Daido Moriyama. Tremila Polaroid

Superato un grande fregio dipinto a scoppi, posto davanti a uno schermo dentro cui miriadi di animali non smettono di vivere e ballare, dopo delle sedie e dei video e un lutto, dopo essere passati attraverso un corridoio costellato da grandi occhi che si spiano a vicenda, usciti da una stanza rossa cremisi di sangue, riempita con sedute zebrate e una voce che parla, — dopo circa due terzi della mostra Les Citoyens — c’è un ingresso poco visibile, una leggera deviazione sul percorso. È lì che ho incontrato la fotografia di Daido Moriyama.
L’artista, ora ottantenne, è nato nel 1938. Nel 61 si è trasferito a Tokyo e nel 64 ha iniziato la sua carriera come fotografo freelance. Uno dei più importanti fotografi giapponesi, è entrato in forte dialogo con l’arte occidentale, in una sua intervista racconta di come una delle prime mostre di Warhol oltreoceano abbia cambiato la sua visione della fotografia. Bene, parliamo di ciò che fa.

Daido Moriyama, Dog and Meshtights (2015)

Le sue fotografie sono degne di un fantasmagoreuta ottocentesco, dove spettri e bagliori emergono dai luoghi indefiniti della città. Sono anche poetiche, ma poetiche in modo sporco e inquietante. In inglese abbiamo un termine appropriato: Eerie, parola legata alla superstizione, al maligno, lo spaventoso; l’Unheimlich, come con economia di mezzi l’ha definito Mark Fisher sempre riguardo la cultura pop: “ciò che è stranamente familiare, ciò che è familiare reso estraneo” . Quello che si trova nei vicoli delle città, nel dietro delle piazze dove non ci piace guardare. Sono rimasto stupito quando, dopo Polaroid Polaroid, ho visto altre sue foto, due reazioni simili e contrarie: o singoli oggetti posseduti (come il tendinastro trovato esplorando la Gallery della Daido Moriyama photo foundation, dalla serie Dog and meshtights), o “una folla di fantasmi della rivoluzione”, come disse un giornalista davanti a uno dei primi spettacoli di fantasmagoria.

Daido Moriyama, Stray Dog (1971)





Nella foto Stray dog, il cane di Moriyama ricorda allo spettatore occidentale il Black dog, o Gwyllgi del folklore inglese, un mastino nero con occhi fiammeggianti che è augurio di morte per chi lo vede, durante la notte, vagare a grandi balzi nelle buie strade del Galles. Questa immagine mitologica si è riversata in molta della cultura letteraria e pop dei nostri giorni, dal The Hound of the Baskerville di Arthur Conan Doyle a Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, dal gigante di Goethe, il Faust, a un piccolo racconto sperduto in un libro di Stefano Benni[ii] . L’immagine di un feroce cane nero — anche chiamato Barghest — associato al diavolo e alla morte, riapre finestre di rimandi e citazioni, una vita sotterranea delle immagini da Est a Ovest che la fotografia più famosa dell’artista (forse) inconsciamente ci mette davanti.
Come ci rivela in alcune sue interviste, Moriyama non era affatto estraneo alla cultura occidentale, tuttavia con questo scatto non ha in mente il demonico animale della notte: il suo è un ritratto, di sé stesso e del Giappone.

Daido Moriyama, Dog and Meshtights (2015)

“In una cultura che è stata definita da ordine e purezza, per un fotografo, identificarsi con, e celebrare l’idea di un cane randagio era un profondo cambiamento. Ha portato un sotterraneo sentire culturale sulla superficie di alienazione, oscurità, odio verso se stessi e angoscia. Ha mostrato sia sé stesso che il Giappone come un cane randagio, vagante alla ricerca di rimasugli di identità, in un mondo incerto, che cambia troppo velocemente.”

“In a culture that had been defined by order and purity, for a photographer to identify himself with, and celebrate the idea of a stray dog, was a profound shift. It brought underlying cultural feelings to the surface of alienation, darkness, self-hatred, and despair. He showed both himself and Japan as a stray dog, roaming for scraps of identity in an uncertain and quickly changing world.”

Eppure, quando ho incrociato la prima volta Stray dog, io questo non lo sapevo. Quello che sapevo, piuttosto, era che quell’immagine aveva qualcosa di ritornante, qualcosa del revenant. Era infestata da una presenza più ampia ma meno palpabile, sotterranea. Quello che conta, a mio avviso, è che anche se fosse stata fatta accidentalmente, se si trattasse dell’opera del caso, se non vi era da nessuna parte l’intenzione di parlare di tutto questo, l’immagine ne parla comunque, e questo è un fatto.

