Welles, postmoderno inconsapevole. A proposito di “The Other Side of the Wind”

In un suo denso saggio su The Other Side of the Wind di Orson Welles, James Naremore descrive uno degli ultimi film del regista in questi termini:

The Other Side of the Wind potrebbe essere descritto come due film, uno innestato all’interno dell’altro, con un costante incrocio [pastiche] postmoderno di due stili diametralmente opposti: un documentario cinéma-vérité e un film d’arte hollywoodiano di derivazione europea[1]

Il film doveva essere una feroce satira contro la New Hollywood. Dal 1970 al 1985, Orson Welles ha cercato di portare a termine The Other Side of the Wind, alle prese con infinite complicazioni produttive, come la Rivoluzione Islamica del 1979 in Iran. La trama del film ruota attorno a un regista della Hollywood classica, Jake Hannaford (John Huston) che vede la sua carriera sgretolarsi davanti ai suoi occhi mentre tenta di finire il suo ultimo film più artistico, realizzato per cavalcare l’onda impetuosa della New Hollywood. Anticipando molti aspetti dell’estetica postmoderna, Welles scrisse una sceneggiatura molto originale, che frammentava la narrazione alternando le scene del film d’autore di Hannaford a quelle della festa di compleanno in cui viene ripreso.

Il film postmoderno di Orson Welles

Il film di Welles è un cosiddetto found footage movie, assemblato con riprese in 35 mm, 16 mm, 8 mm e videotape, alternando immagini a colori e in bianco e nero. Welles aveva deciso di girare il suo film utilizzando tutti i formati cinematografici disponibili sul mercato in quel momento. L’obiettivo estetico dietro questa scelta era quello di rappresentare visivamente la frammentazione narrativa episodica, che aveva descritto nella sceneggiatura. Welles in questo modo ha costruito uno pseudo-documentario cinéma-vérité, come ha scritto Naremore, concentrato sui disperati tentativi di Hannaford di finanziare il suo nuovo film, un’opera in grado forse di farlo rientrare nella New Hollywood, dopo un lungo esilio in Europa. Negli intenti di Welles, The Other Side of the Wind doveva miscelare diversi formati di ripresa. La parte centrale del film, infatti, doveva avere un rapporto Academy, 1,37:1, mentre quella del “film nel film”, che i personaggi vedono alla festa di compleanno di Hannaford, era stata girata con un rapporto Cinemascope, 1,85:1.

Welles per questa parte del film, aveva scientemente voluto parodiare, in perfetto stile postmoderno, il cinema di Michelangelo Antonioni, girando le scene del “film nel film” con lo stile freddo e sofisticato del regista italiano: atmosfere evanescenti, cinematografia pittorica, assenza di dialogo. In altre parole, aveva deciso di girare il film di Hannaford in uno stile non wellesiano, scimmiottando le tendenze dell’arte cinematografica europea che tanto avevano ispirato i nuovi registi della New Hollywood. In una celebre intervista rilasciata a “Playboy”, Orson Welles aveva causticamente sbeffeggiato il cineasta italiano in questi termini:

Secondo i giovani critici americani, una delle grandi scoperte della nostra epoca è il valore della noia come tema artistico. Se è così, Antonioni merita di essere annoverato tra i pionieri della tendenza come padre fondatore[2].

Un atteggiamento che Welles riuscirà a mettere in scena in The Other Side of the Wind, affidando al personaggio di Peter Bogdanovich una battuta salace: il suo grido “Antinyoneeyeyonee-oh!!!!!” si trasforma in una sorta di finto grido di guerra durante la scena dei fuochi d’artificio nel film di Welles[3].

