Crepe nella vetrina olimpica: il caso di Montreal 1976

Nonostante il divieto del CIO di dare vita a manifestazioni di protesta nel corso della cerimonia di inaugurazione e delle premiazioni, anche Tokyo 2021 è stato caratterizzata da numerosi episodi di dissenso. Del resto ogni edizione olimpica ha portato con sé, in modo più o meno marcato, un carico di istanze politiche e civili, a riprova di come lo sport sia profondamente legato al contesto sociale del momento. Su Scenari ricordiamo uno dei casi più clamorosi, quello di Montreal 1976, proponendo un estratto dal libro di Gioacchino Toni e Alberto Molinari Storie di sport e politica (Mimesis Edizioni, 2018).

Riunito ad Amsterdam nel maggio 1970 il Comitato Internazionale Olimpico, chiamato a scegliere fra tre candidature (Mosca, Los Angeles e Montreal), vota la città canadese come sede delle Olimpiadi del 1976.
Per i Giochi si sono battuti il sindaco di Montreal Jean Drapeau e le istituzioni sportive canadesi, non altrettanto il governo del Quebec, preoccupato per i costi dell’impresa. La designazione olimpica prevede infatti la costruzione di nuovi grandi impianti sportivi (lo stadio olimpico, il velodromo, la piscina olimpica, il centro di atletica, il villaggio olimpico con le residenze degli atleti) e l’ammodernamento delle strutture esistenti, oltre ad ingenti investimenti per la sicurezza considerati più che mai necessari dopo gli eventi di Monaco. A fronte di questo impegno economico, il governo canadese dà il proprio consenso alla candidatura solo dopo aver ricevuto dal comitato organizzatore e dalla città la garanzia che non vi saranno richieste per ripianare eventuali deficit.

Il percorso verso la competizione olimpica è tormentato. I lavori di costruzioni sono interrotti da numerosi scioperi degli operai che protestano per i bassi salari, i turni massacranti, il continuo ricorso a straordinari. Anche a causa dell’inflazione, le spese lievitano in modo impressionante: partiti da un preventivo iniziale di 125 milioni di dollari, nel 1973 i costi salgono a 310 milioni e nel 1975 risultano decuplicati rispetto alle prime previsioni.
Nonostante l’ottimismo ostentato da Roger Rousseau, presidente del Comitato organizzatore olimpico, tra ritardi, scandali legati a operazioni speculative, contrasti tra gli organizzatori e le autorità politiche canadesi, ostilità che provengono da membri del CIO i Giochi sembrano a rischio, tanto che negli ambienti olimpici circolano voci su un possibile spostamento di sede (si parla di Teheran e di Città del Messico).

Presentati come le Olimpiadi del “riscatto” dopo la tragedia di Monaco, i giochi canadesi rischiano di naufragare anche per questioni politiche. La prima “grana” per gli organizzatori riguarda la richiesta di Taiwan di presentarsi come “Repubblica di Cina”. All’inevitabile protesta della Repubblica popolare cinese, esclusa dal CIO a vantaggio di Taiwan, fa seguito l’intervento del governo canadese, legato da interessi economici alla Cina maoista. L’8 luglio 1976 viene negato il visto di ingresso in Canada agli atleti di Formosa; a sostegno di Taiwan si schierano gli Stati Uniti, che minacciano un boicottaggio dei Giochi. Il caso si chiude quando, di fronte alla fermezza canadese e alla decisione del CIO di non avvallare la richiesta dell’isola cino-nazionalista, Taiwan rinuncia all’Olimpiade.

Poco dopo Montreal è il teatro dell’ultima mobilitazione antirazzista nei giochi olimpici degli anni Settanta. Il bersaglio è ancora una volta il Sudafrica. Nel mirino sono gli stretti legami sportivi tra la Nuova Zelanda e il Sudafrica, in particolare in campo rugbystico.
Alla vigilia dell’apertura dei giochi canadesi la nazionale di rugby neozelandese è impegnata in una tournée sudafricana, in coincidenza con l’ondata di proteste contro il regime di Pretoria suscitata dalla durissima repressione della rivolta esplosa a Soweto, dove studenti e docenti neri si ribellano contro un decreto governativo che impone in tutte le scuole l’utilizzo dell’afrikaans, la “lingua degli oppressori”. La violenza del governo razzista – negli scontri con la polizia muoiono centinaia di manifestanti – suscita l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale e nuove sanzioni da parte della Nazioni Unite.

