Perché il sesso fa scandalo? Terza parte

Cosa imbarazza

Dunque, perché il sesso fa scandalo? Il fisico Niels Bohr teneva un ferro di cavallo appeso alla porta d’ingresso nella sua casetta di campagna a Tisvilde. Vedendolo, un visitatore, sorpreso, chiese: «Un grande scienziato come lei crede veramente che un ferro di cavallo porti fortuna?». «Certo che no» rispose Bohr «ma dicono che funziona anche se uno non ci crede!». Accanto a questo aneddoto, Žižek ne riporta un altro, ben noto in ambito antropologico, secondo cui i primitivi, a cui erano attribuite certe credenze superstiziose, interrogati a proposito di tali credenze rispondevano: «Certo che no, non ci credo, non sono mica così stupido! Ma mi hanno detto che alcuni nostri antenati ci credevano davvero…» (Žižek 2006, p. 51). Così funziona il meccanismo della credenza: è sempre qualcun altro a credere al posto nostro. Lo stesso vale per lo scandalo. Quando i rotocalchi scandalistici riportano le umane vicende di qualche starlette titolando «Scandalo!» non è mai ben chiaro chi si sia scandalizzato, certo non l’estensore dell’articolo che grida allo scandalo per professione. A scandalizzarsi è sempre qualcun altro. Più precisamente, è sempre il Grande Altro, ossia l’ordine simbolico della legge, quell’anonimo «sapere pubblico» che alberga nel linguaggio, nei nostri discorsi e nelle nostre abitudini collettive. Nonostante il loro rinvio all’Altro, tanto il meccanismo della credenza quanto quello dello scandalo funzionano, in ultima analisi, in modo autoreferenziale. Nonostante? In realtà proprio grazie al rinvio all’Altro. Tale rinvio nasconde infatti la circolarità paradossale che li sostiene: non siamo noi a credere, ma i nostri avi; a loro volta, però, gli avi avrebbero detto la stessa cosa. Il Grande Altro, dunque, crede che ci sia qualcun altro che ci crede, ovvero, da ultimo, il Grande Altro stesso: crede di crederci. Il medesimo vale per lo scandalo. A scandalizzare il Grande Altro non sono i fatti in sé, bensì la circostanza che tali fatti siano diventati pubblici. Il Grande Altro, dunque, si scandalizza per essere venuto a sapere ciò che non sarebbe dovuto venire a sapere: si scandalizza di essere scandalizzato. Ora, anche nel caso del sesso, a scandalizzare il Grande Altro, e ad essere sanzionato dalla legge, non è il rapporto sessuale, ma la sua rappresentazione pubblica senza veli. Quando è infatti consumato nell’intimità, il sesso non incorre in alcun tipo di sanzione: il velo vige in pubblico ma cade nel privato. Solo quando si passa sul piano del sapere pubblico, quando cioè il sesso è pubblicamente esibito, scattano lo scandalo e la proibizione. Perché? In che modo questa pubblicità imbarazza e disturba la legge? Che cosa il Grande Altro non avrebbe dovuto (e non avrebbe voluto) venire a sapere?
Persino nella proibizione fondamentale, rilevante è il sapere pubblico, senza il quale il reato viene meno: il codice penale italiano non punisce l’incesto come tale ma solo l’incesto da cui derivi «pubblico scandalo» (art. 564). Cosa lega il Grande Altro (legge e sapere pubblico) al sesso, e in particolare al sesso pubblicamente visto/saputo?

