Centodieci anni dopo. Breve ritratto di Emil Cioran

Je sens que je suis libre mais je sais que je ne le suis pas.

Agli inizi del Novecento il piccolo villaggio di Rășinari, parte della regione storica della Transilvania, è uno dei luoghi più arretrati e remoti dell’Impero Austro-Ungarico. A sorvegliare sulle avversità del paese ci sono i Carpazi che «come un paesaggio sprezzante, si ergono al di sopra del tormento che si stende ai loro piedi». Dal 1906 il pope del paese è Emilian Cioran, cognome che rimanda alla transumanza dei pastori transilvani i quali chiamavano le loro pecore nere oi ciorane. Attivo non solo dal punto di vista culturale, Emilian si batte per portare l’elettricità in quell’angolo buio dell’Impero e sposa Elvira Comanici, ragazza che proviene da una delle famiglie più in vista della zona per aver concepito generazioni di preti ortodossi e per essere in possesso di un diploma di nobiltà dal 1628. Il 23 dicembre 1908, i due coniugi danno alla luce la loro primogenita Virginia, il 25 maggio 1914 nascerà invece il loro terzo e ultimo figlio Aurel, in mezzo, esattamente centodieci anni fa, l’8 aprile 1911 veniva alla luce il dissacratore che ha attentato a ogni fede: Emil Cioran.
Il primo episodio fondamentale della sua vita risale a quando egli aveva soltanto cinque anni e si trovava nella località di Drăgășani. In un pomeriggio dell’estate del 1916, il piccolo Emil ebbe una crisi di noia che definirà come il risveglio della propria coscienza: «D’un tratto ho sentito la presenza del nulla nel mio sangue, nelle mie ossa, nel mio respiro, e in tutto ciò che mi circondava». Nello stesso anno, nel pieno svolgimento della Grande guerra, il 20 settembre il padre Emilian viene arrestato dalle autorità ungheresi, insieme a tanti intellettuali, con l’accusa di separatismo. Mesi dopo sarà arrestata anche la madre e trasferita nel carcere di Cluj-Napoca. Emil sarà affidato alla nonna materna e inizierà a frequentare la scuola nel suo villaggio natale. Soltanto nel 1918 e con la successiva ratifica del trattato del Trianon del 1920 quel territorio sarà annesso ufficialmente al Regno di Romania. Nonostante questa fanciullezza travagliata, Cioran dirà di questo periodo: «Un’infanzia meravigliosa. Credo di essere diventato infelice nella mia vita come punizione per essere stato così straordinariamente felice da bambino. Sto parlando della prima infanzia, fino all’età di sette-otto anni, non di più, dopo di che la mia vita è stata una catastrofe». E del successivo allontanamento da casa per frequentare l’Istituto “Gheorghe Lazăr” di Sibiu nel 1921 egli  parlerà come di una «caduta dal paradiso».
A sedici anni Cioran vive un episodio apparentemente banale, ma che risulterà determinate per la sua concezione dell’amore e del suo rapporto con le donne. Passeggiando in una foresta nei dintorni di Sibiu gli capitò di vedere Cela Schian, ragazza di cui era segretamente innamorato da più di due anni, alla quale, tuttavia, non aveva mai osato rivolgere la parola, in compagnia di un ragazzo soprannominato “il pidocchio”. Di quello che definirà un vero e proprio tradimento, egli scriverà: «Quell’istante ha deciso della mia carriera, di tutto il mio futuro. Ne derivarono anni di completa solitudine. E io divenni quello che dovevo diventare».
Cioran si iscrive all’Università di Bucarest, dove avrà fra i docenti Nae Ionescu, personaggio carismatico appartenente ad un movimento mistico-filosofico vitalista detto trăirism. Il professore di Logica e di Metafisica avrà un’importante influenza sulla generazione Criterion, su personaggi del calibro di Mircea Eliade, Constantin Noica e Petru Comarnescu. Dopo un’iniziale fascinazione, Cioran descriverà Nae Ionescu come «scarsamente preparato a riconoscere alcune disposizioni filosofiche incontestabili e che da sole giustificano lo studio della filosofia». Deluso dall’Università, che non «offre un’esistenza migliore rispetto a quella di un mendicante di strada», Cioran porterà comunque a termine gli studi con una tesi su Bergson.