In questo clima, su proposta della Tanzania, il 3 luglio 1976 il Consiglio Superiore dello Sport Africano chiede al Comitato organizzatore canadese di revocare l’invito di partecipazione alla Nuova Zelanda e dichiara che, in caso contrario, verrà proclamato il boicottaggio dei giochi. Il CIO sostiene di non poter intervenire, dato che il rugby non è una disciplina olimpica. La risposta del mondo sportivo africano è decisa: tranne Costa d’Avorio e Senegal, tutte le squadre africane lasciano le Olimpiadi. Si apre un nuovo conflitto emblematico – rileva l’«Unità» – della crisi di identità dell’olimpismo e del suo modo di intendere la “fratellanza”.

Dall’Africa lo scossone al mito olimpico

In certo senso, la “storia” della protesta dei Paesi africani appare persino emblematica di ciò che sono ormai diventate le Olimpiadi oggi, di come certi processi siano maturati e di quanto profondo sia il contrasto tra diverse concezioni sul modo di intendere la “fratellanza” che dovrebbe germogliare all’ombra dei giochi. […] Adesso, il rifiuto dei Paesi africani segna una nuova tappa nell’identità – e anche nei problemi – dei giochi olimpici, una tappa che viene dopo i pugni chiusi levati in alto dai neri USA a Città del Messico nel ’68, e dopo il massiccio e compatto “no” che portò alla cacciata dei razzisti rhodesiani a Monaco nel ’72. Il segno, appunto, che qualcosa continua a muoversi. […] E adesso, anche se molti si interrogano sui retroscena della vicenda sospettandoli non completamente limpidi – perché non dirlo? C’è anche chi ipotizza una sorta di colpo basso verso i Giochi di Mosca dell’80 montato da oscure influenze cinesi – resta il fatto che per la prima volta le Olimpiadi si sono trovate a partire zoppe, prive di atleti fra cui nomi prestigiosi come quelli di Akii-Bua.

Marcello Del Bosco (“l’Unità”, 19 luglio 1976)

La vicenda mostra quanto sia stretto il rapporto tra sport e geopolitica. Il ruolo della Cina, adombrato da Marcello Del Bosco sull’”Unità”, è richiamato anche in un intervento di Elio Trifari sulla “Gazzetta dello sport”, in relazione all’ambizione cinese di rompere l’egemonia USA-URSS e di porsi come Paese-guida del Terzo mondo. L’inviato del “Corriere della sera” Dino Frescobaldi si sofferma su altri risvolti geopolitici: dalla capacità della questione razziale di compattare il continente africano nonostante le profonde divisioni che lo attraversano, alle ferite provocate dal dominio coloniale.

Leso olimpismo per futili motivi

In effetti, nostra sensazione è che non debba essere estranea all’iniziativa l’opera che la Cina di Mao ha avviato nel Terzo Mondo, allo scopo di rompere il fronte della lottizzazione USA-URSS. All’evidente richiamo di un gesto del genere per i problemi dell’Africa in generale, e dei negri sudafricani e rhodesiani in particolare, si potrebbe quindi aggiungere questo motivo: del resto USA e URSS […] sono state fra le nazioni più pronte a deplorare il gesto africano. Gli americani per la difesa degli ideali dell’olimpismo cui continuano a credere fermamente, a parole, assieme ai vecchi bambini del CIO; i sovietici, forse, non soltanto per difendere la creatura che hanno in grembo, i Giochi del 1980.

Elio Trifari (“La Gazzetta dello sport», 19 luglio 1976”)

Uniti a Montreal, divisi in Africa

Si può protestare contro la “politicizzazione delle Olimpiadi”, ma non si possono ignorare il monito politico che scaturisce da certi fatti né le cause che li hanno prodotti. […] Il senso della vicenda sta nella compattezza mostrata da tutta l’Africa, al di là delle sue grandi distanze geografiche ed etniche, delle differenze storiche e dei delicati problemi di assestamento che mai come oggi ne pongono in risalto le divisioni ed il travaglio. […] Dietro il boicottaggio delle olimpiadi da parte dei paesi africani, col pretesto della partecipazione neozelandese, stanno problemi non risolti, acuti contrasti interni e, non ultimo, episodi come quello di Entebbe che, quali ne siano state le ragioni, hanno certo avuto il potere di riaprire il conto delle umiliazioni e del rancore verso il mondo avanzato presso popolazioni condizionate dal loro passato coloniale. […] Soltanto la comune avversione al Sudafrica razzista e segregazionista può far uscire in questo momento l’Africa dalle sue contraddizioni. E appunto questo è accaduto in Africa. Per questo l’unità africana è stata questa volta così immediata, per questo lo schieramento sulle posizioni sostenute dagli oltranzisti è stato generale, al di là delle resistenze dei Paesi moderati e delle notevoli diversità dei singoli governi.