In un certo senso, ciò di cui la legge e il Grande Altro non vogliono sentir parlare è della propria inconsistenza. Ossia, della propria autoreferenzialità. Ciò che infatti viene messo a nudo con l’esibizione pubblica del sesso è proprio l’infondatezza della legge, il suo girare a vuoto su se stessa. È quanto suggerivamo parlando dell’intoppo che da sempre la abita. Ma detto così è ancora impreciso. Bisogna essere più puntuali: la legge non è infondata, ma appare infondata a se stessa. Il Grande Altro non è inconsistente ma appare inconsistente a se stesso (cosa che lo imbarazza e che esso mira a nascondere). È solo in questo raddoppio autoriflessivo che ha luogo lo scandalo, così come la credenza. È solo quando si guarda allo specchio, sulla superficie riflettente del sapere pubblico, che la legge si vede abitata da un buco, da una mancanza costitutiva. A ben guardare, però, si tratta solo di un gioco di riflessi dovuto, per così dire, alla conformazione dello specchio.
Proviamo a prendere la questione da un’altra angolatura. Come dicevamo, la rappresentazione pubblica che il sapere dà del sesso scompone la sua dinamica vivente (soggetto-velo-oggetto come evento polmonare, come ritmo respiratorio) in una serie di pezzi morti e separati tra loro. Sicché, agli occhi del sapere, essi appaiono in sé contraddittori (qualcosa più la mancanza di qualcosa) e complessivamente inutilizzabili, nella loro inerzia, per comprendere quell’evento che chiamiamo eros. Non basta mettere in fila un soggetto, un velo e un oggetto – ad esempio: un uomo, una calza, una caviglia – per capirci qualcosa. La rappresentazione pubblica del sesso è cioè sempre una rappresentazione contraddittoria, fallimentare, mancante, incapace di coglierne il senso complessivo e di restituirne la dinamica. Perché, nel momento stesso in cui essa porta alla luce tale dinamica vivente – alla luce fotografica del sapere e della sua grammatica – la uccide sul colpo. Come voler spiegare a un robot la vita di una pianta mostrandogli esclusivamente una serie di fotografie (bocciolo, fiore, frutto): in base alla logica aristotelica l’automa direbbe che siamo pazzi perché ci contraddiciamo. Nel momento in cui il sesso viene trascritto nel sapere, restano solo una serie di tracce inerti, come sulla lavagna di Lacan.

D’altronde, il sapere pubblico e la legge funzionano e non possono che funzionare così, sulla base di una grammatica: applicando la propria griglia di parole spezzettano il mondo in componenti immobili, irrigidite nella loro contrapposizione, come resti cadaverici. Dunque, quello che appare un intoppo nel sapere e nella legge è, paradossalmente, il modo stesso con cui funzionano il sapere e la legge, è la loro stessa grammatica. È, più in generale, la grammatica alla base della cultura, il modo in cui opera l’ordine simbolico: un significante, poi un altro significante, poi un altro significante… Questa catena, in cui ogni pezzo rinvia all’altro, è sempre un po’ macchinosa: vorrebbe restituire la dinamicità della vita, ma funziona a scatti. Una volta che il rapporto sessuale viene ritagliato e presentato come una somma macchinosa e artificiale di parti inerti (ad esempio: soggetto, velo, oggetto), spiegare a quel punto come esse stiano insieme, quale rapporto vi sia tra loro, quale «colla» le tenga unite, diventa impossibile (è questo che intende Lacan con la famosa espressione «non c’è rapporto sessuale»). È impossibile per la semplice ragione che non ci sono mai state delle parti separate le quali, in un secondo momento, si rapporterebbero una con l’altra. Non ci sono mai state se non nello specchio della grammatica, nel negativo fotografico del sapere. Ogni spiegazione che il sapere dà del sesso risulta perciò fallimentare. E il rapporto sessuale alla fine pare un mistero, anche e soprattutto (in un certo senso, anzi, esclusivamente) quando è interamente visibile, spiattellato sulla pubblica piazza, fotografato dal Grande Altro. È proprio lì, quando è in scena, che esso si dà a vedere come ob-scenum, perennemente «fuori scena» («fuori campo» dice Lacan 1975a, p. 108), impossibile da mettere a fuoco. Infatti, perché due corpi stanno avvinghiati in quel modo e compiono quegli strani movimenti? Fingiamo tutti di saperlo, ma se dovessimo dirlo non potremmo che rinviare al sapere di qualcun altro (e, in ultima analisi, alla circolarità autoreferenziale del Grande Altro): «si sa» che le cose vanno così. Quel «si sa» maschera il fatto che non c’è nessun reale sapere. Non c’è alcuna spiegazione che non sia mascherata, ellittica, allusiva e in ultima analisi elusiva. Ed è proprio perché non c’è nessun reale sapere che parliamo del sesso sempre per sottrazione o per eccesso: o in modo crudo, sempre un po’ volgare, o in modo metaforico, sempre un po’ edulcorato. Non c’è il modo neutro. Il sapere pubblico, cioè, non conosce il sesso se non nella forma immobile, eccessivamente empirica, un po’ squallida, di una somma di pezzi morti (come nella fredda descrizione scientifica che ne danno i biologi) o in quella fantasmatica, ideale, immaginaria, di un tutto fusionale (come nel mito narrato da Aristofane nel Simposio e nella rappresentazione dei poeti). O un’artificiosa somma di parti o un altrettanto artificiosa unità organica che precederebbe la suddivisione in parti. La rappresentazione pubblica del sesso che la nostra grammatica ci restituisce non può che essere così: o è pornografica (si osservano pezzi distinti) o è romantica (si immaginano i pezzi fusi insieme in un tutto ideale). In termini filosofici: o è analitica o è sintetica. Non c’è un’altra rappresentazione, non c’è una spiegazione che sarebbe più giusta, priva di eccessi, o più completa, priva di sottrazioni. Perché ogni spiegazione è pur sempre una grammatica che spezzetta l’evento e non può che ragionare (o fantasticare) a partire da quei pezzi, ponendosi il problema di come questi stanno, o stavano, uniti. Come suggerisce Alenka Zupančič, «le favole che usiamo per raccontare la sessualità ai bambini non servono tanto a mascherare o a edulcorare la spiegazione realistica, ma a mascherare il fatto che non c’è spiegazione realistica» (Zupančič 2017, p. 213). Ogni discorso sul sessuale non può perciò che essere «un discorso di antitesi, di ossimori e di paradossi» (Balmès 2007, p. 81).

