Nell’imminenza del centenario dall’uscita del poema è da poco stata pubblicata per Il Saggiatore una nuova traduzione di The Waste Land di Thomas Stearns Eliot, a cura di Carmen Gallo.
Questa nuova versione italiana del poema eliotiano, tanto per smascherare le irriducibili difficoltà di ogni traduzione soprattutto se di poesia, riapre di petto la questione filologica che ne circonda il titolo: al posto de La terra desolata, come è generalmente noto in Italia The Waste Land, il secondo poema di Eliot dopo Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock viene reso con un più espressivo La terra devastata.
“Devastata” è indubbiamente più preciso, forse troppo, rispetto al tradizionale “desolato” dal sapore bruegeliano, che richiamava i deserti del Novecento vagheggiando di più – ma, a voler essere puntigliosi, sale il sospetto di dover spostare l’attenzione sull’altra parola che compone il titolo del poema, e dire “landa” invece che “terra”, perché fonicamente più affine all’originale – se non, addirittura, in un’operazione più metafilologica che traduttiva, Il paese guasto, se è vero che Eliot volesse echeggiare nel titolo della sua opera maggiore un verso minore di Dante (“«In mezzo mar siede un paese guasto»”, da Inf. XIV, 94, ambientato nel girone dei violenti contro Dio).
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
“Aprile è il mese più crudele, genera
lillà dalla terra morta, mescola
memoria e desiderio, pungola
radici ottuse con pioggia primaverile”
Ecco l’originale di Eliot, e la traduzione di Carmen Gallo, dei primi quattro versi della prima sezione dell’opera, significativamente intitolata The burial of the dead, “La sepoltura dei morti”.
Sin dalle primissime parole si potrebbero discutere come lodare le scelte della traduttrice – non è forse più poetico “Aprile è il più crudele dei mesi”, come dicevano molte delle traduzioni precedenti? – ma, a ben vedere, in un senso traslato ma più alto del termine, ogni mera questione filologico-ermeneutica perde importanza al cospetto di quella che si potrebbe definire la “vera” traduzione italiana di The Waste Land di Eliot – traduzione in senso alto, dicevamo, traduzione in chiave autoriale, che è omaggio ma anche scavalcamento dell’originale, che ne è totale riscrittura e attualizzazione, in un’altra lingua, quasi tre decenni dopo. Un’opera che è a tutti gli effetti autonoma, eppure, come solo le poesie tra di loro possono essere, derivativa al massimo grado.
“Nude, le braccia di segreti sazie
A nuoto hanno del Lete svolto il fondo,
Adagio sciolto le veementi grazie
E le stanchezze onde luce fu il mondo
Nulla è muto più della strana strada
Dove foglia non nasce o cade o sverna
Dove nessuna cosa pena o aggrada
Dove la veglia, mai il sogno alterna”
Così inizia La Terra Promessa di Giuseppe Ungaretti, raccolta poetica datata 1950 e divisa in tre sezioni (una Canzone, diciannove Cori descrittivi di stati d’animo di Didone e un conclusivo Recitativo di Palinuro) che, nell’inaspettato approdo a un certo classicismo, quantomeno di temi, del suo autore, si pone in una condizione di attentissimo ascolto nei confronti dell’originaria Waste Land di Eliot, ripresa sin dal titolo. Non che si debba insistere troppo su un’eventuale filiazione tra le due epoche: La Terra Desolata di Thomas S. Eliot e La Terra Promessa di Giuseppe Ungaretti sono, più semplicemente, due opere simmetriche. In entrambi i casi è dalle rovine dell’Occidente che il poeta scrive; ma Eliot queste rovine le riflette anche su un piano contenutistico e organicamente anche formale all’indomani della Prima guerra mondiale, Ungaretti, che nella Grande Guerra ha combattuto e adesso è scampato anche alla Seconda e alla morte del figlio, sceglie di mostrare un contraltare, un’alternativa, un punto di fuga dalla devastazione dell’Europa, dell’Occidente e del mondo intero. Questa “terra promessa”, negli anni della ricostruzione, è sia un punto di fuga che un eschaton, laico e al tempo stesso mitico, che Ungaretti indica innanzitutto a sé stesso come punto di fuga, come ancora di salvezza.
