“Un suono discende da molto lontano
Assenza di tempo e di spazio
Nulla si crea, tutto si trasforma
La luce sta nell’essere luminosi”
Franco Battiato, Torneremo ancora
Esiste una filosofia del linguaggio ed esiste un linguaggio della filosofia. Linguaggio che non è mai indolore. Nascosto sotto i tiepidi fili della prosa, quanto più la filosofia si è fatta novecentesca tanto più si è andato affinando in essa un certo gusto per il ribaltamento, un certo sentimento di apocatastasi – tra le righe, una lacerazione.
Violenza e metafisica di Jacques Derrida, capitolo de La scrittura e la differenza che vale quasi come un libro a sé, appartiene decisamente a questa linea stilistica, a questa linea di linguaggio. Presentato come un commento alla filosofia del coevo Emmanuel Levinas – commento che non tarda a farsi, e dichiaratamente, filosofia originale – Violenza e metafisica è innanzitutto un’immaginifica avventura tra le potenzialità che il linguaggio umano ha di esprimere, ma anche di ribaltare, i propri concetti. Nel classico discorrere derridiano – ondeggiante, evocativo, che contamina i grandi temi della tradizione con intuizioni originali e pregnanti – Violenza e metafisica si pone allora in un primo momento come un omaggio a Levinas, che non tarda a rivelarsi serrata e appassionata analisi della sua filosofia, che non indugia ad avanzare alcune critiche.
Le architetture filosofiche di Emmanuel Levinas e Jacques Derrida, complice la comune ascendenza ebraica dei due pensatori, sono sempre apparse come animate da una feconda convergenza, al di là di specifiche prese di posizione a volte dissimili – “il piacere di un contatto nel cuore di un chiasmo”, avrebbe formulato Levinas stesso. In entrambi, grande spazio è destinato alla tematica dell’Alterità: l’Altro colto soprattutto come Volto da Levinas, e risemantizzato come Autrui, in un’apertura trascendente alla possibilità e alla necessità dell’incontro; l’Altro costantemente indagato e cercato – fin nel tema dell’animalità – anche da Derrida, ma al tempo stesso relativizzato e problematizzato, scorto nella sua irraggiungibilità, nella sua differanza fondatrice di pensiero.
Jacques Derrida, con Violenza e metafisica e soprattutto con la sua terza sezione intitolata Differenza ed escatologia, insiste a mostrare la specificità ma anche la parzialità del valore che il discorso come incontro con il volto dell’Altro assume nell’architettura del pensiero levinassiano; discorso che Levinas quasi santifica, e di cui invece Derrida si premura ad evidenziare il carattere “originariamente violento”, in quanto destinato a serbare in sé “essenzialmente… lo Stesso”. Nell’ambito di questo discorso sul discorso, c’è un inciso di Derrida che, giocando con le parole, mostra bene quanto labili siano alcuni paradigmi di pensiero che da secoli albergano il pensiero occidentale, e quanto in generale la filosofia stessa sia in un certo senso dominata e soggetta al linguaggio come strumento creativo autonomo di concettualizzazione:
“L’alterità infinita come morte non può conciliarsi con l’alterità infinita come positività e presenza (Dio). La trascendenza metafisica non può essere nel medesimo punto trascendenza verso l’Altro come Morte e verso l’Altro come Dio. A meno che Dio non voglia dire Morte, cosa che dopo tutto non è mai stata esclusa se non dalla totalità della filosofia classica, all’interno della quale noi l’intendiamo come Vita e Verità dell’Infinito, della Presenza positiva”
“Se non dalla totalità della filosofia classica”: quest’ulteriore sub-inciso fa capire quanto Derrida sapesse relativizzare e de-sacrare il pensiero occidentale, macchiatosi di un andamento totalizzante, incapace di cogliere le proprie sfumature. Fatto sta che, davanti a un’apparente antitesi che contraddice ogni principio di non contraddizione scomodando tre dei concetti più liminari del nostro pensare (l’Altro, la Morte, Dio), Derrida si diverte a proporre una sintesi logicamente consequenziale tra queste due tesi opposte: un’equivalenza, quantomeno semantica, tra Dio e Morte, tra l’Infinito e il marchio indiscutibile della nostra finitezza. E la prende sul serio, almeno per un momento, quest’eventualità che Dio “voglia dire Morte”, che Dio vada inteso non più come una Presenza positiva, ma come un’Assenza negativa, o peggio ancora un’Invisibilità negativizzante, nullificante.