Perché gli esseri umani fanno sesso? Sin da piccoli sentiamo dagli adulti spiegazioni allusive/elusive e, da adulti, adottiamo a nostra volta spiegazioni allusive/elusive. Per così dire: nessuno «sa» il motivo reale ma tutti lo «si sa». Il sesso costituisce, in questo senso, il punto cieco del sapere (Lacan 1975b), l’«assenza del sapere» (Nancy 1992, p. 79). Il punto in cui la catena di pezzi astrattamente separati e rinvianti l’uno all’altro va in tilt. Se cioè il sapere è sempre una catena di rinvii (l’unlimited semiosis di Peirce, il circolo ermeneutico di Heidegger, la catena significante di Lacan), il sesso è il punto in cui tale catena incappa nell’impossibilità di rinviare all’anello successivo e non può che rinviare a se stessa (all’intera catena) in modo autoreferenziale: ciascuno «sa» che «si sa». Come a dire, «è così perché è così» (questo, in ultima analisi, è il messaggio che arriva ai bambini sul sesso e che essi faranno proprio da adulti).
È questa circolarità la vera e ultima ragione dello scandalo. Infatti, che il sapere, attraverso la grammatica, scomponga il mondo in pezzi inerti e non sia perciò in grado di restituirne l’integrità e la dinamicità è vero per il sesso come per qualsiasi altro fenomeno. È quanto denuncia da sempre la filosofia, dalla VII lettera di Platone alla Crisi delle scienze europee di Husserl, sino a Heidegger e oltre. È quanto lamenta ogni buon maestro quando l’allievo scambia l’oggetto dell’insegnamento (o, più in generale, la verità) per una semplice somma di nozioni immobili e astratte. Dunque, il sapere fallisce nel tentativo di spiegare il sesso così come fallisce nel tentativo di spiegare ogni altra cosa, nella misura in cui la fa a fette: è il funzionamento/malfunzionamento proprio di ogni grammatica, il suo macchinoso procedere a scatti. È questo, d’altronde, l’unico modo di spiegare, essendo la spiegazione come tale una macchina che ritaglia il mondo attraverso le parole. Inoltre, fare a fette il mondo, come fa la scienza con grande efficienza da Cartesio in poi, ha i suoi indiscutibili vantaggi: non conduce alla verità, ma permette di manipolarlo ricombinandone le fette in infiniti modi. Dunque, se la grammatica per certi versi costituisce un problema, per altri versi non lo è affatto e funziona benissimo: è fallimentare sul piano veritativo (in termini di senso), ma efficiente sul piano tecnico (in termini di operatività). Anche sul piano veritativo, però, il fallimento è comunque sempre relativo, perché la catena significante mantiene ogni volta aperta la possibilità del rinvio: il senso ultimo (la verità) non è lì, ma c’è sempre la speranza che sia un po’ più in là (è l’ingenua credenza secondo cui la scienza prima o poi darà tutte le risposte). Applicato al sesso, però, questo problema «grammaticale» manda in cortocircuito l’ordine simbolico del sapere e della legge. Perché?
Perché quella dinamica che chiamiamo «sesso» non è altro che lo stesso punto di origine della legge. Non c’è sesso senza legge e viceversa. Sicché la legge, vedendo la propria origine distorta nello specchio della grammatica, ossia vedendosi a fette, non è in grado di spiegare se stessa. Appare a se stessa infondata e copre questo grande imbarazzo con un velo. Detto altrimenti: ciò che imbarazza non è il sesso come tale ma l’immagine riflessa dell’ordine simbolico, ossia la rappresentazione pubblica (sempre fallimentare) dell’origine di tale ordine. Per dirla in un altro modo ancora: ciò che imbarazza il Grande Altro è guardarsi allo specchio e vedere la propria autoreferenziale infondatezza, il proprio «è così perché è così».

