Sono passati vent’anni dall’11 Settembre 2001. Oggi più che mai risulta di fondamentale importanza ricollocare l’evento in una prospettiva non soltanto di caratattere storico, ma anche come spartiacque che ha segnato indelebilmente un “prima” e un “dopo” nel nostro orizzonte culturale. Con la caduta delle Torri Gemelle in diretta mondiale, il “postmoderno” fa il suo ingresso nel “tempo della catastrofi”, producendo effetti rilevanti nel racconto della realtà offerto dai media, e nella loro apparente pretesa di immediatezza.
Su Scenari pubblichiamo un estratto dalla prefazione della nuova edizione del libro di Mauro Carbone L’evento dell’11 Settembre. Quando iniziò il XXI secolo (Mimesis Edizioni, 2021).
A kind of watershed: “una specie di spartiacque”. Così, tre anni più tardi, Richard Grusin valutava l’impatto dell’evento dell’11 settembre 2001 sulla cultura e i media statunitensi: “più che una cesura categorica o una frattura, una specie di momento spartiacque, una profonda trasformazione non pienamente evidente sino a qualche tempo dopo essere avvenuta” .
Mi pare si possa dire oggi che questa valutazione, formulata ancora piuttosto a ridosso dell’evento, si sia dimostrata lungimirante, non soltanto per l’ambito cui era riferita, né per i soli Stati Uniti.
Mi viene infatti da ripensare a come Jean Baudrillard iniziava Lo spirito del terrorismo, il suo lucidissimo articolo – che perciò, allora, tanto fece gridare allo scandalo – pubblicato su “Le Monde” il 2 novembre 2001: dopo lo “sciopero” di “eventi simbolici di portata mondiale” prolungatosi per tutti gli anni Novanta, eccoci improvvisamente ad aver visto scoppiare l’11 settembre – scriveva – “l’evento assoluto, […] la ‘madre’ di tutti gli eventi”. Ma funzionando appunto da spartiacque – viene ora da aggiungere – da allora questa madre non ha smesso di figliare. Dopo che lei ha brutalmente troncato quello sciopero, infatti, da vent’anni ci troviamo sottoposti ad una raffica pressoché ininterrotta di “eventi simbolici di portata mondiale”, quasi tutti – sia pure a diverso titolo – catastrofici, un po’ come la loro mamma: dall’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione militare a guida americana e “cristiana” nel 2003, che ha portato alle torture su prigionieri iracheni testimoniate dalle vergognose immagini scattate nella prigione di Agu Ghraib, all’uragano Katrina dell’agosto 2005, uno dei peggiori disastri naturali nella storia degli USA, che ha causato la più grande diaspora nella storia di quel Paese, al terremoto e maremoto con conseguenti tsunami e disastro nucleare di Fukushima, in Giappone, del marzo 2011. E ancora: dalle epocali migrazioni umane che tuttora insanguinano il Mediterraneo e il Rio Grande all’interminabile stagione dei feroci attentati terroristici islamisti in Medio Oriente, Asia, Africa ed Europa, a quella dei devastanti incendi, quanto mai simbolicamente cominciata a Notre Dame di Parigi, nell’aprile 2019, poi proseguita in Australia e Amazzonia, infine oscurata nell’attenzione mondiale dal diffondersi della Pandemia di Covid-19, all’inizio del 2020. Nel corso della quale, peraltro, non sono mancati l’omicidio, diffuso dal cellulare di una passante, di un nero americano soffocato dal ginocchio di un poliziotto bianco, che ha scatenato la protesta mondiale, né un tentativo d’insurrezione contro la più longeva democrazia moderna istigato dal suo stesso capo di Stato.
Come scrivevo in Filosofia-schermi, insomma, con lo sparticque dell’11 settembre 2001 il postmoderno – qui inteso letteralmente come epoca “inagurata da mutamenti che l’hanno resa irriducibile alla precedente” – è entrato nel “tempo delle catastrofi”.
In quell’evento-spartiacque qualcuno volle vedere allora un brutale “ritorno della realtà”, contro le presunte fughe da essa che avrebbero occupato molta intellighentzia mondiale, nel decennio precedente, in discussioni sulla fine della storia e delle ideologie da un lato, sull’avvento del virtuale dall’altro. La realtà, tuttavia, quel giorno si mostrò più irreale che mai, tanto da far pensare a molti che le sue immagini fossero quelle di un film catastrofico hollywoodiano.
