And the fool
On the hill
Sees the sun goin’ down
And the eyes in his head
See the world spinning round
Paul McCartney, The Fool on the Hill
“Io è un altro”. Da quando Arthur Rimbaud scrisse questa frase, nella famosa “lettera del veggente” indirizzata a Paul Demeny, si è simbolicamente riacceso, nel pensiero occidentale, un interesse per l’alterità e l’estraneità che gli eventi storici della Seconda Guerra Mondiale avrebbero ulteriormente acutizzato. Alterità ed estraneità: due termini vicini ma tutt’altro che sinonimici, che non si esauriscono neanche in una progressione. In apparenza, tutto ciò che è estraneo è altro da sé, ma non tutto ciò che è altro è estraneo; eppure, proprio l’aforisma di Rimbaud testimonia quanto, per le coscienze più vigili, lo stesso io, la stessa egoità può risultare straniante.
Itinerari sull’estraneità se ne possono fare parecchi, nella filosofia del Novecento – molti meno per i secoli precedenti di pensiero europeo, e già questo è profondamente indicativo. Se ne trovano certamente tracce in Emmanuel Levinas, Paul Ricoeur, Jacques Derrida e, entro certe misure, nello stesso Theodor W. Adorno. Volendo semplificare, si può dire che un importante punto di avvio, o quantomeno di ripartenza, è stato dato da quell’espressione fortunata di Rudolf Otto, “Totalmente Altro”, apparsa per la prima volta nel 1917: ma sarebbe ingenuo trascurare l’importanza che ai fini di un discorso sull’alterità ha avuto l’inconscio freudiano, teorizzato già da due decenni ai tempi de Il sacro di Otto. Ma in questa costellazione vale la pena fare anche il nome di uno scrittore come H.P. Lovecraft, attivo fra il 1917 e il 1937, che nei suoi racconti e romanzi horror ha tratteggiato con violenta nitidezza quanto l’estraneo possa essere onorifico e, in ultimo, letale.
Nella letteratura del Novecento, il primo a strutturare in maniera costante un vissuto di estraneità, sia pure spesso in termini esasperati ed allegorici, è stato senza dubbio Franz Kafka, ma è solo con il cosiddetto Esistenzialismo letterario che il tema assume una narrazione corale a livello di movimento. È imprescindibile a questo punto un riferimento a Lo straniero di Albert Camus, ma è l’estraneità uno dei maggiori fil rouge di tutta la produzione esistenziale di matrice esistenzialista, molto più dell’impegno politico che pure riunì molti degli autori di questo significativo filone della cultura europea. L’estraneità, nell’esistenzialismo degli anni cinquanta-sessanta, va intesa in un duplice senso: da un lato, l’estraneità del singolo nei confronti di tutto ciò che lo circonda, dalla società agli altri membri della propria famiglia o cerchia, fino ad arrivare agli oggetti domestici stessi, secondo una modalità che rivifica, in senso negativizzante, quella “rivolta degli oggetti” di majakovskijana memoria; dall’altro lato, con l’esistenzialismo questo sentimento di estraneità viene sempre più rivolto verso sé stesso, al punto che la coscienza narrante, per molti di questi romanzi in prima persona, si trova in una posizione particolarmente impervia: separata da un lato da tutto ciò che la circonda, ma anche dal corpo e dall’identità stessa che la sostiene. La separazione è la consapevolezza ora implicita più spesso esplicitata di tutti i principali autori dell’Esistenzialismo di metà secolo: e una simile categoria critica potrebbe essere applicata anche ad altri autori di pochi anni successivi che hanno in maniera diversa e forse anche più suggestiva indagato ugualmente i caratteri ultimi dell’esistenza umana – in primis Beckett, nel cui corpus teatrale e radiofonico assume valore strutturante lo slegamento tra l’uomo e le sue aspettative, tra l’uomo e il suo linguaggio.
