Il 2 Ottobre 1968 a Tlatelolco, Città del Messico, dopo lunghi mesi di manifestazioni e proteste portate avanti dal movimento studentesco, migliaia di studenti protestarono contro l’occupazione del campus ordinata dal presidente Gustavo Dìaz Ordaz e quella stessa notte si raccolsero in Piazza delle Tre Culture per manifestare il loro dissenso, alla vigilia della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi, trovandosi protagonisti di una tragica repressione.
Le forze militari e politiche con mezzi blindati e da combattimento circondarono la piazza e aprirono il fuoco, puntando le armi sui manifestanti. Il massacro di Tlatelolco generò una ferita che il Messico non ha ancora superato e registrò oltre 300 vittime, tra tutti i manifestanti.
In occasione dell’anniversario del massacro di Tlatelolco, su Scenari proponiamo un estratto dal libro ’68 (Mimesis Edizioni, 2021) di Paco Ignacio Taibo II, un’appassionante memoir sulla stagione di contestazione in Messico dalla nascita del movimento di protesta, con l’occupazione di scuola e università, fino alla repressione dello Stato e al sanguinoso epilogo.
Persino i bugiardi sanno la verità
Il 30 settembre l’Esercito abbandonò le infrastrutture universitarie. Il governo si aspettava che il movimento avesse imparato la lezione e che lo sciopero sarebbe stato interrotto. Il 1° ottobre le assemblee votarono a favore di continuare lo sciopero e pretesero che venissero liberate le scuole dell’IPN. Il movimento possedeva un’incredibile capacità di recupero. Aveva creato in due mesi migliaia di quadri, migliaia di oratori. Non appena trovava uno spazio dove poter agire lo occupava, ricostituiva le proprie forze, si riorganizzava, e tornava alla carica con la diffusione e la propaganda.
Il 2 ottobre, l’Esercito attaccò il comizio a Tlatelolco. È una storia conosciuta. Il massacro è stato raccontato un’infinità di volte. Il tentativo di falsificare la storia messo in moto dalla macchina governativa pochi istanti dopo che i primi studenti erano stati abbattuti dai proiettili, obbligò a una risposta. Ed ecco dunque la seconda parte del libro di Elena Poniatowska e le migliaia di poesie su Tlatelolco. Eccole lì fissate per sempre le risposte alla versione fraudolenta del generale Crisóforo Monzón, responsabile in un comunicato ufficiale di aver detto che l’Esercito era intervenuto per ristabilire l’ordine nel bel mezzo di una sparatoria tra studenti. Eccola lì la verità contrapposta alla versione ufficiale diffusa dalla grande commissione del Senato che sosteneva fossero stati gli studenti ad aprire il fuoco. Oggi tutti sanno che i provocatori erano soldati in abiti civili e con un guanto bianco, appartenenti al battaglione Olimpia. Oggi tutti sanno che il segnale perché cominciasse la sparatoria e l’Esercito iniziasse ad aprire il fuoco sulla massa disarmata fu dato dai bengala lanciati da un elicottero militare… Oggi, persino i bugiardi sanno la verità. Ma è una magra consolazione che la versione dei sopravvissuti sia riuscita a prevalere su quella ufficiale
Ogni colpa pesa sulla coscienza del sottoscritto e per sempre
Arrivai a Madrid all’alba del 2 ottobre. In paseo de la Castellana comprai il giornale. Un’enorme fotografia mostrava i soldati che sparavano a Tlatelolco. Persi la voce. Mutismo isterico, lo chiamò il medico. Il medico non sapeva che il movimento mi aveva castigato facendomi diventare muto. Io non avevo il diritto di parlare, perché non ero stato lì, insieme ai vivi e insieme ai morti.