Diciamolo meglio, allora: né la realtà era davvero andata in vacanza, né da questa improvvisamente tornò, manifestandosi risentita nella sua più nuda violenza. Anche perché la realtà non è mai “nuda”, ma sempre già mediata, come lo stesso Grusin da tempo c’insegna. Tuttavia le immagini di quel giorno – immagini che, non solo di esso, ma di quest’intero secolo sono diventate, come ha scritto ancora Baudrillard, la “scena primaria” – quelle immagini, dunque, misero sotto gli occhi di tutti, simultaneamente, il “corto” del modo in cui eravamo abituati a concepire almeno tre circuiti, tra loro collegati, all’opera nel nostro rapporto col mondo: quelli che connettono rispettivamente mediazione e immediatezza, immagini e realtà, nonché mediazione e realtà stessa.
Quanto al primo, trovo particolarmente eloquente il modo in cui Jürgen Habermas ricordava l’evento dell’11 settembre 2001:
Nuova è stata senza dubbio la presenza delle telecamere e dei media, per cui un evento locale è diventato simultaneamente un evento globale e l’intera popolazione mondiale è stata trasformata in una platea di testimoni oculari impietriti.
I mass-media e in particolare le televisioni, con le loro dirette, seppero dunque offrire una mediazione dell’evento tale da produrre una peculiare illusione d’immediatezza – ossia, letteralmente, d’assenza di mediazione – che lasciava presagire un futuro di assoluta “trasparenza” del visibile fruita per il loro tramite in “tempo reale”: una promessa che poi è divenuta addirittura pretesa ideologica di negare ogni “inseparabilità di realtà e mediazione”. Ecco il “messaggio” – per dirla con McLuhan – che da allora i media – in particolare quelli che si definivano “nuovi”: i media digitali – hanno preteso di trasmettere. In questo senso, nell’esperienza descritta da Habermas sembrano affondare almeno alcune delle radici di quella che altrove ho ironicamente definito l’ideologia della (assoluta) “Trasparenza 2.0”. Del resto, già nel decimo anniversario dell’11 settembre 2001 il quotidiano francese “Le Monde” sottolineava come quel giorno avesse inaugurato pratiche di comunicazione che anticipavano il “Web 2.0” (espressione coniata solo due anni più tardi), segnando “la nascita di un uso delle immagini intimo, personale, che dava un’altra visione dei drammi del mondo”. Aggiungo che di un uso simile – dalle immagini esteso ai testi, secondo uno stile che dal 2004 impareremo a riconoscere nei posts di Facebook – mi era accaduto di fare esperienza, una settimana dopo l’11 settebre 2001, nello sconvolgente incontro col “muro dei volti” della Pennsylvania Station di New York che descrivo nell’introduzione di questo mio libro.
Nella maggior parte dei casi, si trattava d’immagini comunque estreme, che rovesciavano perciò il più atteso nesso imitativo con la realtà e in questo senso diventavano loro stesse eventi, sconvolgendo appunto l’abituale rapporto con essi. Si facevano insomma “eventi-immagine”: ecco il cortocircuito introdotto nel nesso tra immagini e realtà.
Negli anni immediatamente successivi l’11 settembre 2001, questi due cortocircuiti si sono andati sviluppando e tra loro intrecciando proprio grazie all’impulso dei “nuovi media”.
Il primo ha infatti incontrato un terreno particolarmente fertile proprio nell’interattività partecipativa dei social networks e nell’ideologia della “Trasparenza 2.0” ad essi sottesa, quella che ancora oggi induce molti a pubblicare immagini ritoccate ma corredate dalla scritta no filter.
Il secondo ha trovato fondamentale alimento nel venir meno del valore indicale delle immagini digitali, tecnologicamente sciolte dal nesso fisico con un referente e perciò in grado di divenire a loro volta “eventi-immagine”.
