Sono diversi i fattori che in Italia hanno determinato l’innescarsi prima e l’affermarsi poi in maniera definitiva, a partire dalla metà degli anni ’60, di un graduale processo di svilimento e indebolimento strutturale della funzione critica dell’intellettuale, che coinvolge inevitabilmente anche il lavoro di analisi e ricerca svolto sulle pagine dei settimanali e delle riviste d’informazione politica e culturale. All’interno di un moto storico ricco di concause e sviluppi consequenziali, due sono i fenomeni che più hanno inciso sui mutamenti e le trasformazioni che hanno interessato la figura dell’intellettuale e il suo raggio d’azione entro il perimetro dell’opinione pubblica e del panorama della stampa: da una parte il potenziamento in senso industriale del settore dell’informazione, avviato già negli anni precedenti ma destinato a raggiungere gli apici più elevati a partire dagli anni ’70, che ha riguardato anche e soprattutto, eccetto qualche rara eccezione, gran parte della stampa periodica e dunque rotocalchi, riviste illustrate, patinate e periodici d’attualità politica e culturale di qualità, fondati negli anni della ricostruzione; a quest’incipiente industrializzazione tipica della nascente società neocapitalista si è accompagnato un mutamento comportamentale e relazionale opposto ma complementare, quello della politicizzazione dell’intellettuale, specialmente se di fede o vicinanza comunista o socialista, inevitabile dopo le drammatiche esperienze della Seconda Guerra mondiale e soprattutto della Resistenza, che hanno reso improvvisamente anacronistico il concetto dell’intellettuale “chierico”, teorizzato da Julien Benda1 vent’anni prima. Ne ha conseguito dunque o l’inglobamento effettivo degli intellettuali all’interno del processo industriale di razionalizzazione lavorativa del sistema neocapitalista o l’inserimento più o meno organico entro le fila di un partito, che ha comportato necessariamente l’affiliazione ideologica, l’obbedienza rigida a determinati leit-motiv politici ed economici e allo stesso tempo la sottomissione egemonica agli indirizzi culturali imposti dalle gerarchie di comando. Entrambi i fenomeni, pur agendo e presentandosi con modalità d’applicazione quanto mai differenti, hanno ridotto l’intellettuale a quello che Sartre ha definito “tecnico del sapere”, ossia colui che «accetta l’ideologia dominante e vi si adatta»2, arrivando «a porre l’universale al servizio del particolare»3, praticando l’autocensura e consegnandosi paradossalmente a una condizione apolitica o agnostica. Coloro che invece sono stati cooptati dalle leve dell’industria culturale, ormai privati della loro indipendenza critica e artistica, hanno sacrificato «le contraddizioni e le complessità del pensiero al cosiddetto senso comune»4. A tal proposito Fortini ha espresso, a metà anni ’60, valutazioni assai critiche:
Lo stato servile dell’uomo di lettere e di cultura è oggi in Italia divenuto perfetto. Fino a poco tempo fa era mascherato dall’arretramento dello sviluppo economico e sociale del nostro paese, dai sofismi sull’antifascismo cosiddetto obiettivo degli uomini di cultura e dai modi di presenza o di partecipazione politica. […] I settori “progressisti” della cultura italiana, incapaci di valutare l’importanza delle loro funzioni […], una volta caduta o sfumata la connotazione politica che era spesso il più forte argomento implicito dei loro studi e libri, si sono trovati a collocare non solo di fatto ma anche di diritto il proprio lavoro nei quadri organizzativi della società odierna quale essa è, col suo governo, le sue industrie giornalistiche ed editoriali. […] I veri nemici della cultura e della libertà non sono né i partiti né le loro ideologie, non la passione politica, ma le grandi istituzioni culturali di massa, la scuola, la stampa, l’editoria, la radiotelevisione, il cinema: cioè coloro che pagano5.
