C’è scappato il morto. Un 20 luglio a Genova.

Testimone diretto delle manifestazioni avvenute a margine del G8 di Genova, nel 2001, Giulietto Chiesa, incaricato di seguire l’evento per conto de “La Stampa”, ha restituito quanto accaduto nelle strade del capoluogo ligure in quelle torride giornate di fine luglio. Dalle prime manifestazioni pacifiche all’“assalto alla zona rossa” da parte delle tute bianche, passando per l’inaudita repressione delle forze dell’ordine, fino alla morte di Carlo Giuliani e alle violenze perpetrate dalla polizia su manifestanti inermi.
Su Scenari pubblichiamo un estratto di G8 di Giulietto Chiesa (Mimesis Edizioni, 2021) che documenta ora per ora l’escalation del 20 luglio 2001.

Alle nove del mattino del 20 luglio, mentre il summit comincia i suoi lavori, io mi trovo all’incrocio tra corso Buenos Aires e viale Brigata Bisagno, proprio a fianco del complesso di edifici di Corte Lambruschini. La novità, rispetto alla notte, è che anche corso Buenos Aires ora è bloccato. All’altezza del cinema Augustus due o tre camionette della polizia, ad ali spiegate chiudono ogni spazio. Dall’altra parte, da piazza Tommaseo e dalle vie laterali, si vedono arrivare i primi gruppi di dimostranti, bandiere di Cobas, zaini, sacchi a pelo arrotolati. La situazione è calma. I poliziotti, in tenuta da combattimento, stanno dietro le reti, guardando verso piazza Tommaseo. Altre linee di polizia sono schierate all’incrocio con viale Brigata Bisagno, guardando in direzione opposta, verso via XX settembre, dove sono piazzate altre centinaia di agenti. Quando qualcuno si toglie le bardature per detergersi il sudore, si vedono facce giovani, espressioni che denotano più incertezza che determinazione. Penso che questi ragazzi – ma che dico? neanche quelli che li comandano, i loro ufficiali sul campo – non hanno mai sperimentato uno scontro di piazza. Per tutti sarebbe una novità assoluta. L’Italia, da molti anni, con rarissime eccezioni, è divenuta per fortuna un paese abbastanza tranquillo.

Attraverso piazza delle Americhe e do un’occhiata oltre i tunnel che portano a via Canevari e via Archimede. Piazzetta Firpo, piazza Giusti, la zona di Terralba: solo rari manifestanti sparsi, evidentemente appena arrivati in città, nessun passante, ma anche nessuno sbarramento, e – soprattutto – neanche un poliziotto, un carabiniere. Questa parte della città è totalmente priva di presidi delle forze dell’ordine. Non capisco, francamente non capisco. L’unica cosa che posso immaginare è che non ci fossero forze sufficienti. Ma questo contrasta con i massicci concentramenti che ho appena visto altrove. Perché quella grandissima zona della città è così sguarnita?
Torno allora velocemente all’imbocco di corso Buenos Aires. Duecento metri oltre lo sbarramento delle “ali” c’è piazza Paolo da Novi. Intravvedo, dal punto d’osservazione in cui mi trovo, un certo concentramento di persone e decido di andare a vedere da vicino. L’unico varco tra due camionette si apre dopo un rapido controllo del mio lasciapassare di giornalista. Lungo quel breve tratto di corso Buenos Aires rarissimi passanti. Finestre, persiane, balconi sono tutti chiusi, come se i genovesi fossero andati tutti in vacanza. E in parte è proprio così.

Piazza Paolo da Novi è immersa in uno strano silenzio. Nessuno canta. Nessuno lancia slogan. La piazza è piccola, con alberi e aiuole erbose. Se non sbaglio ci fu un tempo in cui fungeva da mercato. Così me la ricordo da ragazzo, piena di vita e di rumore. Tanti giovani stanno arrivando, altri sono seduti a terra, nell’erba. Ma al centro, e sul lato est della piazza, all’ombra degli alberi, vedo subito un altro quadro: ci sono diversi gruppi di giovani, molti dei quali vestiti di nero, con passamontagna già calati sul volto, caschi, maschere, fazzoletti. Parlano poco anche loro, non scherzano, non ridono. E sono impegnati a scavare, per far emergere dall’asfalto le pietre del selciato, per ritagliare zolle d’asfalto da mettere nei borsoni. Alcuni stanno svellendo pali della segnaletica stradale, altri spezzano con fatica le recinzioni metalliche intrecciate che proteggono le aiuole. È un lavoro veloce, coordinato. Mi fermo a osservarli: non c’è qualcuno che dia ordini. Ciascuno sembra fare per conto proprio, ma l’impressione è quella di un lavoro organizzato. E sono molto giovani. Si direbbero liceali, attorno ai diciassette, diciotto anni. Corporature esili. Tra loro anche, egualmente bardate, diverse ragazze. Ed è un conglomerato composito: sento parole smozzicate in tedesco, in spagnolo, in francese. Un gruppetto è sicuramente italiano, ma tra i gruppi c’è intesa, si parlano – poco invero – come se si conoscessero. Saranno, sì e no, duecento, forse qualcuno di più. A cosa si stiano preparando è del tutto chiaro. Tra poco ci sarà l’assalto. Il loro assalto, contro gli sbarramenti. Il resto della piazza – diciamo quelli che non scavano, non divelgono – pare non accorgersi di quello che sta accadendo. Oppure non ritenerlo cosa importante. E anche questa mi sembra una circostanza importante, perché mostra una contiguità tra gli uni e gli altri, un’indifferenza rispetto alle forme di lotta.