Dino Frescobaldi “Corriere della sera”, 24 luglio 1976

Privi degli atleti africani, i Giochi iniziano il 17 luglio. Vista in una prospettiva politico-sportiva, dopo Grenoble, Città del Messico e Monaco la manifestazione di Montreal rappresenta un’altra tappa del declino dell’ideologia olimpica.
Il fastoso cerimoniale d’apertura e i rituali appelli alla fraternità olimpica non possono nascondere le tensioni che si manifestano nella città canadese, attraversata da scioperi e manifestazioni di protesta e “militarizzata” per il timore di attentati terroristici. Le misure di sicurezza alimentano la separatezza del mondo dello sport dalla realtà circostante: il Villaggio olimpico è una “fortezza” che isola gli atleti dal mondo esterno e l’albergo che ospita i membri del CIO è circondato dalle forze dell’ordine.

Sport in festa (con sedicimila “gorilla”)

Il Canada è un Paese ricchissimo ma non è esente, forse proprio per la sua ricchezza, dai travagli che dominano la società moderna. […] ogni giorno, le proteste dei lavoratori bloccano qualche settore della produzione o del commercio od anche dei servizi pubblici. […] Chi in automobile o a piedi si recava in questi giorni a vedere il villaggio olimpico ha comunque avuto modo di assistere alle manifestazioni di chi ha motivo di non essere contento dei miliardi spesi per organizzare i giochi. I “senza casa” di Montreal hanno mandato ieri i loro bambini con grossi cartelli a stazionare davanti al villaggio olimpico. “J’ai faim”, io ho fame, dicevano semplicemente i cartelli, posti di fronte ai miliardi spesi per le faraoniche piramidi dove sono alloggiati gli atleti. Così si è saputo che anche in Canada c’è chi ha poco da mangiare e, soprattutto, lo hanno visto i giovani di tutto il mondo.

Cristiano Chiavegato (“La Stampa”, 17 luglio 1976)

Il Villaggio Olimpico sembra una fortezza

Seimila uomini tra forze di polizia della città, dei servizi di sicurezza della regione del Quebec e delle “giubbe rosse” sono state mobilitate per assicurare il regolare svolgimento dei Giochi. […] Il Villaggio Olimpico è una fortezza nella città, una zona “off limits” da dove gli atleti non possono uscire, se non accompagnati da speciali permessi, e dove sono rare e privilegiate le visite dei giornalisti. […] Una volta superato il controllo del documento di identità, il visitatore o l’atleta devono passare per una porta munita di un apparecchio che segnala immediatamente se il soggetto è in possesso di armi. Questo segnalatore di metalli è di una sensibilità estrema e basta qualche moneta per far scattare il segnale di allarme. […] Lo stesso tipo di misure di sicurezza sono in vigore all’ingresso degli stadi, della piscina e di tutti gli altri impianti olimpici, ove nessun contatto tra atleti e non atleti è consentito. L’hotel “Regina Elisabetta”, che ospita i membri del CIO, è anch’esso circondato da una vera e propria cintura di sicurezza.

“La Gazzetta dello sport”, 13 luglio 1976

Nelle riflessioni che accompagnano la preparazione e lo svolgimento della manifestazione si condensano diversi motivi della crisi sistemica che attraversa il movimento olimpico.
Sul “Corriere della sera” Giulio Nascimbeni ragiona sul “giocattolo rotto” dell’utopia olimpica, Mario Gherarducci sul tramonto di un mito. Sul quotidiano socialista l’”Avanti!” Carlo Marcucci ricostruisce il filo che lega le ultime edizioni olimpiche, mentre Marcello Del Bosco sulle pagine dell’”Unità” si sofferma sulla dimensione faraonica assunta ancora una volta dalle Olimpiadi.

