Se non fosse per studi come quello di Mario Farina (La dissoluzione dell’estetico: Adorno e la teoria letteraria dell’arte, Quodlibet, 2018) ci staremmo ancora abbarbicando intorno all’idea della morte dell’arte come unico momento in grado di reclamare autonomia per sé, senza poterne intravedere altrove, e in alcunché. Il risarcimento, invece, arriva grazie non tanto a una riabilitazione, quanto piuttosto a un dischiudersi di ciò che era stato già posto in essere, mentre la logica disgregativa trova sollievo con l’ampliamento dell’eredità adorniana mai afferrata fino in ultima istanza.
Quello di Farina non è uno studio su Adorno, quanto piuttosto uno studio che procede tramite Adorno per arrivare a ripensare uno dei proclami più ciclicamente dibattuti negli ultimi cinquant’anni (ovvero la morte dell’arte), il cui cadavere si sarebbe reso determinabile sono in virtù del contesto istituzionale di riferimento e della definizione specialistica. Dunque, se il rischio rispetto al quale si incorre è non solo la consunzione del materiale che pian piano viene reintegrato all’interno delle condizioni produttive, ma anche lo scivolamento dell’opera verso l’ornamentalità coatta e rivolta alla pura trasmissione di concetti, la dissoluzione disaminata dal filosofo tedesco trova possibilità di rivalsa proprio nella ricostruzione di un’estetica letteraria.
Farina non solo scagiona Adorno dalla patina “reazionaria” con cui vengono talvolta etichettati i suoi assunti e dalla presunta arretratezza della sua analisi, ma dimostra come all’interno di queste affermazioni si palesi il principio, ancora embrionale, della letterarietà dell’arte. In questo senso, risulta quanto meno immediato che Farina ripercorra le riflessioni adorniane che portano alla fissazione delle coordinate concettuali tramite cui definire la sua estetica, partendo proprio dalle ricerche giovanili e dai luoghi in cui si disvelano le tensioni costitutive: centrale, pertanto, si manifesta sin da subito il tentativo di definire l’opera in virtù della sua autonomia e della sua riuscita tramite il confronto con Kiekegaard, affrontato da Adorno nei suoi primi anni di esordio. Non a caso, dunque, il saggio si apre con un allaccio alla prima monografia del filosofo tedesco, Kierkegaard. La costituzione dell’estetico, in cui, alla luce della pista dialettica, si cerca di affermare l’estetica come dispiegamento della realtà storica (p. 33). Ciò viene a svilupparsi tramite l’analisi del rapporto fra particolare ed universale: volgere lo sguardo all’interiorità kierkegaarderiana, coglierla nella sua presunta astoricità, significa, in realtà, cogliere la storicità oggettiva nella presunta ontologia atemporale (p. 31) e creare un ponte che si apra sull’estetica. Se, perciò, l’io privo di oggetto è storico, in quanto fugge dell’imposizione del mondo oggettivo e, di fronte alla reificazione, si ritira nella propria interiorità, la stessa dinamica diviene la traccia tramite cui palesare il carattere autonomo dell’opera d’arte, in quanto l’autonomia si determina rispetto all’eteronomia stessa, in virtù di quella subordinazione rispetto al mondo sociale che rifiuta l’opera. In ciò è manifesta la dipendenza dell’estetica dalla realtà storica e, parimenti, il suo carattere di medicamento dialettico: se la legge formale intrinseca all’opera fa sì che essa non si lasci assorbire in un universale dato, ma continui a imporsi come qualcosa di necessario e di respinto alla realtà reificata, allora la discontinuità estetica si approssima a essere la rappresentazione migliore di fronte allo scioglimento dell’unità della vita preconizzato da Lukács. Ma non solo, perché volendosi addentrare ulteriormente, si chiarisce, a partire da queste intuizioni e arrivando fino al confronto con Benjamin, anche la priorità dell’estetico nel disvelare la dimensione irrigidita del processo storico. E infatti, Adorno indica con il termine “mito” la dimensione in cui si riuniscono tutti quei significati dell’agire umano che appaiono necessitati, originari rispetto alla storia stessa, ma che, marxianamente, sono già storici; e questa affermazione comporta che sia proprio l’estetica, in virtù della sua stretta correlazione con la dinamica sociale, a divenire effige di questo momento percepito come preistorico: mito, nuovamente, come elemento conciliato dell’opera, la riuscita dell’opera stessa, che viene respinta dalla società reificata, ma al contempo si manifesta come giudizio e condanna di quest’ultima (p. 42).