Per anni ho dato la colpa a mio padre per avermi mandato via dal Messico. Mi sono dato la colpa per aver ceduto alle sue pressioni, alle sue soffiate secondo cui al ministero dell’Interno avevano un enorme dossier aperto su di me. Alla paura che avevo allora perché ero straniero. Per anni ho dato la colpa a mio padre, a me stesso, a chiunque. Non essere stato presente a Tlatelolco era molto peggio che non essere morto. Poi ho smesso di dare la colpa a Taibo senior. Il senno del boss probabilmente mi aveva salvato la vita. La colpa non era sua, era mia. Non serve a niente dire che avevo diciannove anni. Quella non è una scusante. Proprio per quel motivo, perché avevo diciannove anni, sarei dovuto rimanere. “Il suo compito, se accetta,” come dicono quelli di Mission: impossible “è dire di no”. Io non l’ho detto. Rimanere. E io non ero rimasto. Anche se sono tornato. Abbandonai Madrid due giorni dopo e tornai in facoltà.
Tutto è Tlatelolco e il resto solo un aneddoto
Disgraziatamente, nel corso del tempo, il 2 ottobre, con la tremenda forza dei nostri quattrocento morti, molti dei loro cadaveri anonimi, gettati da aerei militari nel Golfo del Messico quella stessa notte, con le immagini dei feriti trascinati via per i capelli, immortalate per sempre da una fotografia, con il ricordo del sangue sul suolo bagnato, con la retina invasa per l’eternità dalla luce dei due bengala che avevano dato inizio al massacro, con le storie degli ospedali presi d’assalto da agenti della polizia giudiziaria che davano il colpo di grazia ai feriti, è rimasto isolato.
Il 2 ottobre sostituisce nella memoria i cento giorni di sciopero. Il ’68, grazie alla magia nera del culto alla sconfitta e ai morti, si riduce a Tlatelolco. Forse perché non ero lì, e ho visto la piazza nei resoconti di Santiago Flores, a cui i proiettili avevano perforato una gamba, nel silenzio dei ceri e dei fiori appoggiati a terra il 2 novembre, un mese più tardi; con gli occhi della legione di anonimi narratori che noi eravamo, forse per questo motivo sono riuscito a sottrarmi al maleficio. Il movimento era tutto il resto. E non si fermava.
Si specifica che le barricate erette finiscono direttamente nella memoria
Il massacro terrorizzò i genitori, fece impazzire i figli, ci mise per la prima volta sulla difensiva. Ora sì, per davvero. La direzione del movimento, noi quadri formati negli ultimi quattro anni di lotte studentesche, i dirigenti naturali spinti in strada dall’insurrezione sessantottina, eravamo decimati. In carcere c’erano in quel momento un paio di migliaia di studenti. Alcuni dei più in vista, riusciti a scampare agli arresti di massa nella Ciudad Universitaria e all’attacco al Casco e a Zacatenco, non imprigionati il 2 ottobre, non feriti o morti, si esiliavano o dovevano ripiegare su forme di una militanza clandestina isolandosi dalle basi studentesche. L’emorragia era tremenda, i settori politicamente meno solidi si tiravano indietro e restavano in attesa. Dieci o dodicimila folli cercarono di mantenere in piedi il movimento con brigate che si occupavano dell’informazione, con comizi che potevano costare la vita all’oratore, con conferenze stampa dalla Casa del Lago nel parco di Chapultepec. Si impose di fatto una tregua che sarebbe durata sino alla fine delle Olimpiadi.
Come furono quei giorni per noi che non eravamo dentro? Sapevamo che nel campo militare numero 1 i detenuti erano stati torturati, che i nostri compagni, i nostri dirigenti, i nostri amici, quelli che avevano condiviso una porzione di suolo con te per dormire e un’ultima bibita e una sigaretta, erano stati sfigurati a suon di percosse, fucilati con scariche a salve, manganellati, affogati negli abbeveratoi pieni di acqua sporca delle stalle, castrati.
Infiltrati e delatori giravano a piede libero. Le torture erano notizie continue che trapelavano fra le maglie della rete della paura, grazie soprattutto ad avvocati e parenti. A vari dei nostri dirigenti erano state strappate confessioni fantasmagoriche sulla genesi e la realtà del movimento. La maggior parte di loro non si era lasciata piegare. Erano i nostri detenuti. Così assolutamente legati alle nostre vite che era soltanto un caso che loro fossero dentro e noi fuori; erano lì per noi, tenevano in caldo la brandina lì accanto in attesa che noi arrivassimo a occupare quel vuoto, e nel frattempo noi tenevamo in caldo il loro posto per quando sarebbero tornati. Tra chi era fuori e chi era dentro c’erano un mare di storie d’amore, di cameratismo, di fraternità, di colpa, di debito sacro da togliere il fiato. Nonostante i nostri diciassette, diciannove, venti, venticinque anni, eravamo dannatamente responsabili, ci eravamo caricati sulle spalle un mondo schifosamente pesante.