È evidente che dietro a quest’affermazione paradossale c’è un’inversione assoluta nei rapporti di pensiero: un po’ come essere religioso senza avere fede. Poteva permettersela solo un pensatore ebreo, lucidamente ebreo, nel silenzio della diaspora e dopo quel paradosso di anti-Esodo che era stata la Shoah. Il sacro come effrazione dell’umano è un concetto a cui può pervenire solo chi abbia lungamente meditato – senza dogmatismi – sulla lotta tra Giacobbe e l’Angelo, o sul dolore atavico di un Giobbe. Del resto, questo derridiano “A meno che Dio non voglia dire Morte” ribalta anche gli assunti più recenti del pensiero occidentale, di un pensiero che aveva goduto e tremato a scoprirsi ateo: non più “Dio è morto” ma “Dio è Morte”. Neanche gli gnostici arrivavano a tanto. Questo è l’esito simmetrico e ancora più radicale della cinosi, che già era uno dei più forti concetti-limite che la teologia giudaico-cristiana era riuscita a partire.
Questo di Derrida non è che un inciso, come abbiamo detto sin dall’inizio: “A meno che Dio non voglia dire Morte” è una pausa, nello svolgimento di un pensiero ben più ampio. Poche parole di uno dei tanti paragrafi di una delle sezioni di Violenza e metafisica, che non è che un capitolo dell’opera-magna di Jacques Derrida – eppure, rispondendo all’invito di Derrida stesso, vale la pena prenderlo almeno momentaneamente sul serio, quest’inciso, per addentrarci in una folgorazione labirintica che da sola ristruttura, in via ipotetica, molti degli assunti del pensiero occidentale.
Questo semplice dubbio “A meno che Dio non voglia dire Morte”, formulato en passant nel contesto di un discorso molto più ampio sul discorso e sull’Alterità, opera un doppio spostamento concettuale – riparandosi, al tempo stesso, dietro il velo deresponsabilizzante dell’ipotesi, dell’ipotesi provocatoria e ironica: “a meno che…”, “sempre che…”, “tante volte…”. Prendiamoci un momento per contemplare in tutta serietà quest’ipotesi: se Dio davvero volesse dire Morte, questo giustificherebbe le catastrofi.
Questo responsabilizzerebbe Dio di un’oscura complicità su tutto ciò che di feroce ed epocale si è consumato nel Novecento, in primis. Dio e la Storia, quindi: Dio sopra la Storia, ma anche Dio negli interstizi più oscuri del tempo mondano. Nel macrostorico come nel microstorico, nella cronaca tanto quanto nella biografia. Non possiamo però neanche negare gli aspetti salvifici di un tale inciso. Se Dio è Morte, i nostri cari perduti non ci sono stati necessariamente “strappati” da Lui: a cambiare appena l’ottica di questo sguardo, si può anche dire che da Dio siano stati raccolti. L’esserci accaniti tanto su questa frase ha una seconda e più originaria motivazione, al di là del brivido ermeneutico che pure comporta: quest’inciso di Jacques Derrida contiene una speranza laicissima di non-resurrezione, coagula una visione d’insieme atea e immanente – e pertanto presente – di Dio pienamente accettabile per una mentalità laica, se si prende atto di questo spostamento di significato. Dio muore per gli uomini, l’uomo muore per Dio, per raggiungere Dio, l’uomo muore per gustare una Morte che sarebbe Dio – “morire per l’invisibile, ecco la metafisica”, diceva proprio Levinas.
Quest’inciso di Derrida, se applicato con rigore su tutto il patrimonio concettuale occidentale – certo non solo in ambito teologico – avrebbe potenzialità uniche di fare il “contropelo” a ogni concetto: non perché Derrida qui miri a un ribaltamento dal sapore nietzschiano di luoghi comuni del logos occidentale, non in questo caso, ma perché quest’inciso aprirebbe prospettive nuove, fecondamente stranianti, su ogni riflessione circa Dio, la vita e soprattutto la morte.
Dicendo “A meno che Dio non voglia dire morte”, l’autore de La scrittura e la differenza e L’animale che dunque sono opera, simulando noncuranza, uno sconvolgimento momentaneo e programmatico di talmente tante coordinate del nostro pensiero comune e filosofico che forse neanche Nietzsche avrebbe contemplato, forse solo Cioran. Dio, la positività assoluta, e la Morte, la negatività assoluti, fatti coincidere, fatti simmetricamente invertire di posto: con ogni evidenza, se Dio è l’Altro e la Morte e l’Altro e Dio è la Morte, è il concetto di “Stesso”, il principium individuationis ad essere portato metaforicamente alla sbarra.