antonioni

Welles si era particolarmente ispirato a Zabriskie Point (1970), il film di Antonioni concentrato sulle proteste degli studenti statunitensi negli anni Settanta. Entrambe le opere, a riguardo, sono state girate nella stessa zona di Carefree, in Arizona, dove sono tutt’ora presenti due ville molto simili. Una di queste è il famoso edificio che Antonioni fece saltare alla fine di Zabriskie Point. L’altra villa, invece, era stata affittata da Andrés Vicente Gómez, il coproduttore spagnolo del film, come location del Ranch di Hannaford, il luogo dove si svolgono la maggior parte delle riprese di The Ohter Side of the Wind[4]. Un altro film di Antonioni che ha senza dubbio ispirato Welles è La notte (1961). Entrambi i film hanno storie che iniziano la mattina di un giorno e finiscono all’alba del successivo. Inoltre, entrambi i racconti si svolgono all’interno di una bellissima e lussuosa villa, dove centinaia di persone si riuniscono per socializzare. Inoltre, sia The Other Side of the Wind che La notte si concludono con alcuni personaggi che vagano per le stanze di una villa, totalmente prive di vita. Tuttavia, in contrasto con la tendenza postmoderna a rendere omaggio ad altre opere cinematografiche, Welles aborriva l’uso dell’”omaggio”. In un incontro tra il regista e gli studenti di una scuola di cinema francese, Welles ha, infatti, affermato:

The most detestable habit in modern cinema is the homage. I don’t want to see another goddamn homage in anybody’s movie![5].

Bisogna sottolineare che Welles aveva in progetto di far recitare molti registi e attori famosi nella parte di se stessi, come Federico Fellini, Bernardo Bertolucci e Jack Nicholson. Sebbene nel film recitino celebrità come Dennis Hopper, Paul Mazursky, Herry Jaglom e Claude Chabrol, nell’edizione finale del film non compaiono personalità italiane.

Prima di passare all’analisi del montaggio e del completamento di The Other Side of the Wind, è utile presentare un concetto coniato da Remo Ceserani[6] e riferito a Il nome della rosa di Umberto Eco (1980): il “Postmoderno consapevole”[7]. Un processo creativo in cui gli elementi caratteristici del postmodernismo (la miscellanea di stili o pastiche, l’umorismo, le citazioni da altre opere, ecc.) vengono usati volontariamente da un autore per creare un’opera di finzione. Da un lato l’esempio di Umberto Eco è molto aderente alla definizione di Ceserani, dall’altro, il caso di Orson Welles è molto più problematico perché in anticipo sui tempi, ma allo stesso tempo non meno affascinante. Welles, infatti, ha concepito, scritto, diretto e parzialmente montato The Other Side of the Wind utilizzando un modus operandi tipicamente postmoderno agli inizi degli anni Settanta. Il regista americano ha, infatti, iniziato le riprese di The Other Side of the Wind il 23 agosto 1970, come ha affermato più volte da Joseph McBride[8]. Questa data è molto importante perché La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir di Jean-François Lyotard[9] è stato pubblicato, per la prima volta, in Francia nel 1979 e solo nel 1984 nella sua edizione inglese, come ha sottolineato Ceserani nel suo libro[10]. In altre parole, Welles ha iniziato il suo progetto nove anni prima dell’uscita del manifesto postmoderno di Lyotard. Il cosiddetto cinema postmoderno sarebbe emerso solo diversi anni.

Come ha osservato Luca Malavasi in uno dei suoi studi, lo stile narrativo postmoderno nel cinema è stato applicato in diversi film come Stardust Memories (1981) di Woody Allen o Assassini nati Natural Born Killers (1994) di Oliver Stone[11].

Un ulteriore e affascinante problema da affrontare circa la connessione tra Welles e il postmoderno, riguarda il mancato completamento di The Other Side of the Wind da parte del regista quando era ancora in vita. Il film, di fatto, è stato, fino ad agosto 2018, un “non film”, cioè un film che tutti gli studiosi volevano guardare, ma che era impossibile vedere. Parafrasando l’espressione di Ceserani, potremmo chiamare The Other Side of the Wind “un’opera postmoderna inconsapevole”

Il montaggio

L’ultimo e più importante elemento che conferma l’adesione di Welles a un’autentica estetica postmoderna ante litteram è lo stile di montaggio. Il regista ha scelto di adottare una forma filmica caratterizzata da immagini scomposte in pezzi e assemblate in un vorticoso collage. Secondo chi ha aiutato il regista a montare il film negli anni Settanta, Welles ha volutamente sminuzzato e parcellizzato la storia trasformandola in un mosaico sonoro-visivo[12]. La rapidità del montaggio avrebbe dovuto essere l’attore protagonista del film e avrebbe sollecitato furiosamente gli occhi del pubblico. Yves Deschamps, uno di questi collaboratori, ha recentemente affermato:

If you want to know what kind of editor Orson was, look at F for Fake. It’s just a crazy, crazy work of editing. Probably too much, too bright, too fast for the audience — but he was an incredible inventor, an incredible master of the rhythm[13].