Oramai quasi del tutto estinta la figura dell’umanista letterato che vive di rendita, l’intellettuale tipo del secondo Novecento, che spesso sfugge a una precisa categorizzazione di classe, ha subito un processo di imborghesimento, che se da una parte lo ha proiettato all’interno di una corporazione o di una categoria di appartenenza più o meno ideale, dall’altra lo ha costretto a farsi imprenditore di se stesso, commercializzando il proprio sapere e il proprio acume critico e artistico e di fatto rinunciando ad ogni antica prerogativa di difesa e custodia di un’ humanitas astorica e atemporale. Impossibilitato ad applicare appieno l’eredità concettuale dell’idealismo crociano, che promulgava una cultura totalmente libera e svincolata dai retaggi corrosivi e terreni del quotidiano, l’intellettuale italiano vive una contraddizione in termini, d’altronde condivisa pienamente da numerosi esponenti culturali di ogni altro paese occidentale, incapace com’è di sfuggire «alla pressione che la realtà economica esercita su di lui e all’obbligo di soddisfarne le mutevoli esigenze»6.
La formazione di una “forza-lavoro intellettuale” è il vero «aspetto rivoluzionario del rapporto fra intellettuale e mondo capitalistico. […] L’intelligenza, la cultura, la competenza tecnica erano valori non commensurabili, qualità astratte e indivise. Il loro corrispettivo in denaro […] non ubbidiva a regolare fisse e oscillava ad arbitrio dei singoli»7.
Come spiega bene Simonetta Piccone Stella: «Perché denaro e cultura potessero travasarsi l’uno nell’altra, secondo un commercio non casuale ma lucido e coerente, era necessario che i valori culturali diventassero calcolabili e quantificabili secondo parametri analoghi a quelli in uno per la forza-lavoro manuale»8.
Dipendendo dai meccanismi di produzione affermatisi nel Dopoguerra e venendo quindi impiegato principalmente nelle aziende o nelle industrie come addetto alle risorse umane, alle pubbliche relazioni o all’ufficio stampa, o come risorsa funzionale all’interno degli apparati editoriali, giornalistici, cinematografici, controllati dai grandi capitali dell’industria (siderurgica, tessile, agroalimentare, energetica, automobilistica), dalle concentrazioni aziendali, dalle quotazioni in borsa, dalle banche e dagli istituti di credito, l’intellettuale viene vincolato ad un utilizzo prettamente finalistico delle sue capacità principali, all’interno di un circolo vizioso in cui le «mille incombenze di una vita affaccendata rendono sempre più difficile la concentrazione e lo sforzo necessario per produrre qualcosa che abbia una certa consistenza comincia a diventare talmente arduo che non c’è quasi più nessuno che sia in grado di reggerlo»9. Scrive Adorno a tal proposito: «La pressione del conformismo, che grava su ogni produttore, abbassa ulteriormente le sue esigenze verso se stesso. È il centro stesso dell’autodisciplina intellettuale che appare in procinto di dissolversi»10.
Nel momento in cui il compito dell’intellettuale e il discorso a lui intrinsecamente legato per statuto ereditato e per qualità ontologica riconosciuta vengono a confluire interamente nella sua totale politicizzazione o burocratizzazione partitica o nell’inserimento organico entro le strutture portanti dell’industria culturale, la parcellizzazione del sapere sostituisce il grande ideale di una conoscenza universale – storicamente perseguita da almeno due secoli – determinata da un proprio interno campo specifico di sviluppo, autosussistente e non vincolata a fattori esterni e condizionanti. Ciò ha comportato un «nuovo tipo di legame tra la teoria e la pratica»11, che ha mutato profondamente anche la valutazione di alcune concezioni basilari strettamente connesse alla pratica intellettuale.
Infatti, come scrive Sartre, «la professionalizzazione del sapere implica un disconoscimento della dimensione etica che, per converso è richiesta dalla nozione di verità, poiché essa semplicemente scompare nelle procedure tecniche»12. A cavallo dell’età del boom economico, dunque, in tutti i paesi occidentali, gli intellettuali «hanno preso l’abitudine di lavorare non nell’“universale”, l’“esemplare”, il “giusto ed il vero per tutti”, ma in settori determinati e nei punti precisi in cui li collocavano e le loro condizioni professionali e di lavoro e le loro condizioni di vita»13.
I fenomeni di razionalizzazione e inglobamento lavorativo hanno mutato alla radice le condizioni basilari dell’attività intellettuale.