What are the roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images, where the sun beats,
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,
And the dry stone no sound of water…
“Quali sono le radici che afferrano, quali i rami
che sbucano tra questi rifiuti di pietra? Figlio dell’uomo,
questo non sai né puoi indovinarlo, perché conosci soltanto
un mucchio di immagini sfatte, dove picchia il sole,
e l’albero morto non offre riparo, e il grillo nessun conforto
e la pietra secca nessun suono d’acqua”
Che tra Eliot e Ungaretti corresse buon sangue tanto a un livello poetico quanto a un livello umano è cosa nota: il premio Nobel definì l’autore de Il porto sepolto come “uno dei pochissimi autentici poeti della mia generazione”, indicandolo come il migliore verseggiatore italiano del periodo assieme ad Eugenio Montale.
Quella che indubbiamente era un’affinità di gusti, di temi e di modi poetici si esplica però, nel confronto tra The Waste Land e La terra promessa, secondo accenti molto diversi, pur partendo da una premessa (promessa?) analoga – questa “terra”, o un’altra “terra”. Lette una accanto all’altra – e non solo l’assonanza fra i due titoli ce lo impone, ma anche la nota vicinanza umana e poetica fra i due autori – La Terra Desolata di Eliot e La Terra Promessa di Ungaretti compongono sia un crocevia che una progressione.
In questa dualità fra la desolazione e la redenzione – in questa progressione – si può cogliere senza forzature ciò che un altro pensatore affascinato dal tema della catastrofe e del suo superamento, l’antropologo Ernesto De Martino, chiamava “ethos del trascendimento”.
Nella Waste Land eliotiana una successione di personaggi, una theoria confusa, una processione caotica quasi come se, nei bombardamenti che avevano sconvolto la Prima Guerra Mondiale e che sarebbero tornati per la Seconda, tutti gli archetipi dell’Occidente, e soprattutto quelli che come Tiresia teorizzavano sul destino, venissero sfollati in un esodo senza meta. Al contrario, soprattutto se paragonata agli esordi della poesia ungarettiana, La terra promessa spicca invece per l’equilibrio formale, il versificare candido, quasi da fregio marmoreo. La Seconda Guerra Mondiale è alle spalle: Ungaretti si trova sempre “dopo l’Apocalisse” come nel 1922, ma in un altro senso rispetto ad Eliot, e forse già certo che di grande guerra non ce ne sarà una Terza. Rispetto alla disperazione che si propagava nella precedente raccolta Il dolore, uscita nel 1947 più a ridosso della guerra e della morte prematura del figlio Antonietto.
Del resto, gli echi e le assonanze tra T.S. Eliot e Ungaretti non si limitano solo a questi due lavori poetici. Da un punto di vista biografico, Eliot ed Ungaretti erano coetanei, nati entrambi nel 1988, ed entrambi si erano trovati ad abbandonare i luoghi natali – il Missouri per Eliot, Alessandria d’Egitto per Ungaretti – a favore di Parigi, un luogo di fermento culturale unico intorno al 1910; il giovane Ungaretti avrebbe avuto un rapporto meditato e a tratti struggente con la sua identità italiana, forse introiettata davvero solo durante la Grande guerra, laddove Eliot, in età più matura, essendosi ormai trasferito in pianta stabile nel Regno Unito si sarebbe trovato a rinunciare del tutto alla cittadinanza statunitense per acquisire quella inglese. Come poeta Eliot, che non combatté in prima persona come soldato, era venuto alla luce nel 1915 con l’enigmatico J. Alfred Prufrock, laddove Ungaretti aveva esordito nel 1916 con Il porto sepolto, quando era ancora sotto le armi. E anche gli echi tra The Waste Land e La terra promessa non riguardano solo i titoli delle due opere e le analoghe eppure dissonanti circostanze storiche della loro composizione: La terra promessa non nasconde diverse assonanze ed allusioni interne che rimandano alla Waste Land del collega inglese, la più vistosa delle quali è quell’”ora credula” che tanto ricorda quella violet hour in cui il Tiresia eliotiano profetizzava.