Welles, dunque, ha utilizzato modalità espressive tipiche dell’avanguardia per il montaggio del film, grazie al quale è stato in grado di reificare, in senso filmico, ciò che il marxista e sociologo David Harvey ha chiamato la “compressione spazio-temporale”[14], dove la velocità ha il predominio su tutto. La produzione e la post-produzione di The Other Side of the Wind, molto lontane dalle convenzioni hollywoodiane, appaiono, agli occhi degli studiosi contemporanei, come un segno chiaro della lotta di Welles contro il modus operandi dell’industria culturale. Il cineasta voleva creare un’opera totalmente diversa dalle normali pellicole di Hollywood realizzate negli anni Settanta, utilizzando le intuizioni estetiche delle avanguardie. Welles, in altre parole, aveva in mente di creare un’opera filmica unica e innovativa per un pubblico giovane, ormai pronto a recepire le eccentricità nel campo artistico. Le dure critiche usate da Adorno e Horkheimer negli anni Quaranta contro Welles, sembrano aver descritto perfettamente le contraddizioni filosofiche insite nella sintesi filmica di The Other Side of the Wind di sfruttare le potenzialità espressive dell’avanguardia per sedurre la New Hollywood:

Tutte le violazioni degli usi del mestiere commesse da Orson Welles gli vengono perdonate, perché – scorrettezze calcolate – non fanno che rafforzare la validità del sistema. L’obbligo dell’idioma tecnicamente condizionato che attori e registi devono produrre come natura, perché la nazione possa farlo proprio, si riferisce a sfumature così sottili da raggiungere la raffinatezza di mezzi di un’opera d’avanguardia, con cui peraltro quest’ultima, al contrario di quelli, serve alla verità. La rara capacità di adempiere impeccabilmente all’esigenza dell’idioma della naturalezza in tutti i settori dell’industria culturale, diventa il crisma dell’abilità e della competenza[15].

Più umano dell’umano: Netflix e il completamento postmoderno del film

La natura postmoderna di The Other Side of the Wind è stata indubbiamente amplificata quando Netflix ha preso il timone della produzione e distribuzione del film nel novembre 2018. Più di ogni altra cosa, è interessante notare che per completare un film incompiuto di Orson Welles è intervenuto uno dei rappresentanti più potenti dell’industria culturale contemporanea. Allo stesso tempo, la partecipazione di un ricco produttore cinematografico nel finanziamento di uno dei film più ricercati di Welles, ha trasformato in realtà quello che invece non avveniva nella finzione filmica, creando uno dei più inconsapevoli meta-riferimenti labirintici di The Other Side of the Wind.

Non v’è dubbio che Netflix è riuscita a esaltare gli aspetti postmoderni che il film ha sempre avuto in potenza. Per portare a termine il film, annunciato nell’aprile del 2016[16], sono stati necessari il recupero, l’imballaggio e la spedizione di circa 96 ore di filmati dal laboratorio LTC di Parigi a Los Angeles, presso la sede centrale della Technicolor. È stata, inoltre, effettuata la scansione in 4K di tutto il girato, la correzione del colore, il montaggio, la creazione delle colonne sonore (inclusa la composizione musicale di Michael Legrand) e altre attività di post-produzione. Tra queste ultime, sono da segnalare la produzione di due documentari dedicati al film, uno intitolato They’ll Love Me When I’m Dead (2018) diretto da Morgan Neville e un altro intitolato A Final Cut for Orson: 40 Years in the Making (2018) realizzato da Ryan Suffern. Infine, Netflix si è occupata della distribuzione del film in streaming e qualche proiezione nelle sale di tutto il mondo.