Non che questa svalutazione/relativizzazione/messa-in-questione dello Stesso voglia essere meramente accusatoria – sarebbe un capriccio, e rispetto a un Levinas Jacques Derrida è fin troppo consapevole dell’inevitabile permanenza dello Stesso, e quindi di un margine di violenza, in ogni discorso fino ad arrivare alla metafisica. Al tempo stesso però quest’inciso di Derrida mostra anche dei margini di liberazione, per lo Stesso. Anche l’Addio a Emmanuel Levinas – l’orazione funebre che Derrida pronunciò per l’amico e il collega alla sua morte nel 1996, per poi pubblicarla assieme ad altri testi l’anno dopo – forse risente sottotraccia di quest’identificazione tra Dio e Morte. È sin dalle prime righe che Derrida – ancora una volta – gioca con il linguaggio, gioca con le parole, gioca con l’assonanza tra adieu e à-Dieu, “a-Dio” – tanto più che in francese la parola adieu si nutre di un’ambiguità semantica tra il nostro “addio” e un più sereno “arrivederci”. Se lo Stesso si dissolve nella Morte che si identifica con Dio che non è altro che l’Altro, forse la stessa caducità umana può essere rivalutata. Riecco dunque la portata salvifica di quest’inciso, senza scomodare irrazionalismi – “Niente resurrezioni, per favore”, come lo scrittore ebreo tedesco Fred Uhlman intitolò un suo romanzo bello e fumoso.
Ma forse stiamo dedicando troppo spazio a deduzioni che, dal suo inciso, Derrida non esplicita neppure. Tentazione comprensibile: la vertiginosità di quest’inciso dischiude dei sensi abissali, ma non può essere decontestualizzato. Aggrapparci così tanto a questa mezza frase, portarla alle estreme conseguenze è quasi un derridianizzare Derrida, fare come faceva lui con Levinas, con Heidegger, con Lacan e altri autori a lui contemporanei o a lui passati. Ancor più può suggestionarci però una contaminazione tra Derrida – tra questo Derrida – e la filosofia di Heidegger, soprattutto dell’Heidegger di Essere e Tempo, colto un attimo prima della Svolta, e molto prima dell’”ormai solo un dio ci può salvare”.
Il concetto di “essere-per-la-morte” assumerebbe, alla luce di Derrida, un sapore stranamente rasserenante – Dio vi significherebbe, sempre e comunque e una volta ancora, “senso”, senso alla vita dell’uomo. Appare una volta di più necessaria quell’inquietante “comunicanza” tra ateismo e religione – da non confondere con la fede – che Ernst Bloch, un altro filosofo ebreo di quei tempi incerti, condensò nel suo celebre aforisma “solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”. Necessaria per portare avanti questo dialogo abissale – questo sì “originariamente violento” – condotto ai limiti stessi dell’esistenza. Esistenza che assume a questo punto, e per tutta la sua durata, i caratteri stessi di una continua estasi, come lasciava presagire la prosa di Derrida: se in ogni alterità in una certa misura si nasconde Dio, nel suo apparire a tratti violento, ogni incontro è teofania. Etimologicamente, l’estasi come essere “fuori-da-sé” non sarebbe che una precisazione dell’esistenza come ex-sistere, come “essere-fuori-da-?”.
Questo dubbio bellissimo e atroce di Derrida però si risolve. Dopo poche righe, Violenza e metafisica trova una parziale risoluzione al problema, a quest’inquietudine che ha colto il suo autore costringendolo a ribaltare, per via di ipotesi, uno dei concetti più scontati del pensiero occidentale – sarebbe stato più facile affermare risolutamente che Dio non è mai esistito, piuttosto che ipotizzare che voglia dire Morte. Rileggiamo innanzitutto le righe che circondavano quest’inciso:
Se il viso è corpo, è anche mortale. L’alterità infinita come morte non può conciliarsi con l’alterità infinita come positività e presenza (Dio). La trascendenza metafisica non può essere nel medesimo punto trascendenza verso l’Altro come Morte e verso l’Altro come Dio. A meno che Dio non voglia dire Morte, cosa che dopo tutto non è mai stata esclusa se non dalla totalità della filosofia classica, all’interno della quale noi l’intendiamo come Vita e Verità dell’Infinito, della Presenza positiva.
Detto questo, Derrida proseguiva:
Ma che cosa significa questa esclusione se non l’esclusione di ogni determinazione particolare? E che Dio non è nulla (di determinato) non è una vita perché è tutto? Ciò che significa che Dio è o si manifesta, è nominato nella differenza tra il Tutto e il Nulla, tra la Vita e la Morte, ecc. Nella differenza e in fondo come la Differenza stessa. Questa differenza è ciò che si chiama la Storia. Dio vi è inscritto…
Evidentemente, la risoluzione che trova Derrida al suo implicito interrogativo è ancora più profonda e vasta, nelle sue implicazioni, di quell’“A meno che Dio non voglia dire Morte” nel quale eravamo inciampati. E forse la conclusione che si può trarre, da questa mezza pagina di una sottosezione di quello che è appena un capitolo di un’opera ben più vasta quale La scrittura e la differenza, è che – senza estremismi ermeneutici, ma senza neanche sottovalutare la portata della riflessione di Derrida – se Dio esista o meno è una domanda mal posta; perché questo “Dio” da Derrida è esasperato e ridotto, disperatamente e prosaicamente, a questione di linguaggio e di significati. Onnipotenza della semiotica?