Mi chiedo dove avverrà lo scontro. Corso Buenos Aires? Situazione improba per gli attaccanti. Torno indietro dando un’occhiata alle vie laterali. Via Santa Zita è presidiata dai carabinieri, ma sono cinque o sei camionette e pochi uomini, abbastanza sparsi. Se attaccassero qui, penso, potrebbero sfondare senza troppe difficoltà, ma poi, allo sbocco in viale Brigata Bisagno, si troverebbero davanti i container che bloccano via Cadorna. Le parallele via Savona, via Pisacane, tutte confluenti su viale Brigata Bisagno, sono sguarnite. Anche questo è strano. Non si capisce cosa vogliano difendere i comandi delle forze dell’ordine. Penso anche che una veloce manovra di aggiramento, da via Libertà, corso Torino, via Santa Zita e passo Antiochia, consentirebbe di accerchiare completamente piazza Paolo da Novi e prendere in anticipo i violenti. Sempre che, naturalmente, la Questura di Genova sappia in tempo reale ciò che sta accadendo.
Torno allora velocemente, attraverso via Santa Zita, alle spalle dello sbarramento del cinema Augustus. La mia ipotesi che qualcuno stesse osservando i preparativi di scontro in piazza Paolo da Novi si rivela esatta. Proprio in quel momento, infatti, la polizia esce dallo sbarramento e s’incammina verso piazza Paolo da Novi. È chiaro che hanno deciso di giocare d’anticipo. Ma nessuno ha detto loro che si poteva circondare la piazza. Forse nessuno ha neppure preso in esame questa eventualità. Vanno invece diritti contro i “neri”, sparano bordate di lacrimogeni, li sgominano subito, li disperdono. In cinque minuti la piazza è sgombra. Restano i buchi nell’asfalto. I “neri” sono scappati in tutte le direzioni. E sono armati e decisi.

Comincia così, con un clamoroso errore tattico della polizia, la battaglia del 20 luglio, alle 11:30 circa. L’ho chiamato “errore tattico”, ma non sono sicuro che si sia trattato di questo, o soltanto di questo. Ma da quel momento l’intera zona diventa teatro di scontri. Prima corso Torino, poi via Casaregis, poi ancora via Pisacane, piazza Savonarola si riempiono di fumo. Di candelotti lacrimogeni e di cassonetti bruciati. I poliziotti avanzano, inseguono, sparano lacrimogeni. Saranno un centinaio, poi arrivano rinforzi, e di fronte a loro non più di duecento sfasciatutto, liberi di sfasciare tutto, ritirandosi e contrattaccando a colpi di pietre e di ogni altra cosa a portata di mano. Pian piano le scaramucce si spostano verso via Invrea e il sottopasso che porta a corso Sardegna. Ma il drappello di poliziotti continua imperterrito ad avanzare verso piazza Tommaseo, esponendosi a continui attacchi sui fianchi, e qui l’imperizia è più che evidente. Cominciano i primi arresti. Sento un giovane bestemmiare in russo mentre lo portano verso una camionetta. Quel tratto di corso Buenos Aires e tutti gli incroci fino a piazza Tommaseo sono terra bruciata, tutte le sedi bancarie sono devastate, insieme a decine di negozi. I violenti, miracolosamente, non toccano l’unico esercizio aperto di tutta la zona, l’edicola di piazza Savonarola. Ed è già evidente – dopo mezz’ora – che questa tattica della polizia non solo non potrà garantire l’ordine, ma permetterà ai “neri” di mettere a ferro e fuoco la città. Proprio quella parte della città, contigua alla zona rossa, su cui sembrava essersi concentrata l’attenzione preventiva dei comandi delle forze dell’ordine.
Guardo con attenzione il comandante del drappello. S’è tolto il casco. Non mi sembra che sia già arrivato a quarant’anni. Molto stempiato, atletico, nero di capelli, accento meridionale, capelli ricci e radi. Grida come un ossesso, ed è comprensibile la sua eccitazione. È evidente che si sente un condottiero. Poi gli si scarica la batteria del radiotelefono e perde i contatti con il comando. “Dammi il tuo, testa di cazzo!”, grida a un sottoposto, che però non ce l’ha. Allora decide di farne a meno. “Avanti compatti, battete sugli scudi! Tu, coglione, guarda a destra!” Da via Torino arrivano grandinate di massi.
“Indietro!” grida “non inseguiteli!”. Ma lui stesso appare troppo nervoso. I suoi comandi sono urlati e confusi. Gli uomini sono impauriti e incerti. Qualcuno invece si lancia all’inseguimento di un “nero” e lo acchiappa. Ma dopo un istante deve mollarlo perché, in suo soccorso, arrivano di corsa in cinque o sei. Il nostro condottiero conduce i suoi uomini fino a piazza Tommaseo, che è già un cumulo di detriti. I violenti salgono le scalinate che portano a via Francesco Pozzo, si disperdono lungo via Nizza, salgono e si ritirano soprattutto lungo via Montevideo. Il panorama di devastazione è impressionante: la filiale della Carige è sfondata, insieme a numerosi negozi; il manto stradale è disseminato di pietre, la segnaletica è divelta. Dalle scalinate si urla “bastardi” ai poliziotti che, attestatisi all’ingresso di piazza Tommaseo, lanciano candelotti, verso via Pozzo, sopra i giardini, facendoli volare sulla testa del generale di bronzo Manuel Belgrano. Un anziano signore, da un poggiolo al terzo piano di una palazzina, andando avanti e indietro come un leone in gabbia, rovescia insulti contro i lanciatori di pietre che fuggono verso via Nizza: “Bastardi siete voi, state rovinando la mia città!”.