Alla luce di tutti questi sforzi finanziari e produttivi, sorgono alcune domande. Possiamo affermare che questo film è un’autentica opera di Welles? Possiamo storicamente riferirci a questo lavoro come a un film completato dal cineasta nordamericano? Le operazioni digitali di post-produzione di Netflix si sono dimostrate abbastanza discrete da consentire al pubblico e agli studiosi di constatare che la volontà di Welles sia stata rispettata?
Queste domande meritano di essere poste alla luce delle informazioni emerse dopo la prima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, avvenuta il 31 agosto 2018. Il dato più importante riguarda l’enorme quantità di filmati girati da Welles durante la fase di produzione, tra l’agosto 1970 e l’inizio del 1976. Una delle prime operazioni realizzate del colosso dello streaming è stata quella di trasformare tutto il materiale filmico, in modo da manipolarlo attraverso strumenti digitali di editing non lineare. La propensione di Welles a montare le scene senza colonna sonora ha inoltre creato diversi problemi, risolti poi in postproduzione. Molti nastri audio, infatti, erano del tutto inutilizzabili a causa delle loro pessime condizioni. Per questo motivo, alcune scene sono state ri-doppiate ex-novo. Per esempio, il figlio di John Huston, Danny, è stato chiamato per imitare la voce del padre, in particolare in quelle scene in cui i corrispondenti nastri audio non erano disponibili.

La ILM, inoltre, è intervenuta per ricomporre due diversi tipi di inquadrature. Le prime erano i controcampi dei manichini colpiti dai personaggi di John Huston e Oja Kodar nella scena della sparatoria. La società di George Lucas ha girato queste scene, utilizzando manichini per i crash test automobilistici e il green screen. Le altre inquadrature aggiunte, erano quelle del “film nel film” che dovevano comparire nelle scene in cui il film veniva proiettato, come il passaggio narrativo in cui Max David e Billy Boyle guardano il film, o le proiezioni all’interno del ranch di Hannaford o nel drive-in. In queste inquadrature, le scene del “film nel film” sono state create digitalmente su uno sfondo più o meno nuovo[17].

Bisogna, infine, rendere conto di come il team di montatori di Netflix, guidato da Bob Murawski, sia stato supportato da un software dotato di intelligenza artificiale per portare a termine il lavoro di montaggio[18]. Il “software Bigfoot”, creato dalla Video Gorillas, ha avuto la capacità di confrontare un numero enorme di fotogrammi del film. Nel caso specifico di The Other Side of the Wind, il lavoro di Netflix si è basato su un rough cut di 3,5 ore. Il software di Video Gorillas ha confrontato i circa 300.000 fotogrammi provenienti dal premontato creato da Bob Murawski e dal suo team, con i 9.500.000 fotogrammi presenti nelle 96 ore di negativi: oltre 2 trilioni di fotogrammi totali sono stati messi a confronto dall’intelligenza artificiale per individuare le immagini utilizzate nel montaggio finale del film.

Si potrebbe dire “Più umano che umano”, scomodando il motto della Tyrell Corporation di Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Questa citazione è però soprattutto collegabile all’abitudine di Orson Welles di adoperarsi perché fosse l’unico autore dei suoi film, un uomo che aveva la capacità di fare quasi tutto da solo: dalla scrittura della sceneggiatura al casting degli attori, dalla produzione del film al montaggio. Detto in altri termini, è facile intuire che per fare ciò che Welles avrebbe fatto da solo, Netflix e Video Gorillas sono stati costretti a utilizzare delle macchine complesse e un imponente gruppo di lavoro. A quale scopo tutto questo dispendio di energie? Semplicemente per un’insopprimibile ossessione per l’efficienza, qualcosa che la postmodernità ha esacerbato grazie alla perfezione matematica dell’informatica o, come in questo caso, dell’intelligenza artificiale. Data la variabile del tempo, si potrebbe enunciare che la condizione postmoderna, soprattutto quando segue strettamente la logica culturale del tardo capitalismo, debba contrarre tale efficienza il più possibile per realizzare profitto. The Other Side of the Wind, nei piani economici doveva essere distribuito in brevissimo tempo, al massimo entro sedici mesi dall’annuncio di partenza dei lavori. L’accordo tra Oja Kodar e la figlia di Orson, Beatrice, così come la casa di produzione franco-iraniana Les Films de l’Astrofore, è stato raggiunto grazie a Netflix. Il colosso mediatico statunitense non solo ha recuperato il suo investimento finanziario iniziale, ma soprattutto ha tratto profitto dai cinefili di tutto il mondo. La piattaforma può contare su circa 93 milioni di abbonati in 190 paesi in tutto il mondo per guardare il suo materiale. Solo l’ONU è più rappresentativa del mondo con 193 nazioni. David Harvey lo chiamerebbe un “progetto Voodoo” o “progetto col trucco”: cinefilia accoppiata con una manipolazione del lavoro parzialmente realizzato di Welles. Senza dubbio Netflix ha saputo rivitalizzare e rinvigorire l’interesse per Orson Welles e lo studio del suo cinema. Questo è probabilmente l’unico grande merito di tutta l’operazione.