Il radicale esito dell’esistenzialismo letterario e dei suoi corollari stava nel fatto che esso postulava e faceva luce sull’estraneità come condizione fondamento dell’esistenza. L’interesse degli scrittori esistenzialisti verso le varie nausee e noie, questo costante patologizzare l’esistente, non era un interesse per lo stato estremo, dal quale dedurre, per attuazione, la normalità di un esistere più o meno autentico. Con una battuta, potremmo dire che una delle esperienze fondamentali dell’esistenzialismo letterario è la scoperta – l’autodiagnosi – dell’inorganico presente nell’organico. Si è vivi, fatti di sangue, carne e ossa ahimè coscienti di sé, ma proprio per questo non si è immersi in nessuna totalità organica, organizzata e organizzante: si vive nella mancanza di senso, ma ancor di più si vive a prescindere da ogni senso, a monte di ogni significazione.
I vissuti di estraniazione che tante volte i vari Moravia e Sartre hanno identificato e tipizzato possono essere davvero interpretati, e a buon diritto, come una messa in pratica di quell’”esistenza autentica”, nel senso anche heideggeriano del termine: con la sua prospettiva sovrastorica e sovraindividuale Heidegger probamente non sarebbe d’accordo con questo accostamento, ma a ben vedere il cosiddetto esistenzialismo filosofico di Heidegger e l’autodefinitosi esistenzialismo letterario dei vari Camus, Sartre e Moravia, e perché no anche di un regista come Antonioni, si completano a vicenda.
È proprio nel far luce su ciò che di patologico si colloca nella sfera dell’esistenza che si coglie però una prima e fondamentale differenza tra Heidegger e gli autori esistenzialisti – tant’è che il filosofo tedesco avrebbe sempre rifiutato quella definizione di “esistenzialista”, che da più parti gli veniva imposta. L’ontologia non è un semplice “discorso sull’essere”: è una scienza sui caratteri universali dell’ente. L’esistenzialismo si colloca su una prospettiva più bassa: è un discorso sull’esistente, e, prediligendo spesso la prima persona, pur parlando di sensazioni che non sono universali bensì generali, l’esistenzialismo si concentra al contrario su un esistente individuale.
La questione in ultimo si chiarifica in una tensione etimologica. Tutto si risolve nel significato profondo, e nascosto, del termine “esistenza”, exsistentia. Ed è in particolar modo interessante osservare come lo stesso Heidegger, un pensatore attentissimo alle etimologie che sul suo approfondimento dell’alètheia come svelatezza ha costruito l’atto centrale della sua carriera, rispetto al termine esistenza sembra attestarsi a un livello di approfondimento meno originario di quello che è il retroterra semantico del concetto di esistenza. Che a una lettura radicale si rivela molto più vicino al concetto di estraneità di quanto possa apparire a un primo sguardo.
Nel Nietzsche, ultima grande opera di Heidegger datata 1961 e atta tanto a indagare il pensiero postumo di Nietzsche quanto a operare una rilettura di tutta la tradizione occidentale all’insegna del nichilismo, appare con grande chiarezza il punto di partenza e – se vogliamo – i confini, di questa riflessione heideggeriana sull’esistenza. Non dobbiamo farci ingannare dall’affinità semantica: tra l’Essere ed esistenza, ermeneuticamente parlando, emerge un abisso ben più profondo di quello che, a un primo sguardo, si poteva sospettare. Ed è proprio parlando di abissi e di grotte che Heidegger rivela, e in maniera non del tutto esplicita e conscia, il suo pensiero sull’esistenza umano e il suo fondamento. Fondamento che, per come procede il modus pensandi del grande filosofo tedesco, non può che essere semantico – quindi ab origine lessicale -, inatteso, ontologico ed assolutizzato. Siamo nell’ottava parte del Nietzsche, sul finire del secondo volume, intitolata La metafisica come storia dell’essere. Heidegger sembra giungere alla conclusione che il pensiero occidentale rivela e riduce la storia dell’essere come “storia dell’ἐνέργεια, la quale si chiamerà più tardi actualitas ed exsistentia”, ma subito riprende a interrogarsi, sull’effettiva equivalenza fra questi tre termini classici. A questo punto subentrava una prima, fondamentale considerazione:
L’exsistentia conserva quel tratto fondamentale dell’essere che in generale ha ottenuto la sua conformazione nell’οὐσία (presenza)? Exsistere spelunca significa, in Cicerone, venire-fuori dalla spelonca. Verrebbe qui fatto di congetturare un più profondo riferimento della exsistentia come venire fuori e venire in luce con il venire fuori nella presenza e nella svelatezza. Allora la parola latina conserverebbe in sé un essenziale stato di cose greco. Non è così.
