Il 23 agosto ci ha lasciato Jean-Luc Nancy, tra le più originali voci della filosofia contemporanea. La sua riflessione ha toccato la complessità e le contraddizioni del nostro tempo, interrogandosi anche sullo stato di salute delle democrazie, sul concetto di comunità, sul rapporto con la tecnologia e sulle conseguenze del progresso.
Su Scenari pubblichiamo un estratto de L’equivalenza della catastrofi (Mimesis Edizioni, 2016, a cura di Giovanbattista Tusa), una riflessione sul disastro di Fukushima che inquadra con grande lucidità il profondo legame tra cataclisma naturale e le numerose catastrofi – ambientali, economiche, tecnologiche – che punteggiano il nostro tempo.
Il titolo non deve disorientare: le catastrofi non sono equivalenti, né per ampiezza, né per desolazione, né per conseguenze. Uno tsunami senza effetti su un’installazione nucleare non è identico a uno tsunami che danneggia gravemente un impianto atomico. L’incuria nella gestione di quell’impianto apre un ulteriore ordine di gravità.
La catastrofe atomica – militare o civile, tenendo in conto tutte le differenze – resta la catastrofe tendenzialmente irrimediabile, i cui effetti si propagano attraverso le generazioni, attraverso i suoli, tutte le specie di viventi e l’organizzazione su vasta scala di produzione dell’energia, così come del suo consumo.
Ciò che s’intende chiamare qui l’equivalenza delle catastrofi corrisponde ad affermare che la propagazione o la proliferazione degli annessi e connessi a ogni tipo di disastro porta ormai un segno di ciò di cui il rischio nucleare esibisce il paradigma.
Vi è ormai un’interconnessione, un intreccio e persino una simbiosi delle tecniche, degli scambi, delle circolazioni, che non permette più a un’inondazione – per esempio – ovunque essa sia localizzata, di essere slegata da un certo numero di complessi tecnici, sociali, economici, politici che impediscono di considerarla come un danno o come una disgrazia di cui noi potremmo, bene o male, tracciare il perimetro.
Ancora meno siamo in grado di farlo per una catastrofe chimica, come quella di Bhopal nel 1984, i cui effetti umani, economici, ecologici si sentono ancora oggi.
La complessità in gioco è ormai straordinariamente evidente, dato che le catastrofi naturali non sono più separabili dalle loro implicazioni o ripercussioni tecniche, economiche, politiche.
Semplice incidente, la nube di un vulcano blocca la navigazione aerea su almeno un quarto del mondo; vera catastrofe, un terremoto scuote insieme al suolo e gli edifici tutta una situazione sociale, politica, morale.
La questione già sollevata dal sisma di Lisbona del 1755 – avvertito anch’esso dal Marocco al nord dell’Europa – e che si chiamava allora la questione della “Provvidenza”, questione riproposta in modo sottile da Kiarostami nella domanda “Allah permette ciò?” posta da un personaggio del suo film sul sisma iraniano del 1990, questione che non può più portare questo nome. Non si possono disconoscere le forze telluriche o meteorologiche. E neanche si può disconoscere il groviglio inestricabile delle tecniche, delle politiche, delle economie, con il movimento di queste forze.
Rousseau scriveva a Voltaire, nel 1756, “converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto”.
Rousseau poteva immaginare che la costruzione di una città fosse concepita in altra maniera. Ma oggi tutti i nostri sforzi d’immaginazione in materia di città, di trasporti, di energie sono inesorabilmente spinti verso un grado crescente di complessità e d’interdipendenza tecnica, sociale, economica, oppure verso le obiezioni e gli ostacoli sollevati dalle complessità già esistenti e dalle necessità che esse impongono.
Quest’alternativa – la complessità dei sistemi interdipendenti (ecolo-nomici, socio-polito-ideo-logici, tecno-scientifico-culturo-logici, etc.) e/o le catene di costrizioni esistenti (l’elettricità, il petrolio, l’uranio, tutti i minerali rari, etc. – e i loro impieghi, i loro usi civili e militari, sociali e privati, etc.) – dipende da un’interconnessione generale: quella del denaro in ragione del quale tutti questi sistemi funzionano, e al quale, in ultima istanza, riconducono, dato che è necessario che qualsiasi operazione di fabbricazione, di scambio, di distribuzione, abbia come risultato un rendimento. Quest’interconnessione esprime un’economia orientata dalla produzione e l’autoproduzione della ricchezza, dalla quale deriva la produzione incessante di nuove condizioni, norme, e costrizioni di vita – non dalla riproduzione delle condizioni d’esistenza e la tesaurizzazione suntuaria di ricchezze gloriose. Il passaggio dalla seconda forma alla prima è stato il prodotto di ciò che noi chiamiamo “capitalismo” – sarebbe a dire, come sappiamo, il processo che genera l’accumulazione di un capitale destinato all’investimento redditizio e non all’ostensione gloriosa.