Il parere degli studiosi sulla versione Netflix

Nonostante le contraddizioni insite nell’affaire The Other Side of the Wind, gli studiosi di Welles hanno avuto opinioni contrastanti e polarizzate sul lavoro di Netflix. Da un lato ci sono i giudizi positivi da parte di chi pensava che il colosso statunitense avesse saputo riportare in auge l’inconfondibile tocco autoriale del cineasta americano. In questo gruppo possiamo includere due dei più influenti studiosi wellesiani nordamericani, Joseph McBride e Jonathan Rosenbaum, che hanno approvato con entusiasmo il prodotto finale. Certo, McBride ha sottolineato che le modifiche al lavoro di Welles per alcune scene, sono state eccessive da parte di Murawski. Si pensi, ad esempio, agli interventi del montatore sulla “sequenza di sesso in auto”. Nel montaggio originario voluto da Welles, infatti, durava sette minuti, ma per l’edizione distribuita è stata ridotta a tre minuti e mezzo. Tuttavia, McBride ha dichiarato che The Other Side of the Wind completato da Netflix, ha superato le sue più alte aspettative[19]. In Europa, invece, si è espresso in modo diametralmente opposto lo studioso catalano Esteve Riambau, in linea con le argomentazioni del presente intervento. Quest’ultimo, infatti, ha disapprovato le decisioni apparentemente arbitrarie prese da Netflix per realizzare il prodotto finale. Tra i più rimarchevoli interventi, lo studioso catalano ha individuato la riduzione della “sequenza del sesso nell’auto”, la sostituzione della “voce fuori campo” di Orson Welles presente all’inizio del film, con la voce di Peter Bogdanovich. Inoltre, il ricorso agli effetti digitali per sostituire le scene mancanti, un missaggio audio decisamente scadente che non ha saputo sfruttare la partitura appositamente creata nel 2018 da Michael Legrand, hanno creato un’edizione del film totalmente incurante della volontà di Welles. Riambau ha soprannominato The Other Side of the Wind prodotto da Netflix, come un “manufatto di Frankenstein”.

C’è, infine, un aspetto del processo di postproduzione da considerare in questo dibattito: l’errore umano imprevisto. La precisione millimetrica e chirurgica agita dall’intelligenza artificiale ha tolto ogni possibilità di errore o incidente, che Welles considerava un quid fondamentale per la creazione dei suoi film. In Filming Othello (1976) Welles, infatti, aveva dichiarato:

The greatest things in movies are divine accidents. And my definition of a film director is «the man who presides over accidents». They’re these divine accidents. It’s the only thing that keeps films from being dead[20].

Gli errori spesso guidano le scelte estetiche. I computer che commettono errori sono inaffidabili e inefficienti e se lo sono, non vengono utilizzati.
Il caso di The Other Side of the Wind è un esempio concreto dell’intuizione marxiana per cui “tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria”. Questa idea era efficace nel contesto storico della Modernità, ma ora è molto più valida. Al posto dell’aria, abbiamo una dimensione altra, in cui è possibile riportare in vita un’opera e il suo autore, la cui grandezza è diventata più solida, soprattutto quando la osserviamo da una distanza temporale di ben trentatré anni dalla sua morte. Si tratta, dunque, della morte o dell’esumazione di Welles, l’autore cinematografico per eccellenza? Forse entrambe le cose. La disparità tra le prospettive può essere la stessa dell’effetto che proviamo quando guardiamo alla famosa illusione ottica “mia moglie e mia suocera”.


