci, dove mi fermai più o meno allo spazzaneve o col fioretto, in cui mi limitavo alla parata senza rispondere.

Allora i miei genitori mi sembravano lontanissimi nel tempo di vita. Quando mio padre compì cinquant’anni lo vedevo come un uomo compiuto. Curiosamente, questa distanza molto più netta tra genitori e figli rispetto a oggi favoriva un passaggio generazionale più naturale mantenendo la continuità della memoria. Io stesso nel corso degli anni ho intrattenuto rapporti significativi con persone della generazione dei miei genitori. Norberto Bobbio addirittura era del 1909, Enzo Paci del ’10, mentre mia madre del ’15 e mio padre del ’16. Ma poi sarebbero venuti Alessandro Pizzorno e Vittorio Foa, Paolo Grassi e Giorgio Napolitano, tutti più grandi di me, alcuni maestri di cui in seguito sarei diventato collega o amico. Allora il testimone nella staffetta generazionale era oliato. Gli atteggiamenti critici non impedivano la trasmissione delle tradizioni, nel senso di storie che diventano memorie condivise. Come ci insegna Carlo Ginzburg, la storia ci allontana mentre la memoria ci avvicina. E, forse per questo, restava allora l’eco del verso di Baudelaire: “J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”.

La prima grande figura significativa incontrata nell’esperienza dello studio è stata Maria Bertin, la mia professoressa di lettere in tutti e tre gli anni di scuola media. Era la moglie di Giovanni Bertin, un importante pedagogista italiano che insegnava all’Università di Bologna ma che si era formato nel gruppo della cosiddetta Scuola di Milano. Intorno alla personalità carismatica di Antonio Banfi, che io non ho conosciuto personalmente, ruotavano filosofi come Remo Cantoni ed Enzo Paci, Dino Formaggio e Fulvio Papi, poeti come Vittorio Sereni e Antonia Pozzi, l’editore Alberto Mondadori e in parte lo storico delle idee Paolo Rossi Monti, che si divideva tra Banfi a Milano ed Eugenio Garin a Firenze.
Grazie a Maria Bertin ho scoperto il fascino della letteratura e soprattutto del latino. Allora alla fine dei tre anni di medie si sviluppava una competenza piuttosto rilevante della lingua, soprattutto dal punto di vista grammaticale e sintattico. Il latino mi affascinò in modo anche eccessivo. Per concisione e potenza espressiva, ho sempre associato il latino all’inglese. Al contrario il tedesco, forse per la ricchezza delle declinazioni e la presenza degli articoli, lo associo al greco, così sinuoso, pieno di strane particelle che colorano la frase. (Naturalmente, la mia associazione intuitiva fra greco e tedesco non ha nulla a che vedere con le leggende metropolitane di Heidegger sulla faccenda delle affinità fra le mitiche lingue filosofiche. Visti i rapporti lavorativi di papà con la Germania, il tedesco l’avrei studiato come prima lingua e, per un certo periodo, seguii le lezioni private dalla signorina Englert che cominciò audacemente con una poesia di Goethe, di cui ricordo ancora alcuni versi. Credo si trattasse del Prometeo.

La vera lezione di Maria Bertin fu il metodo. Mi insegnò a imparare a imparare. Fu una scoperta che rientra in quelle che chiamo esperienze generative. Grazie a lei, approfondire tutto ciò che mi insegnava divenne un’abitudine, una forma inesauribile di ricerca. Questa propensione ha a che vedere con il principio aristotelico secondo cui quanto più ti misuri con sfide intellettuali più complesse, tanto più fiorisci come persona.
Molti anni più tardi, quando ormai ero professore ordinario, l’avrei incontrata in una conferenza a Bologna. Fu lei ad avvicinarsi alla fine del mio intervento: una signora minuta coi capelli bianchi ben tenuti.
“Veca, non ti ricorderai di me, sono Maria Bertin.”
Invece la ricordavo molto bene. Senza smettere di darle del lei, chiacchierammo piacevolmente, mi raccontò del figlio fisico a Ginevra, e rimanemmo in contatto per un certo periodo.

Più o meno quando avevo sette e mio fratello Alberto cinque anni, ci inventammo Zizzopoli, il nostro regno segreto. Passavamo interi pomeriggi a immaginare e delineare questo mondo su cui regnava il famoso re Zizza. Prima a voce, e poi disegnando delle mappe, creammo città e ci inventammo leggi, usi e costumi di questo universo parallelo. Con un amore discreto ma sconfinato, papà portava le nostre carte e le nostre bizzarre narrazioni in ufficio dove la sua segretaria – la stessa che anni dopo avrebbe battuto a macchina le mie tragedie e le nostre tesi di laurea – le fotocopiava e realizzava graficamente bizzarre carte geografiche su cui noi inscrivevamo le storie di Zizzopoli. Fu un gioco che portammo avanti per almeno tre anni, un gioco quasi segreto – papà e la sua segretaria sapevano… – che consolidò il nostro rapporto.
Malgrado i due anni di distanza, che dal punto di visto scolastico diventavano tre, eravamo due fratelli molto uniti. Durante le vacanze di Natale o di Pasqua venivamo mandati per dieci giorni in collegi svizzeri – una volta a Montana Zugerberg vicino Zurigo, un’altra nella Svizzera francese. Erano esperienze formative, che rafforzavano il nostro legame e ci fecero conoscere le famose suppe. Grazie a quei soggiorni imparammo a mangiare qualsiasi piatto ci venisse servito, pur rimpiangendo in cuor nostro la cucina di casa.