Bella anche la conclusione del Recitativo di Palinuro, che chiude la raccolta di Ungaretti:
“Piloto vinto d’un disperso emblema,
Vanità per riaverlo emulai d’onde;
Ma nelle vene già impietriva furia
Crescente d’ultimo e più arcano sonno,
E più su d’onde e emblema della pace
così divenni furia non mortale”
Il fenicio Phlebas di Eliot, morto annegato “da quindici giorni”, spolpandosi e decomponendosi sott’acqua sprofondava nell’oblio, dimenticando “il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare/e il profitto e la perdita”, e diventando così una sorta di memento mori; invece il Palinuro ungarettiano, il marinaio che nell’Eneide moriva affogato lungo la costa campana, tradito dal dio Sonno, senza risorgere sa trasfigurarsi. Trovare in mezzo ai versi una soluzione a quell’”avversità del corpo… mortale” che già da vivo avvertiva. Vincere, in un qualche modo, anche la morte – trascenderla, come diceva De Martino. Questa “terra promessa” che Ungaretti astrae ed indica è più edenica, ma non paradisiaca. Perché più che consolatoria, l’immagine di una terra promessa è rasserenante, è la garanzia di un ritorno alle radici, termine soffertamente caro tanto ad Eliot quanto ad Ungaretti, tanto più cruciale al termine di un conflitto mondiale, di una duplice apocalisse sfiorata. La terra promessa è quasi una visione, nel senso autenticamente religioso della parola. È un approdo – perennemente differito, non diversamente dall’irraggiungibile “porto sepolto” che rappresentava il motivo di fondo della prima raccolta poetica di Ungaretti.
Questa successione fra le due Terre che si può cogliere passando da Eliot a Ungaretti è in fondo ciò che era lo stesso esodo biblico: decennale pellegrinaggio, poi arrivo, tentazione, poi ristoro – un bel brano del compositore polacco Wojciech Kilar, Exodus, rappresenta bene questo tratto di attesa e ricerca tipico soprattutto dello spirito ebraico. E non solo la Bibbia ha la sua terra promessa, ma anche l’altro grande testo dell’Occidente, l’Odissea di Omero, esplicitamente richiamata sia da Eliot che da Ungaretti nelle loro due composizioni: fra Ithaka e Canaan, fra un ritorno che è restaurazione e una conquista che è rivoluzione, si viene a creare una dualità caratteristica di tutto il pensiero occidentale – non a caso il filosofo ebreo Levinas contrapponeva criticamente Ulisse ad Abramo. Ma è proprio ad Ulisse – con qualche eco forse del primo Ulisse di Saba datato 1933 – che vengono messi in bocca i versi più belli de La terra promessa di Ungaretti, prefigurando una sua impossibile ripartenza dopo l’arrivo:
“E se, tuttora fuoco d’avventura,
Tornati gli attimi da angoscia a brama,
D’Itaca varco le fuggenti mura
So, ultima metamorfosi all’aurora,
Oramai so che il filo della trama
Umana, pare rompersi in quell’ora”
Confrontare The Waste Land di Eliot con La terra promessa di Ungaretti non è solo un gioco erudito o una riflessione sul “concetto alto” di traduzione: mettere a paragone due opere tanto riassuntive e tanto originali nei confronti del patrimonio culturale novecentesco implica anche un riflettere sul concetto di tradizione.
La domanda che da un simile confronto si può trarre è semplice e millenaria: la tradizione poetica dell’Occidente potrà rimodularsi? O resterà sempre e per sempre ancorata ai suoi archetipi, sfasciati o restaurati che siano? La cosa più sconvolgente è che per l’ulissiaca Canzone che apre La terra promessa Ungaretti ritrova sinanche le rime, e non qualche rima sparsa o interna come già capitava ne Il porto sepolto ma un vero e proprio schema rimico ABAB, da cui la sua sensibilità era sempre rimasta distante e contro cui (quasi) tutto il canone della poesia a lui contemporanea sembrava remare contro.
Riletto alla luce delle sue opere senili, tutto l’opus di Ungaretti – così come, in maniera diversa ma forse più radicale, tutto l’opus di Eliot soprattutto tra il “prima” e il “dopo” della conversione – vive di un’esitazione rara tra avanguardia e classicismo che raccoglie in sé tutto il contraddittorio humus del novecentesco. Tra i versicoli de Il porto sepolto e il classicismo restaurato ma non introiettato de La terra promessa, passando per il barocchismo meditato de Il sentimento del tempo che continua a riverberarsi anche ne La terra, fino ad arrivare al conclusivo Taccuino del vecchio e al Dialogo con Bruna Bianco, Ungaretti sembra riassumere dentro di sé e dentro il suo opus tutto l’itinerario – contraddittorio, soggetto a ritorni, a palinodie – compiuto dal verso occidentale nei tre millenni della sua esistenza. E a chi paventa in maniera assolutistica un’ipotetica “fine della poesia”, o decadentismo dell’Occidente stesso, sembrano così rispondere tre versi del decimo dei Cori descrittivo di stati d’animo di Didone:
“Il mio declino abbellirò stasera;
A foglie secche si vedrà congiunto
Un bagliore roseo”