Il giocattolo rotto delle Olimpiadi

L’Utopia contemporanea è l’Olimpiade. […] Si apre con un giuramento di dilettantismo puro e astratto nel quale nessuno più crede, ma che è bello ripetere nel grande silenzio di uno stadio. È una sagra, e come tutte le sagre comporta programmi d’abbondanza e di festa: un villaggio per gli atleti, impianti sportivi nuovissimi, divise, inni, medaglie e bandiere. L’abbondanza trascina debiti, a Montreal li pagheranno entro la prima decade del Duemila. […] Olimpico, come insegnano i vocabolari, vuole anche dire imperturbabile, calmo, sereno. A Montreal non è proprio questo il clima, ma i vecchi signori del comitato continuano a sperare nell’abbraccio universale che un giorno unisca israeliani e arabi, sudafricani bianchi e popoli negri, cinesi di Pechino e cinesi di Formosa, coreani del Nord e coreani del Sud. Eppure, il giocattolo rotto funziona ancora. […] Non so per quanto tempo ancora l’Utopia organizzata dell’Olimpiade saprà resistere. Tra quattro anni i giochi si svolgeranno a Mosca. C’è chi sostiene che sarà l’ultimo atto della storia cominciata ad Atene nel 1896. È un’ipotesi probabile. Destino dell’Utopia non è, del resto, il cemento o il cronometro elettronico, ma un’isola deserta.

Giulio Nascimbeni (“Corriere della sera”, 16 luglio 1976)

Tramonto di un mito

Adesso – mentre la fiaccola, passando di mano in mano, corre verso lo stadio – ci si chiede se i Giochi di Montreal saranno destinati a passare alla storia come gli ultimi dell’era moderna, se vi saranno mai altre città disposte ad affrontare i disagi, le spese, i travagli e le polemiche che hanno accompagnato l’organizzazione olimpica canadese, se la diffusione ormai gigantesca dello sport nel mondo riuscirà a sottrarsi alle sempre più ineluttabili ingerenze della politica, provocando “casi” analoghi a quelli della Rhodesia ’72 e di Formosa ’76. La risposta non può che essere amaramente positiva. Forse le Olimpiadi vivranno per altri quattro anni, fino all’appuntamento del 1980 a Mosca […]. Ma poi? Poi – in Africa o in Europa, in Asia o in America – riaffioreranno i contrasti politici, si rialzeranno le bandiere ideologiche, riemergeranno le tensioni razziali, si riproporranno i condizionamenti più pericolosi. Ed allora, meglio smettere ed arrendersi al tramonto del mito di Olimpia, confessando che la pretesa di far sentire amici i giovani di tutto il mondo – bianchi e neri, poveri e ricchi, belli e brutti – è ormai soltanto una patetica illusione.

Mario Gherarducci (“Corriere della sera”, 17 luglio 1976)

Ma è ancora Olimpiade?

I giochi olimpici dell’epoca moderna si disputano da ottant’anni. Ma lo spirito olimpico che, secondo alcuni interpreti di De Coubertin (ma lui stesso non ne è mai stato troppo convinto) avrebbe dovuto favorire la comprensione tra i popoli grazie all’incontro pacifico che sul terreno delle competizioni si effettuava tra la gioventù sportiva, è morto da un pezzo. Lo hanno ucciso i “granaderos” della polizia messicana nell’ottobre del 1968, quando fecero strage sulla folla degli studenti che protestavano, nella Piazza delle Tre Culture a Città del Messico […]. Lo hanno sepolto definitivamente quattro anni dopo gli organizzatori della XX Olimpiade di Monaco di Baviera quando, allo scopo di non interrompere lo svolgersi delle gare, architettarono la “soluzione finale” all’aeroporto di Fürstenfeldbruck facendo perire in un unico rogo i fedayn che avevano operato la tragica incursione al Villaggio olimpico e gli ostaggi che i fedayn si erano trascinati dietro.