Nel 1929 Karl Manheim scriveva che «in ogni società esistono dei gruppi, il cui compito è di fornire ad essa una determinata concezione del mondo. Noi denominiamo questi gruppi “l’intellighenzia”»14. Il sociologo tedesco individuava proprio nella difficoltà di assimilazione degli intellettuali a una determinata e univoca classe sociale la loro caratteristica principale, il loro punto di forza, a cui si aggiungeva la condivisione di un sostrato culturale comune dato da una simile educazione e da un bagaglio di letture e conoscenze ad essi sotteso capace di sopprimere le differenze di nascita, di professione e ricchezza. Perciò, per usare le parole dello stesso Manheim:
Mentre coloro che partecipano direttamente al processo produttivo – gli operai e gli imprenditori –, essendo legati a una classe e a un modo di vita particolare, sono determinati nelle loro concezioni e nelle loro attività da una specifica situazione sociale, gli intellettuali, per quanto conservino l’impronta della classe da cui provengono, sono altresì condizionati, nella loro particolare prospettiva, da questa consapevolezza culturale in cui si riflettono tutte le concezioni in gioco15.
Appare evidente che circa vent’anni dopo la situazione è totalmente capovolta, non solo perché i gruppi intellettuali non riflettono più la concezione della società a cui appartengono, d’altronde relativizzatasi e oramai multiforme e pluralizzata, ma anche perché, avendo abbracciato spesso volontariamente e acriticamente i valori dell’ideologia dominante, le scelte imposte da un partito o più implicitamente gli stilemi determinati di un certo modello di vita a cui è complesso sfuggire, l’intellettuale non può che diventare testimone passivo, a volte mediatore, ma comunque privato ormai dei mezzi e degli strumenti atti a imporsi con forza sul senso comune vigente e sui conformismi della società, incapace di denunciarne i mali e i pericoli, interpretandone i segnali sopiti. La preponderanza della sfera della produzione e della politicizzazione partitica, oscurando i beni fondamentali della libertà di analisi e critica, della ricerca di una verità pratica e poetica, dell’indipendenza creativa e artistica, dello sperimentalismo disinteressato, minacciano dunque di «estinguere la figura stessa dell’intellettuale come è finora apparsa nella storia. […] Ora l’intellettuale viene colpito da una burocratizzazione e specializzazione in senso deteriore: colui che era stato un professionista liberale rischia di diventare appendice di un’azienda, sottoposto senza residui alla logica aziendale»16. Ha ragione, dunque, Foucault quando scrive che «bisogna pensare il problema politico degli intellettuali non nei termini “scienza/ideologia”, ma in quelli “verità/potere”»17.
Nella società neocapitalista, venuta meno ogni tensione dialettica speculativa, ogni ricerca conoscitiva libera da manipolazioni e doppi fini, «la ragione, come ragione strumentale, si è assimilata al potere, e ha quindi rinunciato alla propria forza critica»18.
1 Cfr. J. Benda, Il tradimento dei chierici (1° ed. 1928), Torino, Einaudi, 1976, p. 95: «I chierici, disegnando con questo nome tutti coloro la cui attività, per natura, non persegue fini pratici, ma che, cercando la soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dicono in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”».
2 J. P. Sartre, L’Universale singolare. Saggi filosofici e politici 1965-1973 (1° ed. 1980), Milano-Udine, Mimesis, 2009, p. 38.
3 Ibid.
4 M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (1° ed. 1947), Torino, Einaudi, 2015, p. 78.
5 F. Fortini, La verifica dei poteri, Milano, il Saggiatore, 1965, pp. 31-32.
6 M. Horkheimer, Op. cit., p. 92.
7 S. Piccone Stella, Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari, De Donato, 1972, p. 170.
8 Ibid.
9 T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1° ed. 1951), Torino, Einaudi, 1979, p. 21.
10 Ibid.
11 M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977, p. 20.
12 J. P. Sartre, Op. cit., p. 15.
13 M. Foucault, Op. cit., p. 15.
14 K. Manheim, Ideologia e utopia (1° ed. 1929), Bologna, il Mulino, 1999, p. 12.
15 Ivi, p. 154.
16 E. Zolla, Eclissi dell’intellettuale (1° ed. 1959), Milano, Bompiani, 1965, p. 208.
17 M. Foucault, Op. cit., p. 27.
18 J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Bari, Laterza, 1987, p. 122.