Va fatto notare che, come sottolinea Farina, saranno i testi successivi a precisare e risolvere alcune aporie comparse davanti al confronto con Kierkegaard, soprattutto in relazione alla dimensione della conciliazione dell’opera: affinché essa possa fungere come giudizio sul reale, non si può presupporre un recupero in una dimensione in cui il mito valga come origine; la conciliazione estetica è storica, ed è tale solo in virtù dell’inconciliatezza reale. Ciò comporta, quindi, che l’opera possa abbracciare le antinomie reali, calarle in forma riuscita e in questo modo alludere al loro superamento: in una parola, sublimare. Al contempo, lungi dal voler ricadere nel culto per l’originario, l’estetica deve rifiutare la venerazione dell’immediatezza e quel tipo di presentismo che squalificherebbe ogni sforzo; da qui la necessità di mediazione, cioè la capacità dell’opera di rifiutare la feticizzazione dell’esibizione di un contenuto immediato, a favore di un contenuto che si manifesti come lo scarto fra la forma riuscita e le contraddizioni che la compongono. Come ricorda Farina, leggere storicamente l’opera permette di leggere la società, poiché l’opera permette di conoscere le fratture sociali, mentre la società definisce l’opera in quanto artistica andando a mediare quelle fratture (p. 50).
Giunti a questa altezza, sebbene gli assunti adorniani sembrino aver trovato un terreno abbastanza solido su cui piantarsi, si palesa la necessità di sviluppare ulteriormente quanto affrontato dal filosofo tedesco, la cui maniera di costruire l’estetica avverte la cogenza di confrontarsi con un ordine superiore di problematizzazione: in primis, come ci mostra Farina, la necessità di prendere posizione rispetto alla filosofia della storia. A questo proposito, non ci sorprenderà l’affacciarsi della primaria opera d’estetica, la Filosofia della musica moderna, in cui si chiarisce il tentativo di creare una teoria complessiva dell’opera d’arte, in rapporto alla storia, volendo ripartire dalla determinazione di quella musicale. Qui si entra, probabilmente, nella sfera dell’Adorno più conosciuto e analizzato, per cui basterà soffermare la nostra attenzione su alcuni punti chiave necessari a comprendere come si arrivi alla dissoluzione dell’estetico come unica prospettiva in cui l’arte mantenga la sua qualificazione distintiva, ovvero l’autonomia formale. Si parte, dunque, dalla presa in considerazione delle due tendenze della musica contemporanea, neoclassicismo e dodecafonia: da una parte, perciò, lo Schönberg la cui musica progredita viene respinta dalla storia; dall’altra, l’armonia di Stravinskij, altare del regresso, in cui le contraddizioni reali vengono falsamente sedate. Due volti complementari dello stesso fenomeno, analizzati sincronicamente in virtù di quel rapporto fra autonomia ed eteronimia che, se non colto, renderebbe paradossale analizzare i prodotti individualmente e comprendere compiutamente il fallimento dell’opera d’arte. Poco importa che la tendenza musicale sia regressiva o progressiva, in quanto esposta, ineluttabilmente, alla stessa ricaduta; la costruzione dell’estetica, nella sua precarietà, rende impossibile la riuscita dell’opera e, come ci mostra Farina, la filosofia adorniana comincia a delineare la dissoluzione dell’estetico come unica possibilità di sopravvivenza di quella qualificazione particolare che rende l’opera tale, cioè l’autonomia formale. A questo punto, occorrerà prendere in considerazione alcuni presupposti già presagiti all’interno dell’opera sopracitata e che trovano spiegazione solo negli anni successivi, a partire dal processo che coinvolge il materiale e che si manifesta come ragione da cui dedurre il fallimento dell’opera d’arte.
Il problema della musica contemporanea, così come lo imposta Adorno, riguarda il materiale e la sua capacità di farsi lavorare dall’autore: ciò significa, volendo esemplificare quanto esposto, che nel caso di Schönberg si ha un abbandono totale da parte dell’autore nei confronti dello strapotere del materiale che riesce ad autogovernarsi, poiché una volta costituita la serie sono i materiali a disporsi nelle loro relazioni cromatiche oggettive (p. 111). In più, va riconosciuto il suo carattere di “spirito sedimentato” (p. 132), volendo intendere che le regole che lo gestiscono non sono aleatorie, ma provengono da quelle che sono le configurazioni storiche e sociali e dall’adattamento ad esse. Volendo semplificare, nell’epoca del capitalismo avanzato, il materiale è investito da un movimento che ne determina l’integrazione nel processo produttivo e, pertanto, esso non va più a qualificare l’opera, ma manifesta quella che è la perdita di qualificazione sensibile che gli permetteva di essere medium della ricezione estetica; la desensibilizzazione del materiale diventa sintomo di quel processo di mediazione sociale in cui esso perde la capacità di essere specchio e critica del reale (p. 137).