(Genova – 2001-07-23, Mantero Letizia)

M’incammino in salita lungo via Montevideo mentre vedo innalzarsi le prime colonne di fumo nerissimo. Ecco il segno della ritirata dei “neri” che in questi due giorni vedrò ripetersi decine di volte. Proprio là dove via Montevideo confluisce in corso Gastaldi ci sono due auto che bruciano. Lo spettacolo è strano e impressionante. Una scena di guerra, con la gente che getta acqua dalle finestre e curiosi impauriti che guardano in strada attraverso le persiane socchiuse.
“Cosa m’è toccato vedere!”, esclama in dialetto un’anziana signora impaurita, sprangando la finestra per impedire che il fumo acre entri in casa. La polizia è lontana e non avanza. Non ci sono scontri qui, ma i distruttori demoliscono ugualmente. I fotografi, le prime telecamere, finalmente arrivate, girano la scena del primo disastro. Un ragazzo, vicino alla Brava che brucia all’incrocio tra corso Gastaldi e via Montevideo, grida ai teleoperatori: “Stronzi, smettetela di riprendere le auto che bruciano, questo non c’entra niente col movimento. Questo non è il movimento!”. Gli scatti degli apparecchi fotografici sommergono l’inutile invettiva. Sarà quella foto a dominare sui giornali di domani, e la voce di quel ragazzo con una t-shirt bianca, senza scritte, non l’avrà registrata nessuno. La situazione è adesso irreale. Tutto, a vista d’occhio, sembra tornato calmo. Manifestanti si muovono lungo corso Gastaldi in tutte le direzioni. Non c’è traccia di polizia o carabinieri, che sembrano essersi attestati dalle parti di piazza Tommaseo. Mi avvio verso lo stadio Carlini, da dove è annunciata la partenza del corteo delle “tute bianche”, attorno alle 14, forse un po’ più tardi.

Siamo arrivati in cima a corso Gastaldi, dove s’innestano viale Benedetto XV, che porta agli Ospedali Civili, e via San Martino. Saranno le due e mezza, all’incirca. Le finestre dei palazzi qui sono tutte aperte. Fa caldo, la gente è affacciata ai balconi. Un’intera famiglia di immigrati neri, padre in canottiera, madre, quattro bambini, guarda tra lo stupore e il divertimento. I clamori degli scontri non sono arrivati fin qui, forse solo voci, telefonate. Qualcuno applaude. Lo spettacolo è già imponente. Corso Europa si presenta come un enorme brulicare di gente e bandiere. Da questo incrocio fino allo stadio Carlini è tutta una fiumana. Quanti? Sulla base della mia esperienza di cortei, che non è piccola, direi almeno ventimila persone. Credo sia una valutazione prudente.
La testa è, anche per me come per quasi tutti, una cosa del tutto inedita. Enormi scudi di plastica spessa, semitrasparente, montati su ruote perché troppo pesanti per essere sostenuti, inchiavardati tra loro con spesse catene, alti all’incirca due metri. Sui fianchi, per una ventina di metri di lunghezza, altri scudi identici, anch’essi legati da catene, sollevati però da terra da giovani che sorreggono le impugnature ben piantate nella plastica. A parte la teatralità del preparativo è chiaro lo scopo: questa testuggine è stata ideata per resistere a un attacco delle forze dell’ordine. I progettisti questo si aspettano e, con ogni evidenza, questo desiderano. E pensano che il manufatto consentirà al corteo di resistere in forma compatta, ordinata.

