Sulla libertà di discriminare e insultare

Si è molto parlato in questi giorni della calendarizzazione al Senato del DDL Zan, che prevede l’estensione della Legge Mancino, contenente delle aggravanti per i reati causati da discriminazioni su basi etniche e religiose, ai reati perpetrati sulla base del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità. Una simile estensione può essere considerata in linea con l’art. 3, comma 2 della Costituzione italiana, secondo cui la Repubblica ha il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
D’altronde, rendere più consistenti le pene per reati di matrice sessista, omofobica, lesbofobica, transfobica, bifobica e abilista consente ai cittadini che appartengono alle categorie discriminate di poter trascorrere più tranquillamente la propria esistenza e di porsi meno problemi nell’inserirsi in determinati posti di lavoro, categorie professionali, compagini politiche, comunità geografiche, culturali e affettive. In soldoni, se sapessi che il mio vicino è paraplegico e volessi picchiarlo proprio perché è paraplegico, con una legge del genere ci penserei due volte prima di esercitare questo tipo di violenza, visto che la pena sarebbe maggiore rispetto a quella prevista per una semplice aggressione. Se dovessi licenziare un dipendente non per questioni professionali, ma perché ha subito un intervento di riassegnazione del sesso, allora ci sarebbero delle conseguenze più gravi rispetto al fatto che ho licenziato ingiustamente un dipendente che mi stava antipatico. Lo stesso discorso vale per tutti coloro che istigano a simili comportamenti discriminatori.

Eppure, ci si può chiedere, come fanno gli oppositori del DDL Zan, se questo significa non poter più esprimere la propria opinione sulla presunta sacralità dell’unione tra uomo e donna, sulla legittimità della riassegnazione del sesso, sulla possibilità che esistano identità di genere fluide e non binarie, su ciò che fanno a letto le persone omosessuali, bisessuali e transgender. Si tratta di una domanda legittima, che riguarda lo status della nostra democrazia, domanda a cui il DDL risponde con un’apposita clausola salva-idee, che recita: “Sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
Dovrebbe essere tutto a posto, eppure c’è ancora ostruzione in Parlamento da parte di alcune forze politiche o singoli esponenti di partiti che si dichiarano in maggioranza favorevoli al DDL.

Tra le proteste contro la legge vi è sia l’istituzione di una specifica giornata contro omofobia, lesbofobia, bifobia e transfobia il 17 maggio, sia la possibilità, nel caso in cui le componenti scolastiche fossero d’accordo, di articolare una strategia di prevenzione anti-discriminatoria nelle scuole. In questo modo si incentiverebbe la cosiddetta “ideologia gender” dall’irrintracciabile sottofondo e da cui potrebbe provenire un’ipotetica disgregazione della società. Quale società poi? Quella delle coppie eterosessuali che tradiscono, divorziano e costruiscono nuove famiglie? Quella in cui l’uomo “fa l’uomo” e la donna “fa la donna”, rinchiudendo in gabbie costrittive la possibilità di essere se stessi e non confinati a un ruolo specifico? Quella in cui si venera un Dio che è amore, ma poi sarebbe contrario a certe pratiche sessuali dei suoi fedeli? Quelle in cui si può emarginare affettivamente e socialmente una persona, solo perché diversa dalla maggioranza? Si chiede una libertà per poterne impedire molte altre e, in un discorso di tipo liberale come quello qui sostenuto, si tratta di una contraddizione che risulta insostenibile a livello razionale e di dibattito legislativo.

Queste considerazioni conducono a un ulteriore problema, sorto dalle esternazioni dei comici Pio e Amedeo sul programma Felicissima sera di Canale 5: questi hanno sostenuto la libertà di usare termini solitamente vietati nel mondo dello spettacolo e a cui si ricorre nella parlata comune, termini come “frocio” (o “ricchione” in alcune declinazioni regionali), “negro” ed “ebreo”. Bisogna qui precisare che l’uso di “ebreo” non è di per sé discriminatorio, ma il suo essere accompagnato da determinati stereotipi. Diverso è il caso di “frocio” e “negro”, che sono di carattere apertamente offensivo, così come potrebbe esserlo “terrone” nel caso di una persona originaria dell’Italia meridionale. La questione che si pone, a questo punto, è la seguente: fin dove si estende la libertà di esprimersi? Deve includere anche l’uso di termini che, se rivolti ad alcune categorie, vengono considerati offensivi?
Se la violenza fisica è, almeno ufficialmente, condannata da tutte le forze politiche, lo stesso pare non verificarsi per la violenza verbale. Il problema riguarda la definizione di cosa si intende per violenza e se questa include una satira molto pungente o un certo modo di fare comicità.