Pablo Picasso, Nudo sdraiato, 1932

 Il punto cieco

Lo scandalo – l’imbarazzo prodotto dal sapere del sesso, dalla sua rappresentazione pubblica – sorge dunque da questa combinatoria: l’azione macchinosa e mortifera che il sapere opera sull’eros e l’aspetto autoriflessivo di tale azione. Ovvero, non solo il fatto che il sapere, fotografando il sesso, ne riduce l’evento a un ammasso di pezzi inerti, ma anche il fatto che quell’evento è il suo stesso accadere, è il sorgere stesso del sapere e della legge. Come aveva ben compreso Platone nel Simposio, il sapere nasce da lì, da Eros. Sicché, lì la macchina del sapere e della legge si trova a tu per tu con la propria genesi e, nel voler tagliare a fette il proprio tagliare a fette, subisce un arresto: un’impasse autoreferenziale. Ovvero, un «cortocircuito tra l’ontologia e l’epistemologia» (Zupančič 2017, p. 212) tale per cui l’una e l’altra, comunque le si declini, restano sempre strutturalmente irrisolte. Quanto detto per il sapere vale anche per la legge, che gli è consustanziale (nella misura in cui possiamo ricondurre entrambi all’ordine simbolico del Grande Altro). La legge non è avulsa dal sesso, non subentra da fuori a sanzionare qualcosa che è altro da sé, non sopraggiunge dall’alto su un territorio che le sarebbe originariamente estraneo. Condivide invece con la sessualità il proprio punto di scaturigine, l’evento da cui entrambe vengono in luce simultaneamente. Tradizionalmente il sesso è visto come un intoppo cui la legge tenta di porre rimedio. È l’ingenua logica in due tempi che suppone un prima (naturale) e un dopo (culturale). Di solito la si smonta, sulla scia di Hegel, mostrando che il prima è posto après-coup dal dopo: in merito a sesso e legge, natura e cultura, è qui maestra Judith Butler (in particolare Butler 1993). Salvo che non c’è nessun dopo, se si toglie il prima. Sicché, a rigore, si dovrebbe parlare di simultaneità (Hegel direbbe «assoluto contraccolpo in se stesso»). Dunque la legge (supposta culturale) non arriva dopo la sessualità (supposta naturale), nel tentativo di tapparla o di contenerne la caoticità eccedente e un po’ incivile; ma nemmeno la sessualità arriva dopo la legge e il suo costitutivo intoppo, nel tentativo di metterci una toppa seppur rabberciata, come abbiamo detto in un primo momento. Semmai la sessualità è simultanea alla legge e al suo (della sessualità? della legge?) intoppo. Entrambe traggono origine dalla stessa dinamica (la quale non è «culturale» più di quanto non sia «naturale», essendo precedente tale distinzione, tutt’al più è «naturalculturale» come direbbe Donna Haraway). Proviamo a rievocarne la genesi con qualche fugace pennellata.
Diciamo così: prima che il pianeta vedesse sorgere esseri parlanti, non vi erano né desideri né pulsioni, né legge né sessualità. A regolare la vita animale, immersa in un godimento compatto e totalizzante, vi era solo l’istinto (Instinkt in Freud). Questo va dritto al bersaglio, laddove invece la pulsione (Trieb) si balocca in eccentrici giri sulla giostra (ciò che chiamiamo appunto «sessualità»). Legge e pulsione sessuale nascono con la parola. Ovvero, con ciò che la psicoanalisi lacaniana chiama «taglio significante». È tale taglio a innescare la macchina, a introdurre i giochi dialettici di presenza/assenza, pieno/vuoto, eccesso/mancanza, quell’altalena che genera il desiderio e che la pulsione si divertirà poi a cavalcare. Il significante produce infatti un’azione traumatica sul bambino, staccandolo dal godimento immediato e fusionale col corpo della madre e inserendolo nella macchina dei pieni e dei vuoti, nella catena di rinvii propria del sapere e della legge (un significante, poi un altro significante, poi un altro significante…). Ecco l’ordine simbolico. Nello stesso tempo, e con lo stesso taglio, il significante marchia il corpo umano trasformandolo in un corpo