Il corteo ancora non si muove. Ho tutto il tempo di entrare dentro la testuggine. Voglio vedere da vicino chi sono quelli che la reggono e vi si riparano. Qui è più difficile valutare le dimensioni. Direi duemila ragazzi. Di nuovo tutti molto giovani. Bardati come quei giocatori di football americano che talvolta vediamo nei film americani. Tutti col casco in testa. La legge che lo impone per i motociclisti ne ha fatto un indumento comune, popolare. Braccia e gambe, gomiti, ginocchia, giunture varie sono protetti da spessi tocchi di gommapiuma tenuti assieme da generose strisce di scotch da pacchi, da imballaggi. Qui sono passati a miglior vita e funzione centinaia di materassi. È un piccolo distaccamento di guerrieri, questa testuggine, ma sono guerrieri strani, senz’armi. Guardo bene, con attenzione, con metodicità. Percorro avanti e indietro non solo la testuggine vera e propria, ma anche le sue propaggini. Piu indietro si va, verso il resto del corteo, fuori dagli scudi laterali, meno diventano i caschi e le bardature protettive, più si vedono i soliti zaini, le solite scarpe da ginnastica. I “guerrieri” scoloriscono nei dimostranti semplici senza soluzione di continuità, finché mi trovo in un normale corteo da manifestazione di protesta. Solo che è molto grande.
Ho percorso all’indietro, imboccando corso Europa, circa trecento metri. Guardo ancora indietro e non vedo la fine. Torno verso la testuggine e ancora verifico. In tutta questa perlustrazione non ho visto una sola “arma impropria”, come direbbe un mattinale di questura, non un bastone, non un qualsivoglia oggetto contundente. La parola d’ordine “niente armi offensive” è stata rispettata. In mezzo alla testuggine c’è un tir, quasi nuovo, autoarticolato, scoperto. Con altoparlanti che scandiscono ordini, danno disposizioni, ripetono raccomandazioni: la testa resti compatta, le ali non si devono aprire in nessuna circostanza, restate calmi. Poi disco-music a tutto volume. E ancora ordini e ancora raccomandazioni. Voglio vedere da vicino anche cosa c’è dentro il cassone. C’è roba da bere, vedo casse di bottiglie d’acqua minerale, ma di armi non ne vedo. La messinscena provocatoria, spettacolare, della testuggine, non costituisce la premessa per un’offensiva. Qui, semplicemente, non ci sono gli strumenti dell’offensiva. Si potrà discettare sull’utilità delle dichiarazioni infuocate della vigilia, sul significato della parola d’ordine “un metro dentro la zona rossa”, ma quello che vedo non è un preparativo di guerriglia urbana. Sono arrivato fin qui per verificare proprio questo: che non ci fosse il trucco. E qui il trucco non c’è.

Mi chiedo se anche chi deve tutelare l’ordine pubblico ha fatto altrettanto, se sanno cosa c’è qui, quanta gente c’è qui, a cosa si prepara. Gli elicotteri della polizia sono venuti a vedere, avranno certo riferito. Ma gli “osservatori” stanno riferendo quello che vedo io? Sono preparati, politicamente, a descrivere con precisione quello che sta avvenendo? E dall’altra parte ci sono orecchie disposte a capire quello che ricevono, sempre che lo ricevano?
Questo è quello che penso mentre il corteo si muove, con il tir in mezzo, lungo la discesa di corso Gastaldi, passando sotto le finestre della Casa dello Studente.
Il corteo si muove lentamente, con qualche fatica. La testuggine non tiene, si rompe e si sfilaccia sui fianchi, costringendo la speaker a interrompere ripetutamente la disco-music per sollecitare la disciplina. Chi ha dato l’ordine di partenza? Non s’è sentito alcun ordine. Forse qualcuno ha deciso via cellulare (ce ne sono tantissimi, che squillano); forse chi ha deciso sa cosa è successo laggiù nelle tre ore precedenti e ne tiene conto. Ma non ne sarei sicuro al cento per cento.

Scendo anch’io avendo l’accortezza di tenermi una ventina di metri davanti alla testuggine. Per vedere meglio cosa si prepara. A occhio e croce ci sono seicento metri per arrivare alla biforcazione dove corso Gastaldi si divide tra via Montevideo e via Tolemaide. Lì si capirà quali sono le scelte dei leader del corteo. La testuggine imbocca via Tolemaide, sgombra. Resta dunque meno d’un chilometro a quell’altro luogo topico che a me, in quel momento, pare l’incrocio con corso Torino, dove cioè corso Torino s’infila nel lungo sottopasso ferroviario, sotto la stazione Brignole, per sfociare in corso Sardegna. In quel tratto rispondo alle domande che un giovane giornalista di Italia Radio mi sta ponendo. “Che succederà?”, chiede. Gli spiego quello che, metro dopo metro, temo sempre di più: “Stiamo arrivando nel luogo esatto dove stamattina ci sono stati i primi scontri e le prime violenze. Da quel punto in avanti tutto dipenderà dall’atteggiamento della polizia e dalla sua capacità di distinguere i ‘neri’ dai ‘bianchi’. Non sarà facile, perché non so dove siano i ‘neri’. È presumibile che siano nei paraggi. Se la polizia attacca sarà un disastro”.
Con queste parole arriviamo all’incrocio fatidico. Da quel punto a piazza delle Americhe ci sono all’incirca cinquecento metri. Piazza Verdi, con Stazione Brignole, è contigua. Altri trecento metri e c’è via Fiume, l’inizio della “zona rossa”, lo sbarramento dei container e delle reti metalliche. Con mio grande stupore via Tolemaide è aperta. Ma i carabinieri sono trincerati potentemente nell’incrocio parallelo, dove via Tommaso Invrea interseca corso Torino. Tra i due incroci paralleli ci sono non più di trenta metri. Devo dire che non ho visto riprodotto, su nessuna televisione, questo momento esatto. Mi sottopongo dunque, anche qui, alla successiva verifica delle immagini. Ma il mio ricordo è assolutamente preciso e circostanziato.