Nel luglio del 1933 Cioran va alla ricerca della solitudine disperatamente desiderata nella zona montuosa di Păltiniş-Şanta, dove si ritirerà per scrivere il suo primo libro, quasi come un nuovo Zarathustra, «in direzione di vette affini alle alture dei miei stati emotivi», così come scriverà in una lettera ad Arșavir Acterian. Il 4 gennaio 1934 il manoscritto Al culmine della disperazione si aggiudica il premio della fondazione letteraria che porta il nome di re Carlo II, quest’ultima si occuperà di pubblicare il libro, che diventerà il suo esordio letterario. Questa fondazione sarà il trampolino di lancio per tanti altri giovani romeni, come anche Bucur Țincu, che in Apărarea civilizaţiei attaccherà le tesi di Spengler sul tramonto dell’Occidente, tesi che in quel periodo incontrarono l’interesse dello stesso Cioran. 
Intanto, da giovane neo-laureato, si era aggiudicato la prestigiosa borsa della fondazione von Humboldt, a Berlino, dove seguirà il corso di metafisica di Hartmann Alloggia in una pensione nei pressi dell’ospedale universitario Charité, dove si intrufolerà nei corsi di psichiatria, e nei quali passerà il tempo ad interrogare i pazienti. Cioran si trova in Germania in concomitanza con l’ascesa di Hitler al potere, il filosofo disgustato dalla situazione politica del suo paese natale, si lascia accecare dal carisma del Führer e sogna una vera e propria trasfigurazione della Romania, aderendo, ma senza farne mai parte, al movimento legionario Guardia di ferro guidato da Corneliu Zelea Codreanu. Da lettore di Spengler, si rammarica del fatto che la Romania non si sia svegliata attraverso l’evoluzione organica e preconizza una rivoluzione cosciente, unica possibilità per uscire dalla perenne diseguaglianza e attuare la «sincronizzazione» con i paesi maggiormente sviluppati. Nella Trasfigurazione della Romania (1936) egli ipotizza l’abbattimento violento del capitalismo e l’attuazione di quello che chiama «collettivismo nazionale». Il sogno è quello di vedere una Romania imperialistica e aggressiva, trasformata in una nuova Costantinopoli dei Balcani, un impero romeno che politicamente si collocherebbe oltre il comunismo e il nazismo.

In questi anni di estasi febbrile, Cioran fa esperienza di una vera e propria «crisi religiosa senza fede» e trascorre più di un intero anno ad ascoltare musica e leggere quasi esclusivamente agiografie e opere di sante, fatta eccezione di Shakespeare. Il filosofo confessa di essere arrivato a un punto limite e di non aver altro interlocutore che Dio. Nel 1937 viene dato alle stampe Lacrime e santi, opera che farà scandalo e troverà la stroncatura di Eliade. Sua madre gli scrive che non avrebbe dovuto pubblicare quel libro, almeno non prima della sua morte, ma Cioran risponde che quello era «l’unico libro veramente religioso mai pubblicato nei Balcani». Ventitré anni dopo, nei Quaderni, egli appunterà: «Ho scritto un interno libro sulle lacrime. E da allora, senza versarne una sola, non ho mai smesso di piangere».
Il 1941 è l’anno della «svolta», mentre è a Parigi per redigere una tesi di dottorato che non concluderà mai, inizia ad allontanarsi per sempre dalla politica, rinnegando quanto teorizzato in passato, e lavora a un trattato sulla decadenza della Francia che sarà pubblicato postumo (Sulla Francia). Il 18 novembre 1942 in una mensa universitaria, l’allora trentunenne Cioran si avvicina, con una scusa, alla sua futura compagna di vita Simone Boué, una giovane ragazza che si apprestava a salire in cattedra nei licei per insegnare lingua e la letteratura inglese. Per tutta la vita Boué nasconderà la sua relazione con Cioran ai propri genitori, limitandosi a dire alla madre di aver trovato un coinquilino.