Il contenuto dello sketch di Pio e Amedeo è altamente confutabile dal punto di vista razionale. Questi ritengono che la valenza discriminatoria delle parole dipenda dal contesto e dall’intenzione con cui sono pronunciate, e che un uso più “leggero” dei termini sopra menzionati possa essere utile a depotenziarli e a renderli inoffensivi. La prima parte di questo ragionamento è parzialmente condivisibile: se io uso uno di questi termini, rivolgendomi a un amico o a un parente con fare scherzoso, molto probabilmente non si offenderà. In questo caso, c’è un accordo reciproco e una comunanza affettiva che depotenzia effettivamente le parole utilizzate. Tuttavia, se il contesto può influenzare l’impatto di un termine, lo stesso non può dirsi per l’intenzione. Se, pur non avendo un’intenzione offensiva, mi rivolgo a uno sconosciuto dalla pelle scura con “Ehilà, negro!”, posso aspettarmi una reazione brusca e poco felice, perché il termine si riferisce a una fase della storia che rimanda alla schiavitù, all’apartheid, al Ku Klux Klan e alle violenze dei regimi autoritari e totalitari. Quindi l’intenzione leggera non suscita, nella persona apostrofata, una reazione altrettanto leggera. Si potrebbe rispondere a questo, dicendo che le persone di pelle scura si chiamano tra loro “negro” o le persone omosessuali “frocio” o i meridionali “terrone”. A parte il fatto che questo non vale per i singoli individui, l’uso leggero interno alle medesime categorie assume un significato diverso rispetto a quello che proviene da chi appartiene a una categoria diversa: un gay non dice a un altro gay “frocio” per discriminarlo, poiché condivide il medesimo orientamento sessuale. Se si rivolgesse all’altro gay in modo offensivo, si auto-discriminerebbe, il che è assurdo. Nonostante ciò, vi sono diversi gay che non amano essere chiamati “froci” da altri gay e meridionali che detestano l’appellativo “terrone”, anche se proviene da una persona del Sud Italia, poiché questo li riporta a discriminazioni subite in passato.

Pio e Amedeo non hanno alcuna idea di cosa significhi essere neri, gay o ebrei, poiché semplicemente non lo sono. Non deve essere vietata loro la possibilità di affermare le proprie idee e di credere, con grande ingenuità, che l’uso intenzionalmente leggero depotenzi la violenza di un termine. Deve tuttavia essere evidenziata la pochezza argomentativa della loro affermazione, pochezza che si basa su una mancata condivisione del vissuto altrui. La fenomenologia di Husserl, Stein e Schütz insegna che posso comprendere solo parzialmente il vissuto dell’altro e più me ne allontano, minore sarà la mia possibilità di empatia. Pio e Amedeo sono italiani, bianchi ed eterosessuali, non possono condividere in alcun modo il sentire di una persona appartenente a categorie diverse riguardo a offese dirette proprio a quelle categorie.
In soldoni, Pio e Amedeo non sono neri, dunque non hanno idea dell’effetto che può avere su di loro la parola “negro”. La loro argomentazione non si basa su aspetti che riguardano la legittimità giuridica, le decisioni politiche e altri elementi intersoggettivamente e razionalmente condivisibili, bensì sul sentire: affermano che un nero, un gay o un ebreo non dovrebbe “sentirsi” offeso se l’uso di negro, ricchione o ebreo accompagnato da stereotipi è pronunciato in maniera scherzosa, leggera e non discriminatoria. Pio e Amedeo dicono agli altri, insomma, come si dovrebbero sentire e questa è certamente una fallacia dal punto di vista filosofico, considerato che non possono mettersi nei panni degli altri, perlomeno non dal punto di vista di altri appartenenti a una determinata categoria discriminata.

Se poi un giorno le persone di pelle scura dichiareranno che l’uso della parola “negro” è per loro inoffensivo e scherzoso, allora si potrà pronunciare liberamente, ma è a loro che bisogna chiedere. Se gli omosessuali non si riterranno più offesi dalla parola “ricchione”, allora ci si potrà rivolgere così a loro. Quando gli ebrei, molto difficilmente, saranno guariti da secoli di discriminazione subita, allora si potrà scherzare quanto si vuole sugli stereotipi a loro attribuiti. Fino ad allora, non bisogna dimenticare gli atti di schiavismo, di persecuzione, di apartheid, le leggi discriminatorie e separatiste, i campi di concentramento e l’uso dello Zyklon B. Certe parole e certi stereotipi rimandano a delle ferite ancora aperte e, per questo, il loro uso deve essere estremamente cauto e non demandato a una comicità da bar.

Se il DDL Zan verrà approvato, i comici Pio e Amedeo potranno continuare a lavorare con i loro sketch comici, così come coloro che non hanno simpatia per le donne, gli appartenenti allo spettro LGBT+ e i disabili potranno esprimere le loro opinioni, purché queste non siano causa di atti violenti o non istighino nessuno a compierli. Si spera, tuttavia, in una società permeata dall’accettazione dell’altro e dal rispetto della sua libertà, che finisce dove inizia la mia e viceversa.



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