La testuggine si era appena affacciata all’incrocio con corso Torino ed ecco partire da via Tommaso Invrea una violentissima raffica di granate lacrimogene. Molte delle quali ad altezza d’uomo, che vanno a colpire, con tonfi sordi, gli scudi di plastica, facendoli vacillare, rompendone alcuni. Altre, volando appena sopra la mia testa, s’infilano nel sottopasso ferroviario, di sghembo. Altre ancora s’infrangono, con pioggia di detriti, contro il muraglione della ferrovia che costeggia, sul lato destro per chi scende, tutta via Tolemaide. Granate che, se dovessero colpire una persona alla testa, o anche al corpo, potrebbero uccidere o ferire gravemente: grosse capsule di plastica dura, della dimensione di un pugno maschile chiuso, montate su un corpo metallico pesante.
Fino a quel momento il corteo non aveva provocato disordini, problemi, scontri. Il disordine è, da quell’istante, il prodotto diretto, inequivocabile, di una scelta dei carabinieri piazzati in via Tommaso Invrea. Hanno avuto un ordine? Hanno fatto di testa loro gli ufficiali sul posto? Non posso dare nessuna risposta in merito. Ma i fatti restano quelli che sto descrivendo. E sono assolutamente chiari, senza possibilità di smentita.

In pochi minuti è guerra di strada. Dopo il bombardamento i carabinieri (non posso giurare che fossero solo loro e non ci fossero anche reparti di polizia in questa specifica fase iniziale) partono all’attacco con una carica veloce che investe e travolge la testuggine. Io mi trovo adesso in via Tolemaide, ma oltre l’incrocio con corso Torino, e quello che racconto – da questo momento in avanti e per almeno due ore – è visto da una posizione che sta alle spalle dei carabinieri. Vedo dunque il corteo arretrare, ormai senza testuggine protettiva. Anche il tir, che ha cessato la disco-music, arretra. Ma, da dove mi trovo, si vede la situazione in tutta la sua drammaticità. E come la vedo io dovrebbero vederla anche i carabinieri, e gli elicotteri che volteggiano sulle nostre teste: dietro la testuggine sgominata al primo urto ci sono ventimila persone. Che non arretrano, che non vedono altro che il fumo dei lacrimogeni, e quindi spingono in avanti per venire a vedere. Molti anche per menare le mani. Il corteo non ha sbocchi laterali. Sulla destra c’è un muraglione alto dieci metri. Sulla sinistra, arretrando, occorrono almeno duecento metri per arrivare a un altro incrocio, quello con via Casaregis. L’avanzata dei carabinieri incontra dunque una resistenza che, prima ancora che attiva, è inevitabile: o prendi le manganellate o ti difendi. Ed è così che, sotto i miei occhi, quei due o tremila giovani che stavano alla testa del corteo, vengono trasformati in combattenti attivi e furibondi. È questo che si voleva? E, se non lo si voleva, perché si è arrivati a questo?
E i “neri”? I “neri” in quella fase non c’erano. Se c’erano non li ho visti. In quella prima mezz’ora non c’era spazio per loro, non ce n’era bisogno. Le forze dell’ordine hanno creato tutto il disordine possibile. Si può dire: da sole. Forse qualcuno dei capi, dalle sale operative della sicurezza per il G8, ha pensato che “dal Palazzo Reale alle Tuileries è appena un salto per quel gigante che si chiama sommossa”. Forse avevano deciso in anticipo che il corteo doveva essere fermato, a tutti i costi, all’altezza di corso Torino, per evitare che il fumo dei lacrimogeni disturbasse i Grandi a Palazzo Ducale, due chilometri più avanti. Forse, chissà! Ma non avevano calcolato che quel corteo non avrebbe avuto altra scelta, altra possibilità, che contrattaccare. Forse non l’avevano calcolato. Ma resta aperta l’ipotesi che lo avessero calcolato. E allora il senso di questa cronaca, com’è evidente, diventerebbe del tutto diverso.

