Le lezioni della pandemia

La pandemia di Covid-19 ha posto le democrazie contemporanee di fronte a una sfida senza precedenti. Ha costretto i governi a dedicare un impegno quasi esclusivo alla garanzia della salute pubblica anche a scapito, in certi casi, delle libertà personali e delle attività economiche ordinarie. Ha ridotto i diritti democratici fondamentali dei cittadini di riunirsi e di circolare e ha acuito la nostra sensibilità nei confronti di tutti i passaggi che possono gradualmente preludere a una trasformazione in senso autoritario delle pratiche di governo. È vero che nella prima fase della pandemia la politica era come sospesa, ma nella seconda è tornata centrale. E quando ciò è accaduto, le scelte politiche compiute non hanno probabilmente contribuito ad alimentare la fiducia nei cittadini nelle istituzioni. Quali sono allora le lezioni che è possibile trarre nella prospettiva che considera essenziale garantire il capitale di credibilità dei cittadini nei confronti dei processi e delle istituzioni democratiche?

La prima lezione è che la pandemia di Covid-19 può avere effetti corrosivi sulla tenuta di istituzioni democratiche già in difficoltà.
Quasi ovunque le autorità governative, di fronte all’insorgere di una pandemia imprevista, hanno abbracciato una politica dell’emergenza che ha di fatto espropriato ruolo e prerogative dei parlamenti. Si è trattato certo della necessità di reagire tempestivamente e in maniera coordinata di fronte alla pandemia, ma il rischio che molti paventano è che l’emergenza si trasformi in routine, accentuando il deficit non di governabilità, ma di rappresentatività, che sta erodendo ormai da tempo le fondamenta dei nostri sistemi democratici. Questo rischio è amplificato dal fatto che la pandemia si è innestata su una crisi preesistente della democrazia, alimentata dall’impotenza che i governati avvertono nel vedere le proprie istanze ignorate dai governanti – sfiducia ormai così radicata e diffusa da minare la stessa legittimità delle istituzioni rappresentative e dei corpi intermedi, a cominciare dai partiti. In effetti, la pandemia è stata usata come pretesto per accelerare l’erosione delle istituzioni rappresentative soprattutto là dove era già minacciata.
La volontà degli esecutivi in carica in alcuni Paesi di sospendere le regole della “normale” competizione democratica potrebbe essere perciò considerata indicativa dell’avvento della cosiddetta “postdemocrazia” descritta da Colin Crouch. A questa linea di tendenza si oppongono tuttavia tendenze contrarie. Anche le reazioni degli attori democratici di fronte ai tentativi dei governi di scavalcare le assemblee rappresentative e ogni discussione politica hanno giocato un ruolo importante. I controlli esercitati da una stampa libera, una magistratura indipendente, un’opposizione parlamentare e una società civile attiva e vigile hanno impedito una deriva autoritaria. Non sembra perciò attualmente realistico cedere all’ansia generalizzata per la tenuta della democrazia creata da una narrazione mediatica un po’ troppo semplificata. Anzi, è verosimile ritenere che le democrazie liberali sconfiggeranno il “cigno nero” della pandemia prima e meglio delle democrazie “illiberali”.

E infatti, la seconda lezione che ci è stata impartita dalla pandemia di Covid-19 è che anche in una condizione di emergenza la politica democratica non è priva di alternative. La tendenza alla centralizzazione del potere a favore degli esecutivi è stata infatti condizionata dal quadro istituzionale proprio dei sistemi democratici. La risposta all’emergenza non è sempre coincisa con lo scoccare dell’“ora dell’esecutivo”; talvolta, è stata anche l’occasione per far risuonare l’“ora del parlamento”. Le assemblee rappresentative si sono ovunque adattate rapidamente alle nuove circostanze, introducendo un mix di videoconferenze, voto elettronico o per delega in modo da continuare esercitare la loro funzione di controllo. Se i parlamenti possono continuare a operare efficacemente, diventa difficile sostenere che la normale dialettica democratica sia stata sospesa. Dopo tutto, a differenza di un nemico in tempo di guerra, il Covid-19 non è un attore strategico, per cui non c’è alcuna ragione di abbandonare le pratiche democratiche della trasparenza e dell’accountability. Forme di maggiore coinvolgimento parlamentare, che permettono una rappresentanza più articolata e differenziata degli interessi sociali coinvolti, potrebbero anzi fornire una sorta di argine alle disparità emerse nelle risposte politiche alla pandemia.

È stato proprio in queste circostanze che la circolazione comunicativa promossa da una sfera pubblica mai totalmente disciplinabile si è rivelata decisiva. Dopotutto, non è stato il governo cinese ad allertare l’Oms in merito alla minaccia costituita dal Covid-19, ma un’organizzazione non governativa, messa sul chi vive dagli allarmi postati dai cittadini cinesi sui social media. La sfera pubblica si è anche rivelata un fattore importante di controllo informale sull’azione dei governi, mettendone a nudo le dimostrazioni di incompetenza e le pratiche di esclusione.
È stato il clamore suscitato dai media e dall’opinione pubblica a modificare le politiche del governo britannico e a spingerlo a rinunciare alla risposta improntata alla “immunità di gregge”. Le proteste antirazziste hanno denunciato la disparità nell’assistenza fornita alle persone di colore e le reti di assistenza informale hanno contribuito ad alleviare la sofferenza delle persone in maniera più tempestiva ed efficace di quella offerta dalle burocrazie centralizzate. Questi esempi positivi dimostrano quanto sia importante cominciare a immaginare forme di impegno attivo dei cittadini e dei movimenti civili nelle (prevedibili) future situazioni di emergenza, anche per conservare quella solidarietà sociale che appare sempre più bisognosa di rigenerazione.