Marx ha chiamato il denaro “equivalente generale”. È di questa equivalenza che vogliamo parlare qui. Non per considerarla in se stessa, ma per considerare come il regime d’equivalenza generale assorba ormai virtualmente, ben al di là della sfera monetaria o finanziaria ma grazie a essa e in vista di essa, tutte le sfere dell’esistenza degli uomini, e con loro, dell’insieme degli esistenti.
Quest’assorbimento passa per una stretta connessione tra il capitalismo e lo sviluppo tecnico come noi lo conosciamo. È la connessione, precisamente, di un’equivalenza e di un’intercambiabilità illimitata delle forze, dei prodotti, degli agenti o attori, dei sensi o valori – poiché il valore di tutti i valori è l’equivalenza.
Le catastrofi non sono dunque tutte della stessa gravità, ma tutte sono connesse con l’insieme di interdipendenza che compongono l’equivalenza generale. Inoltre, non bisogna dimenticare di includere le guerre in questa interconnessione, e più in particolare tutte le trasformazioni moderne del concetto e delle pratiche della guerra: guerra di “partigiani”, guerriglia, guerra “totale”, “mondiale”, operazioni di polizia battezzate “guerre”, etc. – sviluppo simmetrico di armi molto pesanti e di armi leggere le quali, entrambe, accrescono la proliferazione delle guerre e dei loro effetti sulle popolazioni chiamate “civili” allo stesso modo che sulle colture, gli allevamenti, i terreni, etc. E senza omettere la guerra economica che scuote continuamente dall’interno il sistema dell’equivalenza generale.
Infine, è questa equivalenza che è catastrofica.
Non concludiamo a partire da tutto questo che il capitalismo sarebbe il soggetto cattivo della nostra storia, al quale noi sapremmo quale soggetto buono – o quale buona “soggettivazione” come piace dire oggi – dovrebbe essere opposto (un soggetto, per esempio “più umano”, o “più naturale” o “più morale”, “più spirituale”, e tutto ciò che consegue da una “cultura risorta”). Non ne opponiamo né ne proponiamo. E nemmeno proponiamo alcuna soluzione dei problemi energetici (uscita dal nucleare, rivoluzione della sua gestione, riduzione della crescita, etc.). Ma suggeriamo che l’insieme interdipendente della “civiltà” e della sua “mondializzazione” debba essere considerato come dipendente esso stesso da un orientamento profondo preso da parecchi secoli – senza decisione, senza deliberazione – da un’umanità che si avvicina ormai a una catastrofe generalizzata, o almeno ne è capace, e che da se stessa si spinge meno a rettificare quest’orientamento (riformandolo, assecondandolo o contrariandolo) che a pensare a cosa possa volere dire questa strana storia che ha essa stessa provocato, e di conseguenza, in tutta semplicità, l’esistenza del mondo o dei mondi di cui gli uomini sembrano essere molto seriamente i responsabili.
Fukushima, all’inizio del XXI secolo, ravviva timori e interrogativi che il XX secolo aveva scatenato per la prima volta su vasta scala e che il secolo precedente aveva fatto apparire, quel secolo che era stato il risultato della doppia rivoluzione industriale e democratica e che era stato quello dei “borghesi conquistatori”.
Questa conquista si è mutata improvvisamente in dominazione non più dei “borghesi”, ma della macchina che essi avevano servito, e nella dissipazione di ciò che sembrava donare senso o valore a questa conquista. Senso o valore – ciò che Marx diceva alienato sotto l’equivalenza generale – che divengono essi stessi catastrofici: sarebbe a dire, secondo l’etimologia greca, sconvolgimento, capovolgimento, e crollo.
Il finale della tragedia greca nella katastrophè portava il dramma allo stesso tempo al suo estremo e alla sua risoluzione – purificazione, espulsione, congiura, abreazione, liberazione, spossessamento, come si vorrà: la storia delle interpretazioni della katharsis è interminabile.
Ma questa storia è anche la storia della nostra ossessione: non abbiamo mai ritrovato il senso della tragedia, supponendo che ci fosse un senso da ritrovare e che il “senso” non sia mai ciò che s’inventa, ma ciò che si recupera.
Noi non siamo più né nel senso del tragico, né in quello che, con il cristianesimo, si pensò avesse trasposto e risolto la tragedia in salvezza divina. E non possiamo nemmeno dimorare in una qualche saggezza confuciana: l’equivalenza non lo permette, a dispetto di tutte le buone intenzioni. Noi siamo nella catastrofe del senso. Non ci impressiona nascondere questa esposizione sotto stracci rosa, blu, rossi o neri. Rimaniamo esposti e pensiamo ciò che ci accade: pensiamo che siamo noi che arriviamo, o che partiamo.