I “neri” li vedrò in azione mezz’ora dopo, sempre all’incrocio tra corso Torino e via Tolemaide, ma ormai è difficile distinguerli dal resto della testa di quella testuggine che ora giace a terra, calpestata dalle Nike dei dimostranti, dagli stivali di cuoio dei carabinieri, dagli pneumatici Pirelli dei furgoni blindati blu. Si vede molto presto che l’avanzata delle forze dell’ordine è difficoltosa, e poco dopo diventa evidente la sua impossibilità. Il corteo non arretra oltre un certo limite. Lassù – è facile vederlo dal basso perché la strada è in discesa – una grande massa di persone ancora occupa gran parte di corso Gastaldi. Davanti, i dimostranti si sono organizzati e cominciano le prime controffensive. Alle quali i carabinieri sono totalmente impreparati. Non era stata prevista una ritirata, non glielo avevano spiegato, probabilmente, che questo tipo di combattimenti di piazza non è fatto soltanto di cariche in avanti. Che questi che ora hanno di fronte non sono esattamente equivalenti a quelli che, in questi ultimi anni, la polizia ha affrontato, all’uscita e all’entrata degli stadi.
Ripetutamente, in poche manciate di minuti, le forze dell’ordine pubblico devono battere in ritirata. A volte lenta, a volte precipitosa. E il disastro tecnico-tattico diventa clamoroso quando si comincia a notare che gli uomini a piedi sono stati mandati avanti, tallonati da file di furgoni blindati affiancati che, su più linee, ostruiscono tutta la strada alle loro spalle. Ottima idea quando la faccenda consiste esclusivamente di avanzate vittoriose; pessima, ridicola, pericolosissima soluzione quando si è costretti ad arretrare o, peggio, a fare dietro front e darsela a gambe sotto grandinate di pietre capaci di sfondare scudi, caschi, teste e schiene.
Gli autisti dei mezzi – mentre gli uomini a piedi arretrano, fuggono, infilandosi negli spazi stretti rimasti tra i veicoli, spazi stretti che avrebbero dovuto imbrigliare, filtrare i dimostranti – si trovano improvvisamente a tu per tu, senza più filtri e difese, con i dimostranti che avanzano. Cercano allora, nel panico, di fare marcia indietro. Ordini concitati, contradditori si sentono echeggiare: “Fai retromarcia, gira il veicolo!”.
Ma girare è impossibile, e fare retromarcia sarebbe possibile solo se la stessa cosa la facessero anche quelli che stanno dietro, alla stessa velocità. Ho visto, in via Tolemaide, in via Casaregis, in via Smirne, decine di questi scontri tra mezzi delle forze dell’ordine, nel disperato tentativo di sottrarsi alla conquista. È qui che i carabinieri hanno perduto ben più d’un mezzo blindato, e sono queste le immagini – quasi sempre senza adeguata spiegazione – andate in onda su tutte le reti.