Carlo Marcucci (“Avanti!”, 17 luglio 1976)

A Montreal solo polemiche sui miliardi sprecati

Il simbolo di questi Giochi nasce monco. L’enorme torre che doveva slanciarsi sullo stadio olimpico come una rampa di lancio verso le stelle rimane un ammasso di cemento e travature di ferro che forse non sopravvivrà neanche all’arrivo del grande freddo. […] E siamo alle solite. Ormai per parlare di Olimpiadi, sempre più faraoniche, tentacolari, divoratrici bisogna dare la precedenza alla contabilità e il bilancio segna rosso da tutte le parti. Secondo il preventivo iniziale le Olimpiadi dovevano costare 310 milioni di dollari. Adesso, soltanto lo stadio – che si pensava dovesse costare 124 milioni – è costato 780 milioni di dollari: una cifra astronomica, ben più fantascientifica della costruzione, e oltretutto costellata da guai, scandali e ruberie. […] Sul costo complessivo dei Giochi si può tirare a indovinare. Secondo il Comitato olimpico canadese siamo a 1 miliardo e 300 milioni di dollari: il sindaco di Montreal, Jean Drapeau, parla di 1 miliardo e 400 milioni: numerosi anonimi ben informati invece affermano che si tratta di cifre “tranquillizzanti” e che altri milioni di dollari sarebbero stati nascosti tra le pieghe di impensabili e oscuri bilanci.

Marcello Del Bosco (“l’Unità”, 13 luglio 1976)

In chiusura dei giochi, diversi commenti prendono spunto dall’affermazione di Monique Berlioux, direttrice generale del CIO, che parla di “giochi senz’anima”: freddezza e ipocrisia, consumismo e sprechi vengono avvertiti come le cifre della manifestazione.

Addio all’Olimpiade dell’ipocrisia

“È stata un’Olimpiade senz’anima” ha detto nei giorni scorsi Monique Berlioux, la direttrice generale del CIO, scatenando le furenti reazioni canadesi. Ma è la verità, pur se nessuno ne ha colpa. È stata l’Olimpiade dell’ipocrisia. Per quindici giorni si è finto di dimenticare che al simbolo dei giochi mancava uno dei suoi cinque cerchi, quello che indica il continente africano, e che talune competizioni avrebbero potuto avere un altro esito se in gara ci fossero stati i campioni del continente nero. Per quindici giorni si è simulata noncuranza di fronte al fatto che sulle ribalte dei giochi non sia apparso neppure un atleta cinese, fosse un rappresentante della piccola Formosa o della sconfinata Repubblica popolare di Mao.

Mario Gherarducci (“Corriere della sera”, 2 agosto 1976)

La solita coreografia ha chiuso con disagio i giochi dello spreco

La kermesse olimpica è finita com’era cominciata: all’insegna dell’incertezza, della confusione, del disagio […]. Un epilogo, insomma, che si attaglia a perfezione a questa Olimpiade degli sprechi e del consumismo, dei record e delle ripicche, della freddezza e dell’enfasi, delle “giubbe rosse” e della CIA. […] Svuotati di folla e di bandiere, silenziosi e ancora umidi di calce e di tinta, gli impianti olimpici sembrano davvero grotteschi monumenti alla megalomania: alcuni non saranno mai completati […]; altri resteranno per sempre le cattedrali nel deserto di sport sconosciuti. A che cosa mai servirà il più grande velodromo del mondo in un Paese che spasima per l’hockey su ghiaccio e il baseball?

Marcello Del Bosco (“l’Unità”, 2 agosto 1976)

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica (Mimesis Edizioni, 2018)

Anche “Rinascita” coglie l’occasione dei Giochi di Montreal per aprire un discorso sullo sport, inusuale per la rivista culturale del PCI. In un lungo articolo Luciano Minerva si interroga sul tramonto degli ideali decoubertiniani e sulla possibilità di rivedere radicalmente la formula olimpica.