Verso fine ottobre emersero le tre richieste alla base delle nostre azioni nel mese successivo: libertà incondizionata per i prigionieri, restituzione delle scuole e facoltà, fine della repressione. Il governo cedette le scuole e le facoltà; sperava che gli studenti optassero per la resa. Nei primi giorni di novembre le scuole e le facoltà, un’assemblea dopo l’altra, ostinatamente, votarono di nuovo a favore di mantenere lo sciopero. Non volevamo tornare in classe senza i nostri prigionieri.
Andarsene ma anche rimanere
Dormivamo in camera mia, nella casa di famiglia del rione di Roma: René Cabrera, il miglior poeta della mia generazione, quello che aveva scritto: “Non è necessario dire che ci avviciniamo di più per allontanarci di più”, Jonathán Molinet, meglio conosciuto alla “Prepa 1” come “el Hombre Lobo”, e io. Dormivamo a turno. Uno dei tre restava a osservare la strada dalla finestra, pronto a dare l’allarme. Avevamo più o meno organizzato una via di fuga saltando da una terrazza all’altra nel caso fossero venuti a prenderci in piena notte. Gli atri due dormivano. Io e René parlavamo nel sonno. “El Hombre Lobo”[1] diceva che dialogavamo di stronzate mezzo incoerenti, che mentre dormivamo profondamente uno diceva qualcosa e l’altro rispondeva. Io ero sicuro che avesse ragione. Le giornate non bastavano per raccontarci storie. Storie terribili, di inseguimenti, di ulteriori arresti, di torture. Credo che tutti parlassimo nel sonno in quel mese di novembre.
Consegnai la mia giacca blu a quadri a Mario Núñez e lo vidi partire alla volta dell’esilio insieme a Marcelino Perelló e Guillermo Fernández. Erano tra i dirigenti studenteschi più ricercati dalla polizia. Si erano salvati per puro caso. Io non avevo un posto dove andare e non sembravo importare poi più di tanto alla legge. Già me n’ero andato via una volta. Rimasi sveglio una notte ogni tre, insieme a “el Hombre Lobo” e René, a vigilare la strada. In attesa che arrivassero le auto nere con l’antenna che non arrivarono mai.
I morti
Lourdes abitava dietro l’aeroporto. Era una tipa seria, austera, tragica, dotata di una poco comune autoconsapevolezza che la vita ti maltratterà sempre. Eravamo stati compagni alla “Prepa”. Mi trovò grazie ad altri, nella casa dove stavo nascosto. Un messaggio criptico: dovevo incontrarla nella terza fila del cinema París, seconda proiezione. Non ricordo il film. Non ricordo nemmeno bene i lineamenti di Lourdes. Aveva i capelli ricci. Sembrava di un’altra generazione, di un’altra epoca, una donna tipica degli anni Cinquanta. Anni dopo si unì alla guerriglia e la fecero sparire. Nel cinema si avvicinò e mi disse all’orecchio: “Ho le foto dei morti”.
Sapere era molto pericoloso. I morti erano gli assassinati a Tlatelolco, i cadaveri desaparecidos. Accordammo un secondo incontro, io avrei dovuto riunire un gruppo di giornalisti stranieri. Lei uscì dal cinema prima di me. Non le domandai come aveva ottenuto le fotografie, immaginavo si fosse introdotta con una macchina fotografica nell’aerodromo militare dietro casa sua. Si diceva che un aereo militare fosse partito la notte del 2 ottobre per gettare i cadaveri nel Golfo del Messico. Non solo li avevano assassinati, ma avevano anche fatto sparire i corpi.
Due giorni più tardi aspettai Lourdes davanti al Monumento alla Madre. Sotto un sole con i controcazzi, così poco aristotelico, come diceva Alejandro Zendejas, un altro dei nostri poeti. Lourdes non si presentò mai all’appuntamento. L’avevano arrestata.
[1] L’Uomo Lupo. [N.d.T]