Il furgone dei carabinieri, in fiamme, visto in televisione, stava appunto all’incrocio tra via Tolemaide, corso Torino, via Tommaso Invrea. Andrà in fiamme dopo un batti e ribatti durato almeno venti minuti, mentre alcuni carabinieri, autista incluso, sono rimasti chiusi dentro e il veicolo viene bombardato da tutte le parti. Gruppi di facinorosi, sempre più violenti, si avvicinano per rovesciarlo, altri cercano di incendiarlo. Finché un’altra camionetta blindata si muove da via Tommaso Invrea e, sotto la grandinata di pietre, si affianca al furgone bloccato ed effettua il trasferimento dei militari intrappolati. L’incendio del veicolo scoppia dopo pochi minuti. Passa accanto a me un giovane, con occhialini e barbetta, che grida a squarciagola: “Tutti i cretini se ne stiano qui fermi a distruggere, gli altri vadano avanti! Forza, sorpassiamo questo incrocio, avanti verso la zona rossa! Imbecilli, non vedete che ci vogliono fermare qui?”.
Solo pochi lo seguono. Il grosso del corteo rimane fermo cento metri prima dell’incrocio. Andare avanti, nel punto dove mi trovo io, cioè all’altezza di via Smirne, è pericoloso. Infatti dopo pochi minuti comincia un’altra sortita dei carabinieri, che attaccano ora sui due fronti, sia verso via Tolemaide, sia in direzione opposta, verso largo Archimede. Improvvida mossa, peggiore delle precedenti. I dimostranti si sparpagliano e, allo sbocco di via Smirne su via Tolemaide, imbottigliano un centinaio di carabinieri con una decina di veicoli al seguito. Di nuovo un disastro tattico. È impossibile sottrarsi ora all’impressione che questi reparti siano del tutto impreparati, inadeguati alla situazione che loro stessi hanno creato. La confusione è totale. Lo stallo si prolunga. Il pericolo di una tragedia ingigantisce. Qualcuno degli autisti, nel panico o per rabbia, invece di arretrare innesta la marcia e parte a tutta velocità contro i giovani lanciatori di pietre. Che si riparano dietro gli alberi. Non tutti. Vedo una ragazza urtata violentemente da un furgone, che cade a terra svenuta. Due giovani la sollevano e la portano lontano. Viva? Morta? L’angoscia cresce.
Il corteo delle “tute bianche” rimane bloccato – mi pare – all’altezza dell’incrocio tra via Tolemaide e via Casaregis. Il fumo dei lacrimogeni è così intenso da rendere impossibile respiro e occhi aperti. Qualche centinaio di curiosi, fotografi, operatori, manifestanti sparsi, è rimasto da questa parte, cioè alle spalle del gruppo di carabinieri rimasto bloccato in via Smirne. Piovono pietre, poi subentra una specie di tregua. Almeno nel punto in cui mi trovo. Qualcuno mi chiama dalle finestre di una casa che si affacciano su via Tolemaide. È Paolo Pietrangeli, che sta filmando, con due operatori, quello che accade sotto. Mi invitano a salire. Salgo anche per cercare tregua agli occhi e alla pelle del viso, che brucia come fosse stata scorticata. L’ingresso dell’edificio è in via Tommaso Invrea. Vedo che adesso la strada è sgombra. Evidentemente i carabinieri si sono trasferiti in corso Torino e lì sono trincerati. Ma non si sentono scoppi, né andirivieni di ambulanze.
Passa sotto le finestre un poliziotto che trascina per i capelli, a treccine bionde, un ragazzo che pare straniero e che tiene le mani incrociate sopra la testa, per proteggersi. Il figlio del padrone di casa inveisce dalla finestra: “Ma che fai, stronzo!” all’indirizzo del poliziotto. Questi guarda in alto e, vistosi osservato, molla la presa. Scoppia un battibecco tra padre e figlio.
“Ma sei scemo? Vuoi che vengano su?”
“Ma papà! Non vedi che quel ragazzo non sta facendo niente? Non si difende neppure. Questa è violenza e basta!”
“La testa gli doveva rompere, altro che tirargli i capelli!”
Poi vedo riprendere l’offensiva dei carabinieri: di nuovo sbarramento fittissimo di lacrimogeni e lento avanzare delle schiere umane, seguite, quasi pressate da dietro dai furgoni blindati. Si riprende con una pantomima che diventa sempre più assurda a ogni minuto. Con una variante: mentre i caschi neri dei carabinieri risalgono nel fumo via Tolemaide, di nuovo verso corso Gastaldi, ecco apparire sulla massicciata della ferrovia un reparto di caschi azzurri della polizia che marcia lungo le rotaie dei treni. Adesso mi è più chiaro perché hanno bloccato le stazioni durante il summit. In questo senso la previsione è stata esatta: la battaglia dilaga ormai dentro lo scalo merci di Terralba. Anche lì si alza il gran fumo dei lacrimogeni e i gruppi di guerriglia che erano saliti sul muraglione vengono sloggiati. Ma non c’è contatto: i “neri” – quelli lo sono, inequivocabilmente – si ritirano velocemente. Sembrano gli stessi che la mattina erano tracimati verso San Fruttuoso dopo i primi scontri in piazza Paolo da Novi. Ma altri si erano affacciati, con singolare tempismo, all’incrocio tra corso Torino e via Tolemaide proprio quando i carabinieri avevano sferrato l’attacco contro le “tute bianche”.
Torno in strada per osservare di nuovo da vicino. Mi avvio lungo via Tolemaide, dove ormai il corteo è stato respinto fino all’altezza di via Caffa, via Armenia, via Crimea. Immagine, anch’essa, quasi surreale: il tir che aveva accompagnato fin dall’inizio la discesa del corteo continua a torreggiare, indietreggiando, sulla marea di teste che non vuole ritirarsi. Migliaia e migliaia di giovani sono ancora lì, dove via Tolemaide s’innesta su corso Gastaldi. Sono passate tre ore circa, sono quasi le cinque. Mi trovo ora alle spalle dei carabinieri, all’altezza di via Crimea. Seicento metri circa dal punto in cui la battaglia tra carabinieri e “tute bianche” è cominciata. E posso assistere a una violentissima controffensiva dei dimostranti. La strada è in leggera discesa, a vantaggio loro, in quel punto. I cassonetti fanno da scudo e vengono usati come arieti. Centinaia e centinaia di giovani – ora ogni tentativo di distinguere tra “neri” e “bianchi” ha perduto ogni senso – forse più di mille, avanzano di gran corsa lanciando ogni cosa abbiano trovato sul loro percorso: pietre soprattutto, grosse pietre, pezzi di selciato e di asfalto. Chi, come me, si trova subito dietro i carabinieri può apprezzare il pericolo. La grandinata è impressionante. Non ci sono scudi che possano reggerla. Gli agenti fuggono come possono, dove possono, in disordine, nel panico. Non si aspettavano un tale rovesciamento di fronte.

Anch’io ripiego e scantono in via Crimea, giusto in tempo per trovarmi ora dietro i manifestanti che inseguono le forze dell’ordine. Che fuggono, insieme ai furgoni blindati che hanno fatto dietro front, fin quasi in corso Torino. Ma altri distaccamenti, piccoli gruppi di carabinieri si ritirano di corsa nelle vie laterali, per scansare come possono l’impeto dell’offensiva: in via Armenia e in via Caffa. Piazza Alimonda è proprio qui dietro, vi confluiscono via Caffa, appunto, via Tommaso Invrea, via Odessa, via Ilice.
Qui, con la via d’uscita d’emergenza di un portone, lasciata aperta da un mio vecchio conoscente, che mi chiama mentre passo di corsa, assisto a ripetuti corpo a corpo. Bastoni contro manganelli, sassi contro sassi. Colpi, grida. In via Odessa due fotografi, facilmente individuabili per la grossa scritta nera in campo giallo squillante – “press” – che hanno sulla schiena, vengono bastonati selvaggiamente da quattro carabinieri. Uno dei due rimane a terra svenuto, mentre l’altro riesce a trascinarlo via. Dalle finestre una voce di donna grida, e piange: “Basta! Basta!”.