Via via inoltratici nell’era del digitale – espressione che annuncia come quest’ultimo sia ormai divenuto componente essenziale e inestricabile del nostro odierno stare al mondo – l’intreccio di quei due cortocircuiti contribuisce al moltiplicarsi di forme di mediazione della realtà tra loro sempre più diversificate e inevitabilmente in dissidio, per dirla con un termine usato in questo senso da Jean-François Lyotard già nel 1983. Per dirla invece con le parole usate da Barack Obama nella sua prima intervista da ex presidente degli Stati Uniti, concessa alla BBC nel dicembre 2017, ne risulta che attualmente “uno dei pericoli di Internet è che le persone possono avere realtà completamente diverse”. Inevitabile pensare a coloro che all’inizio del 2021 hanno invaso proprio il Parlamento americano, nonché gli schermi dei loro connazionali increduli, aspettandosi che il presidente uscente, dopo averli aizzati, li capeggiasse. Ecco dunque il terzo cortocircuito cui accennavo prima: quello che si produce nel nesso tra mediazione e realtà. Da un lato, infatti, le molteplici e diversificate forme che questo nesso tende sempre più ad assumere finiscono per aggregare gruppi di persone che condividono – su base insieme generazionale, sociale, culturale, tecnologica e ideologica – “bolle” d’informazioni, conoscenze ed opinioni autocentrate e conchiuse anche al di là di intenzioni e consapevolezza.
Dall’altro lato, tale tendenza trova compensazione in sempre più sofisticati sistemi di occultamento tecnologico e ideologico delle suddette forme di mediazione. Ne risulta l’ormai evidente smarrimento di un orizzonte condiviso di mediazione della realtà appunto denunciato da Obama: uno smarrimento che inevitabilmente alimenta le più svariate forme di negazionismo, facendo di quest’ultimo un fenomeno dai contorni ormai epocali, di cui l’esempio più vicino ed eclatante – perché ha coinvolto in prima persona persino non pochi capi di Stato – si è avuto in occasione della pandemia di Covid-19.
Non è certo stato l’evento dell’11 settembre 2001 il primo ad aver fatto registrare accese reazioni negazioniste. Tuttavia in tale occasione esse colsero molti di sorpresa, non meno dell’evento cui si riferivano, proprio perché quest’ultimo si era consumato di fronte a quella che abbiamo letto Habermas definire “l’intera popolazione mondiale […] trasformata in una platea di testimoni oculari impietriti”. Perciò quelle reazioni negazioniste attirarono l’attenzione di osservatori come Slavoj Žižek e lo stesso Baudrillard.
Il primo le collegò appunto al crescente “processo di virtualizzazione” che già allora egli vedeva cominciare a farci “percepire la stessa ‘realtà reale’ come un’entità virtuale”. Il secondo vi trovò piuttosto la conferma particolarmente evidente di uno smarrimento più profondo, da lui da tempo denunciato, da parte dell’Occidente: quello del “principio di realtà”, che notoriamente in psicoanalisi designa la fase dello sviluppo psichico in cui s’incomincia a imparare che la ricerca del soddisfacimento non può basarsi solo sulle proprie condizioni, ma deve necessariamente fare i conti con quelle che la realtà impone. Cosa intende allora Baudrillard quando afferma che l’Occidente avrebbe smarrito il “principio di realtà”? Mi viene quest’esempio: continuare a perpetrare un capitalismo che rapina e violenta l’ambiente senza porsi davvero il problema di che succederà alle future generazioni, ovvero cercare il proprio soddisfacimento senza fare i conti con le condizioni che la realtà impone. Ecco cosa vuol dire aver perso il “principio di realtà”. Problema che, come l’esempio segnala, già comporta lo smarrimento di un orizzonte condiviso – in quel caso transgenerazionale – nella mediazione della realtà.
Di ciò l’attuale assetto di Internet evocato da Obama appare allora, anziché la causa di fondo, un potente acceleratore che ha prodotto vistose e minacciose “complicanze”, come si dice quando una malattia si aggrava. Terminologia che sembra peraltro inevitabile, visto che fu senz’altro quella più praticata da chi si sforzò di capire le dinamiche che produssero l’evento dell’11 settembre 2001. Forse possiamo allora aggiornare il quadro clinico precisando che, se da tempo la malattia ha condotto il corpo che ne è affetto a non saper esprimere una positiva dimensione di convivenza politica, ora viene in chiaro che esso non riesce nemmeno più a riconoscersi quale organismo – quale società, insomma – e a fare in quanto tale i conti con la realtà. Ne deriva, come quell’evento già segnalava, che per questo corpo ormai non è più questione di soddisfacimento, ma di sopravvivenza. Drammaticamente sempre più in pericolo.