Daido Moriyama, Polaroid Polaroid (1997)

Nella mostra Les Citoyens, curata dall’artista argentino Guillermo Kuitca, ora aperta alla Triennale di Milano, ho incontrato l’opera Polaroid Polaroid, parte della collezione della Fondation Cartier pour l’art contemporain. Ancora più di Stray Dog, quest’opera è un taglio netto nella trama apparentemente lineare del nostro fruire il mondo: è un’immagine che dialoga con mille altre, che distilla una parte della nostra quotidiana esperienza e ce la mostra, esposta, come un pezzo artistico.
Per inciso, già il tentativo di parlare di un’opera fotografica che non si può facilmente riportare su un sito web è un chiaro segno delle sfide poste alla logica della digitalizzazione, che vorrebbe tutto dappertutto, come già Benjamin aveva osservato, l’accesso dell’opera alle masse a discapito della perdita di un certo tipo di esperienza. Gli artisti — in tanti — hanno risposto in molteplici modi a queste problematiche, Polaroid Polaroid si ritaglia una nicchia particolare in questa storia dell’esperienza.

È difficile porre il discrimine fra installazione o opera di fotografia, in fin dei conti, non è nemmeno importante. La stanza colma di istantanee ritrae le pareti dello studio del fotografo: tremiladuecentosessantadue fotografie, realizzate lungo un periodo di tre giorni nel 1997. Questo significa, dato per buono che ogni fotografia sia uscita al primo colpo e non vi siano stati scarti — improbabile — milleottantasette fotografie al giorno. Farlo oggi ci costerebbe seicentocinquanta euro al giorno in ricariche Polaroid.
Ma tutti questi numeri sono argomenti triviali. In direzione di un’analisi formale, già il medium si presta al nostro interesse. La fotografia istantanea Polaroid: da una parte l’immediatezza della smaterializzazione, avere una copia del reale qui e ora (subito), e dall’altra parte una insolita componente auratica, una falsa sensazione di irripetibilità (poiché la fotografia istantanea è un già ripetuto, un simulacro che pure nella sua falsità detiene un qualcosa di unico).
Allora più che dire di cosa parla quest’immagine — che poi è già stato detto: dello studio dell’artista — proverò a dire con cosa parla Polaroid Polaroid, almeno con cosa parla a me, della Generazione Z.

Daido Moriyama, Polaroid Polaroid (1997)

Sul sito Google Arts & Cultures potete prendere delle opere d’arte e ingrandirle fino a vedere i colpi di pennello e le crepe del colore a olio. Le immagini hanno una risoluzione dell’ordine del gigapixel (miliardo di pixel), ma si tratta di un artificio; è opera della Google Art Camera, un dispositivo che usando intelligenza artificiale e precisi strumenti di misurazione, scatta centinaia di foto a un singolo quadro. Queste vengono messe assieme per restituire un’immagine ad alta definizione. Centinaia di foto le une vicine alle altre, che restituiscono una foto che si può esplorare, letteralmente. Nello stesso modo funziona anche Google Street View, o, più semplicemente l’opzione di immagine panoramica che ormai hanno quasi tutti gli smartphones. È una questione di smaterializzazione del reale alla massima risoluzione possibile. Tuttavia, Moriyama lascia di proposito qualcosa che un’intelligenza artificiale non avrebbe mai tollerato: un errore. Sbaglio a chiamarli errori, anche se per la logica del creare una copia alla massima risoluzione possibile lo sarebbero di certo, sono più delle sfasasature, dei nodi misteriosi, delle infestazioni. Talvolta il tessuto della parete dello studio giapponese è interrotto da altre immagini: il primo piano di un gatto, delle banane in decomposizione, una cop(p)ia di due guanti neri con lo sfondo di colore diverso, oppure il tessuto delle linee dei tavoli che non è contiguo. Lo spazio è distorto, erroneo.  D’altronde, destabilizzare il ruolo dell’informazione fotografica (il valore di realtà del referente) è ciò di cui si è occupato Moriyama dagli anni 70 in poi.

Ci dice: “fotografie di ogni generazione sono in senso basilare, in quel momento, informazione. La fotografia è sorretta (underpinned) dall’informazione. Non importa quanto concettuale una fotografia possa essere, essa contiene informazioni al suo livello più fondamentale. Ma il significato con cui questa informazione è comunicato è specifico ad ogni generazione. Uno scatto recente è valido per me come uno di dieci anni fa.”