pulsionale, producendo così tanto il desiderio (il dispositivo soggetto-velo-oggetto) quanto il plusgodere, ossia delle «fettine di godimento» (Miller 1999, p. 33), quell’unica forma di godimento residuo, a pezzettini, che è concessa all’essere umano. In questo senso il sesso è originariamente un taglio, come suggerisce il latino sexus, da secare (tagliare, dividere): una pura differenza che accade e, accadendo, si declina in un sistema, che è insieme articolazione della legge e della sessualità. Queste si istituiscono in un colpo solo, come un unico dispositivo, assieme ai propri ingranaggi (soggetto, velo, oggetto). E l’intoppo, l’inciampo, la pietra dello scandalo, non è ascrivibile all’una o all’altra, e nemmeno agli ingranaggi, presi singolarmente, del soggetto, del velo e dell’oggetto. Semmai è ascrivibile al dispositivo nel suo complesso, una volta che questo ha dato origine alla legge e viene fotografato dalla legge stessa, che lo porta al sapere facendolo a pezzi. L’intoppo è ascrivibile a questa operazione di smontaggio (una sorta di «taglia e cuci» operato dal linguaggio e dalla sua grammatica), ma in origine non è affatto un intoppo: non è altro che questa stessa operazione, l’evento di questo stesso dispositivo, il tracciarsi sempre in corso delle sue componenti. Detto altrimenti, il buco – la casella vuota che fa funzionare la dialettica tra le varie componenti – non è altro, in principio, che il taglio (sexus): quello stesso taglio significante che ha originariamente dato avvio a tutto il marchingegno. È solo quando tale evento viene a iscriversi sul lato della legge e del sapere – ossia, quando questi si guardano allo specchio – che esso si dà a vedere come intoppo, cioè come elemento impossibile da tracciare perché è il tracciarsi stesso della traccia. È a questo livello che sorge lo scandalo. È solo nel sapere e per il sapere che il taglio, il sexus, si mostra come «scandaloso», ossia come punto cieco non dicibile in una grammatica, in quanto accadere stesso di quella grammatica. Se da tale taglio traggono origine tanto la sessualità (la pulsione sessuale) quanto la legge (l’ordine simbolico, il sapere, il Grande Altro), il problema del punto cieco resta però tutto interno alla legge simbolica e al suo funzionamento. Di tutte queste ambiguità «grammaticali» (pieno/vuoto, presenza/assenza, eccesso/mancanza), dei conseguenti paradossi (autoreferenzialità e infondatezza), nonché dello scandalo che suscitano, la pulsione continua a non sapere nulla e prosegue beatamente a godere dei propri giri sulla giostra. Così come la vita della pianta nulla sa delle contraddizioni che il nostro sapere rinviene nelle fotografie di bocciolo, fiore e frutto. Per questo dicevamo: la legge non è infondata, ma appare infondata a se stessa. Di per sé la legge non è né fondata né infondata: semplicemente accade. È solo quando si sdoppia, cogliendosi nel proprio riflesso, che appare a sé infondata perché autoreferenziale (la catena dei rinvii gira a vuoto su se stessa) o perché bucata (manca un significante che darebbe alla catena piena consistenza). Ma questa mancanza, questa autoreferenzialità (e il fatto che sia un problema imbarazzante e scandaloso) vale solo per la legge; se guardate dal lato della pulsione, mancanza e autoreferenzialità semplicemente scompaiono, non sono mai esistite. Per dirla con un ulteriore paradosso: il problema dell’autoreferenzialità è, a sua volta, un problema autoreferenziale. Un infinito gioco di specchi, tutto interno alla legge. Il punto cieco c’è solo per chi ha occhi per guardare. Non per chi è intento a godere.

Leggi la quarta parte Perché il sesso fa scandalo? Sexus mundi

Leggi la seconda parte Perché il sesso fa scandalo? Cosa si traccia.

Leggi la prima parte Perché il sesso fa scandalo? Cosa c’è (o non c’è) sotto.



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