Salvatore Veca, Prove di autoritratto (Mimesis Edizioni, 2020)

Qualche anno più avanti, quando lui stava finendo il liceo e io ero già all’università, Alberto mi avrebbe insegnato la musica classica, di cui era un finissimo conoscitore. A pranzo e a cena, prima di sedersi a tavola aveva conquistato il tacito permesso da parte di mio padre – molto rigoroso nel rispetto delle regole – di scegliere tra i nostri dischi quale musica avremmo ascoltato. L’ascolto di Beethoven e Brahms, Haydn, Mozart e Berg, Mahler o Bartók, e tante opere liriche mi permise di acquisire un po’ alla volta una dimestichezza con la musica classica che fino ad allora non conoscevo, mentre avevo sempre avuto un rapporto estemporaneo con le canzonette – fatta salva la passione per Michelle. Devo a quelle nostre cene l’abitudine condivisa con Alberto, che poi ho mantenuto per tutta la vita, di lavorare ascoltando la musica. Ho scritto per anni con la quinta di Mahler come con il cd della colonna sonora dei Blues Brothers.

Mia mamma si era diplomata in pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia, quindi per lei era naturale mettermi da piccolo davanti a una tastiera. Avevo non più di sei anni la prima volta che venni a contatto con il leggendario strumento musicale e incappai nello stesso fatale meccanismo degli sport: dopo un folgorante inizio di due, al massimo tre lezioni, mi rivelavo un disastro. E così accadde prima col pianoforte e poi con la chitarra classica, contravvenendo alla giusta convinzione di mia madre secondo cui era fondamentale l’educazione musicale per un ragazzo o una ragazza.
A peggiorare la situazione, non avevo alcun orecchio. Eppure ascoltavo musica. Musica di tutti i tipi, dalla classica alle canzonette passando per il jazz. E improvvisamente, solo a trent’anni divenni intonato, con una particolare predilezione per il Don Giovanni di Mozart. La scena finale in cui appare il Commendatore sarebbe divenuta un mio pezzo forte, con cui avrei ossessionato Marco Mondadori nelle traversate dell’Italia in macchina verso l’Università della Calabria ad Arcavacata di Rende. Ricordo ancora una volta, molti anni più tardi, in cui mi impegnai in un duetto non male con Adriana Cavarero a Verona.

Come tutte le famiglie di allora che ce la facevano, i nostri genitori cercavano di alternare il mare alla montagna. In montagna andavamo in Cadore, a Bormio, oppure in un paese vicino al lago di Molveno dove ricevevamo le visite dei parenti da Roma. Un posto particolare lo occupa mio nonno Salvatore, che arrivava con la nonna Elvira, un’aristocratica decaduta meridionale. Il nonno era stato un alto dirigente ministeriale ed era una persona di grandissima cultura. Si era laureato alla Federico II di Napoli in teoria della cooperazione economica. Prese la lode con dignità di stampa. Anni dopo, quando ero già professore e mi occupavo proprio di questi problemi, alla fine della lezione uno studente mi chiese scherzando se fossi io l’autore di un libro sulla teoria della cooperazione: “Complimenti, porta bene la sua età avendolo pubblicato nel 1902”.
Stava alludendo alla tesi di mio nonno, pubblicata e catalogata nella biblioteca della Federico II.

Nonno Salvatore era una persona profondamente credente, animata da una fede sobria, quasi discreta, che avrebbe trasmesso al figlio, coltivando uno spirito di grande liberalità, la stessa liberalità che si respirava a casa nostra a Milano.
Era un bell’uomo biondo con gli occhi azzurri – una bellezza normanna – abilissimo a insaponarsi la faccia col pennello e poi con movimenti secchi e precisi a radersi con la lama ben affilata del rasoio. Io assistevo al rito. Lo guardavo inebriato dall’odore pungente della crema da barba: trovavo prodigiosa la trasformazione del volto da com’era all’inizio a quando riemergeva pulito e sorridente dopo essere stato sommerso da tutta quella schiuma bianca.
Seguivo la scena con cura e con una seria attenzione. Me lo disse una volta, anche se non so perché, forse per lo sguardo assorto e pensoso con cui lo guardavo radersi, mentre faceva scorrere la lama lucente lungo la guancia: “Salvatore, tu farai il filosofo”.



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