Qualche pagina dopo Heidegger ritorna sulla questione e chiarisce, continuando ad attingere a piene mani dalla tradizione aforistica filosofica latina:
Ex-sistentia è actualitas nel senso della res extra causas et nihilum sistentia, una efficienza che traspone qualcosa nel ‘fuori’ dalla causazione e dalla realizzazione nell’essere effettuato, e supera così il niente, cioè il mancare del reale… Fuoriuscendo da essa, ma fuoriuscendo di volta in volta soltanto da essa, il porre e mettere in piedi, il far- stare della ex-sistentia, è ciò che è. L’ex-sistentia è l’actus, quo res sistitur, ponitur extra statum possibilitatis. Questo actus è causalitas.
Quanto dice Heidegger è chiaro e, soprattutto nel primo paragrafo, suggestivo, ma, al tempo stesso, non sembra andare ad indagare veramente sullo strato originario di ciò che, in un ipotetico linguaggio fondamentale occidentale, il concetto di esistenza porta semanticamente con sé. Se vogliamo, questa riduzione dell’esistenza all’exsistere spelunca ciceroniano ben si presta a una visione attiva della vita e dell’agire umano: ma era stato Heidegger stesso, con quel conio felicissimo che era stato il suo Geworfenheit (“gettatezza”), ad evidenziare il carattere originariamente passivo e del tutto involontario dell’esistenza umana, a livello individuale ma anche di specie. Ciò che originariamente ed etimologicamente “esistenza” sta ad indicare lo si rivela semplicemente decostruendo il termine latino. Dividiamo nelle sue componenti ex-sistentia, vale a dire ex e “sistentia”, ovvero sto/stare: stare ex, stare “fuori da” o al limite “a partire da”. Consideriamo brevemente come anche un termine più specifico quale è estasi condivide con esistenza la stessa etimologia, ma specifica l’oggetto: estasi come fuori-da, fuori-da-sé. L’esistere in senso generale pare alludere invece a una separazione – termine caro a Levinas – più indefinita e più generalizzata, assolutamente originaria per l’appunto, che solo una lettura parodisticamente psicoanalitica potrebbe avere l’ingenuità di ridurre unicamente alla separazione dal corpo materno, di cui pure va tenuto conto.
C’è da dire che anche Heidegger si relaziona a questo fuori, che la radice originaria ex di esistenza lascia intendere, ma resta nei margini di questo extra statum possibilitatis in cui si ritrovano fusi assieme in un’eco comune Aristotele e Kierkegaard. Con Heidegger l’antico passaggio da potenza ad atto viene riformulato in termini moderni e con parole latine: basterebbero queste righe a dimostrare quanto, per come è strutturato o forse si è strutturato il pensiero filosofico occidentale, il continuo ritorno del già-detto rappresenti una costante a cui è difficile, se non impossibile, scampare – e che risulta quantomai problematico riuscire a contaminare con un’alterità, con un’estraneità proficua. Ma l’exsistentia come “stare-fuori” ha un carattere etimologicamente più originario e assoluto di quello che vi inserisce Heidegger. Il filosofo dell’Essere e tempo contrariamente al suo solito specifica quello che il termine inteso nella sua nudità etimologica lascia indeterminato; e l’impressione che se ne trae è che sarebbe ancora più proficua una lettura dell’esistenza assoluta e indefinita allo stesso tempo, di quanto già non lo sia l’usuale problematizzazione dell’esistenza come fuoriuscita dalla Possibilità e ingresso in un campo minato di ulteriori e contingenti possibilités.
Se l’esistenza è separazione, se l’esistenza va intesa in un senso affermativo ma privativo, lacerato, siamo evidentemente di fronte a una delle radici di fondo di ogni eventuale malessere umano che tutto un filone della nostra cultura intendeva come originario e incondizionato. Questa etimologia vale anche come parafrasi dell’Esistenzialismo letterario, se vogliamo: un incipit quale è quello de Lo straniero – “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti” – ma anche sensazioni e vissuti come quelli descritti da Moravia ne La noia – “il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza… ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità” – alludono chiaramente a una consapevolezza implicita di questa separatezza originaria. Il grumo di dolore originario proprio dell’umano, che grossomodo tutto l’Esistenzialismo letterario mira a raccontare e in alcuni autori a travalicare con l’impegno politico e/o con una rinnovata concezione dell’umanesimo, trova qui la sua spiegazione, ma anche degli echi culturali profondi – tutta la visione platonica della differenza tra il nostro mondo, e l’iperuranico mondo delle idee, così come l’idea cristiana della vita umana come pellegrinaggio terreno ed espiatica tentazione, in una svalutazione dell’esistenza come separazione trovano un ulteriore e implicito terreno comune. E questo si riallaccia compiutamente a quel movimento che Heidegger riconosceva nel rapporto della filosofia occidentale con la metafisica, che in quel Nietzsche a cui era dedicata la sua opera magna trovava fine e compimento.