Nel marzo 1944 Cioran assiste da vicino alle barbarie perpetrate dall’ideologia nazista, l’amico e filosofo Benjamin Fondane e sua sorella Line, denunciati dal portinaio del loro appartamento per non aver indossato la stella di David, vengono arrestati dalla polizia del governo collaborazionista di Vichy. Cioran, insieme a Jean Paulhan e Stéphane Lupasco, interviene per salvare il suo «migliore amico». Cioran cercò di spiegare alle autorità francesi che Fondane era una sorta di icona in Romania e il suo arresto avrebbe potuto mettere a repentaglio l’alleanza del suo paese con le potenze dell’Asse. L’ufficiale con cui Cioran stava parlando, dopo un iniziale convincimento, ispezionando i documenti, scoprì che ormai Fondane era naturalizzato francese dal 1938 e che aveva combattuto con l’esercito sotto le note della marsigliese. Successivamente, gli amici di Fondane si appellarono al diritto di liberazione in quanto coniuge di un ariano, principio che poteva essere applicato a lui ma non alla sorella. Fondane si rifiutò di lasciare sola la sorella e venne deportato il 30 maggio ad Auschwitz. Fra il 2 e il 3 ottobre, Fondane morì nelle camere a gas di Birkenau.
Finita la guerra, Cioran è sempre più convinto di dover restare in Francia, dove vivrà con lo statuto di apolide, mentre in Romania i comunisti prendono il potere. Non immaginava che non sarebbe mai più ritornato nella sua terra di origine. Poco dopo, la nuova Repubblica socialista di Romania arresterà e condannerà gli ex-militanti della Guardia di Ferro, a farne le spese nel 1948 sarà Aurel, fratello del filosofo. Intanto, un anno prima, mentre traduceva in romeno il poeta Stéphane Mallarmé a Dieppe, località della Normandia, Cioran si rese conto che non aveva alcun senso quello che stava facendo. «A cosa serve tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno conosce?», e rispondendo a se stesso prese una decisione: «Devi rinunciare alla tua lingua madre». È questo il momento conclusivo della svolta, una svolta che tuttavia guarda indietro, riportando il pensatore alle posizioni, ora radicalizzate, della sua prima opera. Egli stesso parlerà dell’evoluzione del suo pensiero, che evoluzione non è, come un superfluo percorso di verifica

Emil Cioran, L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arsavir e Jeni Acterian (a cura di Antonio Di Gennaro), Mimesis Edizioni, 2021.

Egli adotta perlopiù l’aforisma come modalità di scrittura, spiegando che il suo non è un vero e proprio aforisma, ma il risultato di uno svolgimento di un pensiero di cui si è salvata soltanto la conclusione, dopo aver cancellato l’intera pagina. Il frammento permette, a differenza della rigidità del sistema, una certa libertà e smorza sul nascere la possibile creazione di una dottrina. Il vantaggio dell’aforisma è che esso non ha bisogno di fornire prove ed essendo frutto di sensazioni temporanee giustifica anche eventuali contraddizioni: «Si tira un aforisma come si tira uno schiaffo». Dunque, mentre un frammento è capace, nella sua flessibilità, di esprimere tutti gli aspetti dell’esperienza, il sistema totalitario esprime, nella sua rigidità, soltanto la voce del «controllore».
La prima opera pubblicata in lingua francese sarà il Sommario di decomposizione, testo che riscriverà più volte, e nel quale non a caso il primo paragrafo si intitolerà: Généalogie du fanatisme. Cioran necessita di lasciarsi alle spalle quello che è stato «l’apice negativo» della sua esistenza, ma, nonostante le chiare evidenze testuali, critici e inquisitori vari alimenteranno per il resto dei suoi giorni – ma ancora oggi – una cultura del sospetto sulle sue presunte preferenze politiche. Equivoci che centodieci anni dopo, trovano il favore di una sinistra dogmatica e di una destra che sembra ignorare gran parte della produzione letteraria ed epistolare dell’autore. In una lettera spedita al fratello soprannominato Relu, egli scriverà, con un velo di amara ironia, che uno scrittore che ha combinato guai da giovane è come una donna dal passato indecente, gli verrà sempre fatto pesare quello che è stato. Il Privatdenker lontano dagli ambienti accademici, dalla vita pubblica e sconosciuto ai più, continuerà a scrivere e a pubblicare, nel 1952 esce Sillogismi dell’amarezza, testo che seppur molti anni dopo, lo farà conoscere ai lettori di tutto il mondo.