Il tramonto delle Olimpiadi

I caratteri che il barone De Coubertin aveva impresso alla restaurazione del mito classico di Olimpia si sono via via alterati; ciò non è avvenuto però con un aggiornamento graduale, che stesse al passo con la realtà contemporanea; i mutamenti sono avvenuti in contrasto con la conservazione quasi religiosa di strutture, concezioni, riti di cui tutti gli organismi sportivi dei vari paesi e gli organismi internazionali si fanno in qualche modo difensori, nonostante l’anacronismo e l’ipocrisia evidenti. […] Ma quali revisioni si possono apportare? I principi di fondo, quali la condizione di dilettante (o quasi dilettante), la competizione per atleti e non per nazioni, la contemporaneità di svolgimento di decine di discipline, l’assenza di condizionamenti politici e speculativi, oltre ad essere quelli più in crisi, sono anche gli unici a reggere lo svolgimento della manifestazione quadriennale. Aggiornare seriamente – sulla base della situazione reale che si è determinata – vorrebbe dire rinunciare in misura maggiore o minore a tutti questi cardini, e quindi smontare il delicato castello decoubertiniano, sostituendo le Olimpiadi con una serie di campionati mondiali delle varie specialità. […] Coesistenza, pace e sviluppo della solidarietà internazionale e miglioramento delle capacità umane possono essere davvero criteri ispiratori anche dello sport internazionale. Ma c’è da chiedersi quanto di tutto ciò sia ancora recuperabile nella retorica olimpionica, che ipotizza nello sport l’esistenza di una zona neutrale, avulsa dal contesto sociale.

Luciano Minerva (“Rinascita”, n. 31, 30 luglio 1976)

Dando voce a un’opinione che si è ormai diffusa negli ambienti sportivi politicamente più maturi, Kino Marzullo e il direttore di “Tuttosport” Gian Paolo Ormezzano propongono come “cura” per le “patologie” delle Olimpiadi un loro drastico ridimensionamento, unica via, scrive Antonio Ghirelli, per restituire al movimento sportivo olimpico “una parvenza di umanità e di razionalità”.

Fare più piccoli i Giochi perché restino grandi

Secondo noi l’unica cura possibile è la sdrammatizzazione dei Giochi, e l’unico modo per sdrammatizzarli consiste nel ridurli d’importanza diciamo politica nel senso deteriore del termine. Cioè anche ridurli di programma. Il palcoscenico – ecco la lezione di Montreal – è diventato troppo grande e troppo comodo per chiunque voglia restare fuori dalle gare. Al limite della bestemmia, diciamo che il pubblico è diventato troppo vasto, e che questa è una fregatura. Mutilare i Giochi di una parte enorme del programma, cominciando da tutti gli sports di squadra, che hanno i loro campionati mondiali e che sono vettori di nazionalismo spinto, è l’unico modo per salvarli, per riportarli a dimensioni di uomini, togliendoli ai giocacci delle nazioni, ai demagoghi. Noi, che riteniamo lo sport inscindibile dalla politica, siamo forse più avanti, sulla strada della liberazione dello sport dalla soggezione alla politica, di chi si proclama sportivo puro e semplice, e in nome di ciò si ubriaca con giochi di dimensioni pazzesche, “trionfo dello sport, di tutti gli sport”.

Gian Paolo Ormezzano (“Tuttosport”, 19 luglio 1976)

Le olimpiadi possono guarire

Con Città del Messico, Monaco, Montreal i Giochi hanno raggiunto dimensioni – e quindi costi – tali da rendere evidente che in queste condizioni possono essere organizzate solo da Paesi molto ricchi o da Paesi poveri, i cui governi cerchino, nei Giochi, un’occasione di prestigio, un diversivo rispetto ad altri problemi, un momento alienante per occultare realtà interne: dopodiché i problemi resteranno quelli di prima, inaspriti dal prezzo pagato. In altri termini la politica – la tanto aborrita politica dei santoni del CIO – diverrebbe l’autentica protagonista ma nel suo aspetto meno apprezzabile. E di fronte a questo varrebbe allora la pena di prendere in considerazione la proposta – che è stata avanzata in questi giorni – di far disputare i Giochi sempre e solo in Grecia: potrebbe avere un significato, costituirebbe, alla lunga, un risparmio, eviterebbe il monopolio dei Paesi ricchi.

Kino Marzullo (“l’Unità”, 3 agosto 1976)

Da Monaco a Montreal

A questo punto bisognerebbe fermarsi per restituire ai Giochi una parvenza di umanità e di razionalità. Bisognerebbe eliminare inni e bandiere, magari anche rappresentanze nazionali; sfoltire il programma; tagliare le spese; escludere col massimo rigore ogni tipo di incentivazione bio-chimica. Ma è da chiedersi se una simile utopia sia realizzabile in un mondo tuttora dominato da due super-potenze, tuttora lacerato dall’odio e dall’interesse, tuttora immiserito dalla criminale corsa al riarmo e alla contaminazione atmosferica.

Antonio Ghirelli (“La Stampa”, 17 luglio 1976)

Alberto Molinari – Gioacchino Toni


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