Il pessimismo implicito e nascosto, nel termine esistenza, dice molto sul modo occidentale di stare al mondo, che da più parti e non solo dalla filosofia del Novecento viene indicato come al tempo stesso nichilista e sopraffattorio, sempre più legato a una tecnica tirannica. E se nei punti più alti del pensiero di Heidegger risulta centrale la differenza di “differenza ontologica”, quanto lui scrive in ottica ontologica sull’esistenza umana nel piano mondano potrebbe ritrovare una feconda, nuova interpretazione, alla luce della separazione. “La situazione emotiva rivela ‘come ci si sente’: nell’angoscia ci si sente ‘spaesati’” Qui trova espressione innanzi tutto l’indeterminatezza tipica di ciò dinanzi a cui l’Esserci si sente nell’angoscia: il nulla e l’in-nessun-luogo. Ma sentirsi spaesato significa, nel contempo, non-sentirsi-a-casa-propria”. Non-sentirsi-a-casa-propria: il valore epifanico dell’estraniazione – qualcosa di non lontano da quello che altri, più recentemente, hanno definito realismo depressivo. Da malessere interiore l’estraneità si può anche ribaltare in ideale regolativo ed eticizzante, come faceva Adorno in Minima moralia commentando Nietzsche: “fa parte della mia fortuna – scriveva Nietzsche nella Gaia scienza – non possedere una casa. E oggi si dovrebbe aggiungere: fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria”.
Adorno, assieme ad Horkheimer, sconvolto dall’Olocausto e dall’avvento del nazismo nella nativa Germania, e dopo aver espatriato negli States non ha potuto che concepire una filosofia dell’esilio e dell’erranza – del tutto in linea, da questo punto di vista, con il vissuto millenario del popolo ebraico. Dal vissuto personale di Adorno, nell’ambito di una macrostoria che si riavvolge su sé stessa, ne è nata un’esecrazione del pensiero occidentale in cui sinanche la formula tradizionale di stampo aristotelico e scolastico della Verità come adaequatio rei et intellectus viene vista come l’ennesima prova del carattere violentemente identitario del nostro Logos, che cerca sempre di imporre un “se ipsum” a scapito di ogni ulteriore alterità. Un altro filosofo ebreo come Derrida si è affrettato a dire, pochi decenni dopo e con la sua solita, seducente sintassi, “la filosofia ha sempre tenuto a questo: pensare il suo altro: ciò che limita e di cui essa rileva nella sua essenza, nella sua definizione, nella sua produzione”; ma è innegabile che l’alterità, e la separazione, e l’estraneità – tre termini in relazione non cogente, ma certo conseguenziali – siano al tempo stesso tre delle tematiche più latenti e più disattese di tutto il pensiero occidentale. Tutto ciò che concerne l’”essere straniero” di sé o degli altri era una questione che il pensiero ebraico portava con sé, ma di cui per una serie di contingenze, innanzitutto storiche, non ha saputo contagiare il logos classico: e l’estraneità ne è rimasta fondamentalmente esclusa. La questione è adesso se questo paradigma si può ripensare, oppure se, figli tutti della logica aristotelica, del suo principium individuationis e di una non-contraddizione, non siamo più concettualmente in grado di aprire uno squarcio, in questa cont-tradizione che dell’estraneità coglie quasi sempre solo il momentum negativo.
(Il titolo è ripreso dall’omonimo saggio di Bernhard Waldenfels pubblicato da Rosenberg & Sellier e frutto di un seminario da lui tenuto alla Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino. Il testo è disponibile in OpenSource: https://books.openedition.org/res/634?lang=it)