La terza lezione che si può ricavare dall’emergenza è che la pandemia ha amplificato le disuguaglianze presenti all’interno delle democrazie. In primo luogo perché il virus si diffonde con maggiore rapidità tra coloro che vivono in condizioni abitative precarie e si rivela particolarmente letale nei confronti delle persone che non godono di buona salute. In secondo luogo perché la risposta politica è sembrata offrire protezione a chi è già protetto e ad abbandonare a se stesse le persone più vulnerabili. Vi è stato persino chi non ha esitato a porre la domanda: “Fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo?”.
Il pudore ha evitato che qualcuno suggerisse una risposta, ma è capitato che l’emergenza mettesse i sanitari nella condizione di dover scegliere chi curare e chi no quando, per esempio, i respiratori non erano in numero sufficiente. Lo si è fatto dando la precedenza a chi sembrava presentare una maggiore speranza di vita senza necessariamente seguire il criterio di accesso alle terapie intensive basato sul principio per cui “chi arriva prima viene curato prima”.
Affrontare la questione delle disuguaglianze – anche di tipo socio-economico: i precari sono stati più colpiti dei lavoratori “garantiti”, per esempio – emerse nella gestione della pandemia è pertanto essenziale, se non altro per evitare che il virus della sfiducia nei confronti della classe politica e delle istituzioni si diffonda ulteriormente.

La carenza di risorse in campo sanitario ed economico ha reso evidente, e questa è la quarta lezione, la necessità di creare un’infrastruttura istituzionale capace di reggere il peso una solidarietà in grado di protrarsi nel tempo, poiché ha portato in primo piano la questione di come ci prendiamo cura gli uni degli altri.
All’inizio della pandemia si era diffusa la speranza che l’esperienza della vulnerabilità condivisa avrebbe ricordato a tutti che solo le ragioni della comune umanità e della solidarietà possono prevalere sulla minaccia rappresentata da un virus pandemico che, per così dire, non guarda in faccia a nessuno. E infatti, nei primi mesi della pandemia non sono mancati segnali incoraggianti in questo senso, espressione di un rinnovato e imprevisto senso della comunità e del solidarismo. Ma una rondine non fa primavera: si è visto ben presto che le pratiche spontanee e informali di solidarietà tendono a essere fragili ed effimere.
Le forme spontanee di solidarietà possono essere estremamente importanti nei primi momenti della crisi, poiché chi è vicino può rispondere in modo immediato e flessibile, avendo a sua disposizione risorse di conoscenza legate alla prossimità che istituzioni formali non possiedono. Tuttavia, se si vuole che questo tipo di interventi possano essere sostenibili anche sul lungo periodo è necessario il sostegno formale e diretto delle istituzioni. Servono quindi interventi pubblici decisi e coordinati a sostegno, per esempio, di chi soffre più di altri per la ricaduta asimmetrica delle conseguenze della pandemia. È più facile osservare le necessarie cautele sanitarie rinunciando a recarsi al lavoro quando si ha la certezza che le istituzioni sociali compenseranno la riduzione o la perdita del reddito. Sono le misure solidaristiche istituzionali che possono fare la differenza nella lotta alle conseguenze economiche e sociali della pandemia. Il rischio da evitare è che le misure volte a contrastare il costo economico della pandemia si rivelino puramente transitorie, gettando ancora una volta al vento una straordinaria opportunità per una ripresa durevole ed equilibrata.

Una ripresa che prevede una risposta politica il cui attore principale, e questa è la quinta lezione, non può essere esclusivamente lo Stato nazionale. Sinora, la risposta alla domanda, “chi è responsabile nei confronti di chi?” è stata inequivocabile: lo Stato nazionale.
Basti pensare a qual è stata la prima risposte all’emergenza: la chiusura entro i confini nazionali, cui è seguita la chiusura entro la cerchia delle città e poi nelle singole abitazioni. Sia all’interno degli spazi nazionali sia all’interno dello spazio Schengen la libertà di circolazione è stata fortemente compressa, anche in deroga ai principi solennemente sanciti dalle Costituzioni. Per quanto non siano mancati atti di solidarietà tra singoli Paesi, come donazioni di attrezzature e servizi, di norma le risposte sono state nazionali. Persino il problema del Covid-19 è stato ritrascritto i termini nazionalistici, come hanno dimostrato i tentativi di Trump e di altri di etichettarlo come il “virus cinese”. Così come la pandemia ha fatto scoccare l’“ora dell’esecutivo”, così ha fatto anche risuonare l’“ora dello Stato nazionale” o della “rivincita del territorio”.

Proprio in queste circostanze, tuttavia, lo Stato nazionale ha mostrato tutti i suoi limiti. Per esempio, è drammaticamente emersa la situazione di chi vive tra i confini di Stato: i rifugiati bloccati da confini rigidamente chiusi, le famiglie che si sono ritrovate spezzate e divise da una frontiera divenuta invalicabile, i lavoratori migranti. Inoltre, l’emergenza ha dimostrato che senza la collaborazione internazionale e il multilateralismo anche gli sforzi unilaterali dei singoli Paesi portano a poco. La mentalità da fortezza assediata si è rivelata controproducente e si è visto, anzi, che l’interdipendenza sistemica che è nelle cose e che si esprime, oltre che nelle pandemie, anche nelle sfide ambientali o nei flussi migratori, può essere affrontata solo costruendo un’interdipendenza di tipo nuovo, che apprenda la lezione impartita dal Covid-19 alla nostra vulnerabilità e la sappia proteggere.



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