[1] In James Naremore “Morte dell’Autore. The Other Side of the Wind di Orson Welles”, Cabiria Studi di cinema, nr 192 vol 49, maggio-agosto 2019, pp. 7-19.

[2] Orson Welles, It’s all true. Interviste sull’arte del cinema, Minimum Fax, Roma, 2010, p. 224.

[3] I lettori possono ascoltare questa battuta nell’edizione Netflix a 1h 42’50”. Questa battuta è anche presente nella sceneggiatura del film: si veda Giorgio Gosetti (a cura di), Orson Welles e Oja Kodar, The Other Side of the Wind: scénario-screenplay. Locarno International Film Festival/Cahiers du Cinéma, Locarno, 2005, p. 192.

[4] Le due ville sono in affitto come immobili di lusso: http://www.luxurydeserthideaways.com/boulderreign.html (ultima visita 4/9/2021).

[5] “L’abitudine più detestabile nel cinema moderno è l’omaggio. Non voglio vedere un altro dannato omaggio nel film di nessuno”: In Orson Welles à la Cinémathèque Française (1983) di Guy Seligmann e Pierre-André Boutang. Il documentario è visibile nel seguente link: https://www.cinematheque.fr/henri/film/125173-orson-welles-a-la-cinematheque-francaise-pierre-andre-boutang-guy-seligmann-1983/

[6] Professore di Letterature comparate all’Università di Bologna per molti anni, Remo Ceserani (1933-2016) è stato uno dei più importanti e influenti studiosi italiani di Letterature comparate e Teoria letteraria


[7] L’espressione è parte del titolo di un paragrafo del libro Ceserani “Eco e il postmoderno consapevole”, in Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, pp. 180-201.

[8] See Joseph McBride, What ever happened to Orson Welles? A Portrait of an Indipendent Career, The University Press of Kentucky, Lexington 2006, p. XIV. È possible ascoltare le voci della troupe di The Other Side of the Wind durante il primo giorno di riprese, in questo link: https://www.kozaksclassiccinema.com/the-other-side-of-the-wind-2018-first-day-of-shooting-audio/  (Ultimo accesso: 4/9/2021).

[9] Jean-François Lyotard (1979), La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981.

[10] Remo Ceserani, ivi, p. 61.

[11] Luca Malavasi, Postmoderno e cinema. Nuove prospettive d’analisi, Carocci editore, Roma, 2017,

[12] “Se vuoi sapere che tipo di montatore era Orson, guarda F for Fake. È solo un folle, folle lavoro di montaggio. Probabilmente troppo, troppo brillante, troppo veloce per il pubblico, ma era un incredibile inventore, un incredibile maestro del ritmo” Si veda PeterTonguette, “Wild Was ‘The Wind’ Orson’s Original Editors Revisit Their Work”, CineMontage Magazine, Vol 7 No. 4, Q4, 2018, pp. 76-83.

[13] Ivi, p. 80.

[14] David Harvey (1990), La crisi della modernità, Net Edizioni, Milano 2002. Si veda, in particolare, il capitolo 17 intitolato “La compressione spazio-tempo e la condizione postmoderna”, pp. 375-393.

[15] In Max Horkheimer e Theodor Adorno (1947), Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 2010, pp. 135-136.

[16] Si veda Kelly, Ray. “Netflix in talks to complete, distribute ‘The Other Side of the Wind’”. Wellesnet.com, April 4, 2016.

[17] Si veda In Rodney F. Hill, “Who the Devil Made It? An Interview with Peter Bogdanovich and Frank Marshall”, Cineaste, Vol. XLIV, No. 1, Winter 2018, Cineaste Publishers, New York, pp.  13-17.

[18] Si veda Kelly, Ray. “Artificial intelligence aided completing ‘The Other Side of the Wind’”. Wellesnet.com, November 12, 2018

[19] Si veda McBride, Joseph. “‘The Other Side of the Wind’ exceeds even my high expectations”. Wellesnet.com, September 4, 2018

[20] “Le cose più grandi nei film sono gli incidenti divini. E la mia definizione di regista è «l’uomo che presiede agli incidenti». Sono questi incidenti divini. È l’unica cosa che impedisce ai film di essere morti”



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