Giulietto Chiesa, G8 (Mimesis Edizioni, 2021)

Poi il gruppo di militari si ritira. È in questo momento che muore, a cinquanta metri da lì, Carlo Giuliani. Io non ho visto il momento, che milioni di persone, come me, hanno poi potuto vedere e rivedere, da diverse angolazioni, in tutti i telegiornali. Ma nessuna di quelle immagini è riuscita a restituire la dinamica dell’accaduto. A riprova di come la società dell’immagine possa non raccapezzarsi pur avendo tutte le immagini che occorrerebbero per farlo. Arrivo in piazza Alimonda qualche istante dopo. Non è subito chiaro cosa è accaduto. Improvvisamente s’è fatto silenzio. Non ci sono lanci di pietre, i carabinieri sono spariti, è subentrata la polizia.
Il distaccamento è schierato tra l’aiuola che occupa il centro della piazza e il luogo dove via Caffa collega la piazza a via Teodosia. Giovani, abitanti del posto, si aggirano senza capire. Una conoscente, che abita proprio nei paraggi, è seduta su una panchina con la testa tra le mani. Fuma e le dita tremano.
“È morto!”
“Chi è morto?”
“Non so. Un ragazzo, guarda là.”
È allora che, in mezzo alle gambe del gruppo di militari che lo circondano, vedo il corpo, con la testa riversa verso l’alto, in un lago di sangue che, subito mi pare un folto cespuglio di capelli neri. Poi mi accorgo che ha ancora il passamontagna nero attorno al collo. Qualcuno, in borghese, sta verificando la morte, inginocchiato vicino al cadavere. Chiamo “La Stampa” e do la notizia. Chiamo Rai News 24. Credo di essere stato il primo a confermare ai media la morte di Carlo Giuliani. Un ufficiale ordina alla truppa di fare quadrato. I poliziotti si dispongono in cerchio, con gli scudi a terra, le gambe strette perché si possa vedere il meno possibile. Ma dalla scalinata della chiesa è ancora possibile intravvedere il morto. Che rimane sull’asfalto per un’ora abbondante, mentre ormai arrivano, a decine, giornalisti, fotografi, telecamere, curiosi. Un ufficiale ordina allora a un altro gruppo di poliziotti di mettersi proprio intorno al morto, a formare un cerchio fitto e invalicabile agli sguardi. Si aspetta il magistrato che s’immagina abbia difficoltà ad arrivare, dovendo attraversare un campo di battaglia. E, in piazza Alimonda, attorno al cadavere di Carlo Giuliani, che ancora nessuno sa come si chiama e che potrebbe essere un ragazzo di una qualsiasi parte del mondo venuto a morire a Genova, e poi si scoprirà che è invece un genovese, figlio d’un genovese, morto a qualche centinaio di metri da casa, l’atmosfera si carica lentamente, quasi insensibilmente, di tensione. Più in là, all’estremità di via Caffa, dove s’incontra il luogo nel quale poco prima ci sono stati degli scontri più duri, non si vede più nulla di anormale, anche se tutto è anormale in corso Gastaldi, sparso di detriti, in via Tolemaide, in tutte le vie circostanti a quella parte ottocentesca della Genova appena benestante, che confina con quella “bene” di Albaro.
Torno in piazza Alimonda, dove la morte sembra avere spento ogni voglia di lotta. Guardo le facce degli uomini in divisa che si sforzano di essere impassibili, ma che stanno evidentemente molto scomodi con quel morto dietro le spalle, che si vorrebbe nascondere ma che già dilaga sugli schermi televisivi di mezzo mondo. Un ragazzo, giovanissimo, mi si avvicina.
“Lei è un giornalista, vero?”
“Sì.”
“Allora scriva. Io ero lì vicino quando l’hanno ammazzato…”
“Come ti chiami?”
“Non glielo dico. Ma perché non scrive?”
“Non ne ho bisogno, ricordo a memoria. Continua.”
“Guardi hanno sparato due colpi, non uno. Ho sentito benissimo. E il morto non è morto lì, dov’è adesso. L’hanno spostato. La jeep è rimasta incastrata contro un cassonetto qui al centro della piazza, vicino al marciapiede. Poi gli è passata sopra.”
Guardo dove il ragazzo indica. Ma non ci sono tracce di sangue per terra.
“Perché l’avrebbero spostato?”
“Non so, ma so che è caduto proprio là, vicino al marciapiede. E ho sentito due colpi di pistola.”
“Lo conoscevi?”
“Mai visto.”
“Di dove sei?”
“Di fuori…”
Si allontana in fretta. Non vuole dire altro. La piazza s’è ormai riempita di gente.



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