Agli inizi e alla fine degli anni ’60, Cioran pubblica due testi fondamentali: Storia e utopia e Il funesto demiurgo. Quando un individuo crede di essersi allontanato dalla religione, rimane comunque fatalmente assoggettato al suo naturale e probabilmente ineliminabile sentimento religioso, per effetto del quale, sostiene Cioran, egli crea «simulacri di dèi» che si precipita ad adorare. Proprio quest’indole di venerazione è responsabile di tutti i crimini dell’essere umano: «chi ama indebitamente un dio costringe gli altri ad amarlo» ed è pronto a sterminare coloro i quali si rifiutano di inchinarsi dinanzi alla sfilata di questi «falsi Assoluti». In ogni uomo «sonnecchia un profeta» e ogni qualvolta che quest’ultimo si risveglia, compare un nuovo male nel mondo. Ogni uomo, «dagli spazzini agli snob», prodiga la sua generosità criminale dispensando ricette di felicità. L’abbondanza di queste soluzioni è solo un’ennesima prova della loro futilità. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, scrive Cioran, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Vivere però significa ingannarsi sulle proprie dimensioni. Chi mai, si chiede retoricamente il filosofo, avendo la visione della propria nullità si ergerebbe a salvatore? Tutti dovrebbero andare a lezione dagli antichi sofisti per apprendere l’arte del relativismo. L’utopia è figlia della promessa tradita della vita eterna, le ideologie sono soltanto un surrogato delle religioni, dalle quali hanno ereditato i peggiori vizi. Pertanto, è lecito considerare malvagia ogni tipo di società, ricordando che l’umanità, così come credeva la setta eretica dei bogomili, è frutto della creazione di un dio tarato.
Con il passare degli anni, la produzione letteraria di Cioran calerà notevolmente, nonostante lo scrivere sia per lui un Ultimatum all’esistenza, per citare una delle ultime raccolte di interviste e conversazioni pubblicate in Italia. Egli trovò nella scrittura una pratica auto-terapeutica capace di attenuare le proprie ossessioni, l’unica attività che gli ha permesso di evitare il suicidio: «Non credo alla letteratura, credo soltanto ai libri che traducono lo stato d’animo di chi scrive, il bisogno profondo di sbarazzarsi di qualche cosa. Ogni mio scritto è una vittoria sullo sconforto. I miei libri hanno molti difetti, ma non sono fabbricati, sono veramente scritti a caldo: invece di schiaffeggiare qualcuno scrivo qualcosa di violento. Dunque non si tratta di letteratura, ma di terapia frammentaria: sono delle vendette. I miei libri sono frasi scritte per me o contro qualcuno, per non agire. Atti mancati».
L’ultimo Cioran si concentrerà, appunto, sui temi quali la nascita e il suicidio. In tanti, attaccheranno Cioran per aver fatto l’apologia del suicidio e non essersi suicidato. Ma il suicidio non serve a niente, poiché è incapace di restituirci «la dolcezza prima della nascita». Il suicidio è un atto inconcludente per il fatto che non è in grado di risolvere la tragedia della nascita, che è la vera tragedia, così come aveva intuito il Buddha e non Cristo. Ciò che invece risulta utile è «l’idea del suicidio», ovvero la certezza che ogni individuo possa mettere fine alla sua esistenza in qualsiasi momento. Eppure, prima di spegnersi definitivamente il 20 giugno del 1995, logorato dall’Alzheimer e da altre patologie, Cioran implorerà a lungo l’abbraccio della morte con cui aveva danzato per tutto il corso della sua vita. 



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