Photographs of any generation are in a basic sense, at that moment, information. Photography is underpinned by information. No matter how conceptual a photograph may be, it contains information at its most fundamental level. But the means by which information is communicated is specific to each generation. A recently shot photograph is just as viable to me as one shot ten years ago.

Un’ultima analogia, infine, è con un trompe-l’oeil del pittore Louis-Léopold Boilly dove, su un’asse o un tavolo intarsiato, ha dipinto diversi oggetti di vita comune. Se l’affinità fra le assi della casa nipponica e quelle della superficie intarsiata sono forse solo mera suggestione, in entrambi la riproduzione mimetica della realtà entra in gioco con l’errore. Certamente Boilly non mirava a quello, o non fino in fondo, e in ogni caso non penso fosse una scelta iconografica. Il punto è che la tridimensionalità delle assi emerge e svela l’inganno mimetico: le venature del legno dipinto (succede in altre opere di Boilly) si mostrano come un errore che si cerca di nascondere ma non si può, un rimosso. Così come le leggere sfasature e ripetizioni di Moriyama, che stavolta di sua stessa iniziativa, lascia che la contiguità delle polaroid sia precisa solo fino a un certo punto. In entrambi i lavori, l’accumulo gioca un ruolo centrale, lo studio dell’artista è pieno di oggetti affissi alla parete, come altri trompe-l’oeil di Boilly, una collezione e una composizione assieme.

Louis-Léopold Boilly, Trompe-l’oeil da tavola (1793)

Questo breve viaggio è finito e, nei miei occhi di spettatore occidentale, bianco, finalmente spogliati di ogni pretesa di oggettività o esaustività, tante immagini riecheggiano come fantasmi in questi pezzi di Moriyama: i fregi ellenici che mi hanno fatto vedere a scuola, il mastino nero, i trompe-l’oeil, i pixel rotti di un vecchio schermo e l’insieme di immagini dei social, le tecniche di Street View di Google e le modalità di fotografia del portale Google Arts & Cultures — e chissà quante altre cose che io non vedo, ma chi ha letto fino a qui sta già immaginando.

Visitando le sale di Les Citoyens, non bisogna smettere di interrogare quel profondo mistero delle immagini che continua a meravigliarci (e assillarci). Spesso impossibili da incasellare e capillari nella vita di ciascuno, imparare a stare davanti alle immagini significa imparare a guardarle ma contemporaneamente guardare altrove. Le immagini hanno ancora il potere di rompere i confini fra mondi troppo spesso diventati ermetici. Le immagini sono sporche, la storia delle immagini è fatta di contaminazioni — lo sapeva bene Aby Warburg — ma in questo suo essere spuria, sta tutta la sua forza.

Immagini:

1. Daido Moriyama, da Dog and Meshtights, 2015.

2.Daido Moriyama, Stray dog, 1971.

3. Daido Moriyama, da Dog and Meshtights, 2015.

4. Daido Moriyama, Polaroid Polaroid, 1997m, 3262 Polaroïd mounted on 26 boards, 600 x 500 cm, dettaglio.

5. Daido Moriyama, Polaroid Polaroid, 1997m, 3262 Polaroïd mounted on 26 boards, 600 x 500 cm.

6. Louis-Léopold Boilly, Trompe-l’oeil da tavola, 1793, dipinto su legno. 

Sitografia:

https://aperture.org/editorial/daido-moriyama-the-shock-from-outside/
https://guida-lescitoyens.com/https://www.frieze.com/article/daido-moriyama0
https://www.moriyamadaido.com/en/photogallery/https://www.fondationcartier.com/en/collection/artworks/polaroid-polaroid
https://www.jamesmaherphotography.com/street_photography/daido-moriyama-stray-dog/
https://www.dpreview.com/news/1947958268/google-art-camera-uses-robotic-system-to-take-gigapixel￾photos-of-museum-paintings#:~:text=Art%20Camera%2C%20after%20being%20calibrated,to%20precise￾ly%20adjust%20the%20focus.

Dati della mostra:

Les Citoyens, uno sguardo di Guillermo Kuitca sulla collezione della Fondation Cartier pour l’art contemporain, a cura di Guillermo Kuitca, Triennale di Milano, 6 maggio – 12 settembre 2021.


Mark Fisher, Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione. K-Punk / 2, Minimum fax, Roma 2021, p. 54.

[ii] Il più grande cuoco di Francia, in Stefano Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 15-30.


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