Lo scenario qui delineato parrebbe non prospettare vie di fuga di fronte alle fine storica dell’arte: il materiale si è ottuso, l’opera è diventata indistinguibile dall’oggetto d’uso comune, i rapporti sociali di produzione rendono impensabile ricostruire queste fratture. Saremmo quindi pronti ad aspettarci una conclusione decadente, reazionaria, destinata al fallimento di quanto assunto da Adorno, anche se l’operazione successiva portata avanti da Farina mira proprio a disvelare la capacità progressiva dell’estetica anche quando essa sembra sottrarsi ai tentativi di sopravvivenza. Affinché ciò si chiarisca, affinché si possa presupporre un’opera in grado di disvelare il mito, che rispecchi e critichi la società, che si determini in base alla propria autonomia, bisogna indagare là dove l’esistenza di uno schema estetico che si sottragga alla disartizzazione del materiale e che resista alla reificazione del sistema produttivo. Non esiste umanità pacificata in seno alla quale l’arte possa morire, mentre continuano a essere prodotti dalla società tutti quegli elementi irrigiditi che, a loro volta, implicano la produzione di mito: perciò, in questo senso, la necessità dell’arte si palesa in tutta la sua imponenza. Da qui lo sforzo di Farina che va a sviluppare quelle vie intuite già da Adorno e che finora non erano ancora state vagliate: perciò il saggio si conclude proprio con il capitolo dedicato alla ricostruzione dell’estetico, individuabile tramite una teoria, estetica, dell’arte.
Raccogliere l’eredità del filosofo tedesco, dunque, significa ripercorrere quei loci in cui si manifesta il cedimento del principio estetico, individuandone, eziologicamente, la causa prima e potendo superarla attraverso una ristrutturazione. Pertanto, se si torna al problema fondativo – ovvero l’autonomia stessa dell’opera – nonostante l’appiattimento oggettuale generico a cui essa viene sottoposta e la crisi dovuta al carattere di merce, si potrebbe ipotizzare che, nel presupporre un principio estetico che possa ancora sopravvivere, esista ancora una forma artistica in grado di sfuggire al deperimento del materiale e il cui principio estetico, perciò, sia svincolato dalla dimensione sensibile del materiale. Quell’arte è la letteratura, ovvero l’unica arte in grado di garantire la possibilità che l’opera, nel suo complesso, mantenga il carattere artistico senza allinearsi ai beni di consumo (pp. 146-147). Questa linea argomentativa ci porta ad ampliare ulteriormente alcune intuizioni: in primo luogo, bisogna sottolineare come la forma letteraria sia l’unica capace di non chiudersi di fronte alla totalità sociale, e ciò implica la necessità di ricorrere alla categoria della riuscita. Infatti, se come più volte sostenuto nella Filosofia della musica moderna, le opere registravano una crisi nella riuscita individuale, perfettamente declinata fra Stravinskij e Schönberg colti singolarmente, la possibilità del non fallimento è rintracciata nelle opere letterarie, baluardo di un’arte compiuta e ancora autonoma. Ma la riuscita estetica avviene, volendo esplicitare alcuni punti ancora oscuri, a causa del suo materiale sensibile, altamente mediato, che proprio in virtù della mediazione del soggetto creatore prende le distanze dalla cruda empiria. Si realizza, dunque, una rielaborazione del materiale che ne garantisce la resistenza rispetto al cedimento proprio attraverso la soggettività e l’esperienza individuale dell’autore; non si esprime il dato sensibile in una sua riproposizione pedissequa, quanto piuttosto viene esposto ciò che dell’empiria è stato compreso e rielaborato dall’autore.
Gli scritti maturi di Adorno presagiscono già queste possibilità e certificano come la letteratura realizzi una forma particolare di realismo critico: si ammette la dipendenza del soggetto dal mondo oggettivo, ma questo rapporto di forza non viene rappresentato in maniera immediata, ma tramite una forma artistica in cui si palesa la natura storica del mito e che si dissolve. Farina, sulla scorta delle osservazioni di Adorno, esemplifica queste dinamiche patenti tramite Beckett, Kafka, Proust, che non solo esemplificano il carattere sociale della solitudine tramite la singolarità del narratore ma riescono anche a ricomporre il materiale nella dimensione linguistica, potendo, grazie a quest’ultima, esporre un contenuto storico senza residui di puro materiale (p. 190). Non a caso, il modello di questa dinamica è rappresentato proprio dalla tecnica del monologo interiore come terreno in cui si rende possibile la conciliazione formale nel frammento, in cui tramite il montaggio si ricostruisce l’interiorità dimidiata e riflessa.
Aldilà dell’imitazione, il linguaggio e dunque la letteratura reagiscono al decadimento dell’opera e riqualificano l’estetico, la cui possibilità era stata negata e necessità più volte ribadita. Il volume di Farina ridà vigore al dibattito e al lascito adorniano, di fronte a teorie sull’arte contemporanea, fra Danto e posteri stremati, che ne avevano sancito la fine; dal romanzo, invece, la sua resistenza e possibilità di ripensamento, poiché come disse uno fra i massimi autori letterari (non a caso) del Novecento, la tragedia consiste nel fatto che nulla è mai veramente morto.