L’ATTO IRREVERSIBILE: IL SUICIDIO COME FRONTIERA

Chissà quando nella storia dell’umanità, dall’Homo Sapiens al Sapiens sapiens, è accaduta per la prima volta l’idea di levar la mano su di sé. Chissà quando questo apparente controsenso biologico si è sviluppato. Alla fine l’unico vero impulso suicidario naturale sembra quello di virus e batteri, che attaccano il loro ospite anche se questo li porta a morte sicura. Eppure la nostra mente, nella sua (lenta?, rapida?) progressiva emancipazione evolutiva ha un giorno concepito tale deviazione dalla sua storia naturale, quella del cosiddetto struggle for life, la lotta per la vita a tutti i costi che caratterizzava i giorni della vita selvaggia, nelle foreste nei boschi nelle giungle, nelle caverne. Eppure è accaduto. E via via nel tempo la realtà dell’autoannientamento (sempre che lo sia) ha impresso il suo marchio sui giorni dell’uomo, dall’antichità filosofica (ed esistenziale) all’oggi, quando il suicidio è definito (anche da Thomas Macho) il vero grande problema della modernità.
Albert Camus ha più o meno regolato l’intera sua vita su questa domanda: perché non mi suicido? Secondo lui l’unica vera domanda alla quale ha senso dare una risposta.
Dopo aver letto l’impressionante e magnifico libro di Thomas Macho una convinzione resta: che il problema, cioè questa risposta, sia più personale che sociale. Macho cerca di analizzare la questione con gli strumenti che gli appartengono, in sintesi la sua numinosa, onnivora cultura, cercando di superare quell’alone di sacralità, che incute spavento e riverenza assieme, che il discorso sul suicidio induce.
Il suo approccio è sistematico: suddividere il generale nel particolare, individuare cioè tematiche, che siano storiche, filosofiche, culturali, sociali, ed analizzarle una ad una. Basta analizzare, nella prima pagina, il sommario, per comprendere che ogni capitolo ha una sua spina dorsale, impilata robustamente vertebra su vertebra per cercare di analizzare se non tutto almeno il più possibile del discorso sul suicidio.
Due sono le cose che maggiormente colpiscono il lettore: la straordinaria capacità di associazione tra storie e riflessioni (e i media associabili…) le più disparate, che proprio però per questo, per l’apparente distanza e incomparabilità, risultano assolutamente affascinanti; e la grande sobrietà e misura che presenta la prosa dello scrittore, così quieta e controllata (e mi verrebbe da dire dolce, altro apparente paradosso) nell’affrontare un tema che per la maggior parte della gente è così estremo, amaro.
Tutti i capitoli, per molti versi, sono impressionanti. Ma qualcuno è più impressionante di altri. Così si affrontano con grande interesse quelli sui primordi del suicidio, su “l’effetto Werther”, sul dandysmo fin-de-siècle, sulla filosofia, sul suicidio nell’arte o su quello politico, e via così. Un’ovvia intensità la si sperimenta quando si parla di Olocausto o di terrorismo suicida. Ma il vero potere schiacciante della conoscenza lo si vive nei capitoli sul suicidio dei minori (“suicidio a scuola”, titola l’autore) e in quelli, davvero pregnanti, sul suicidio della specie umana. Qui si avverte una specie di vertigine, per quella che Macho chiama potestas annihilationis, quella passione per la morte che sembra travolgere tutto e tutti, e per di più ha un aspetto immanente, sa di ineluttabilità, di fato in arrivo, altro che antropocene si percepisce, piuttosto un antroponulla…

Thomas Macho, A chi appartiene la mia vita? Il suicidio nella modernità, Meltemi Editore, 2021

Certo, il libro è disseminato di cadaveri, da quelli della morte burlesca come in Messico all’atroce bomba atomica. Eppure la sobrietà, la misura, lo rendono un libro quieto, serio, e segnato da una fluency, come dicono gli americani, impeccabile. Il perfetto modo semplice di parlare di cose complicate. Così fanno lievissimamente sorridere quelle due o tre occasioni in cui Macho perde l’aplomb. Una per tutte: descrive l’incidente della Costa Concordia, 32 morti, copertura mediatica totale; negli stessi giorni incidente su un gommone di poveracci che tentano di attraversare il Mediterraneo, 300 persone, tutti morti, breve bandella minore tra le notizie veloci, e amen. Ci piace comunque, lo studioso, quando non riesce a trattenere gli accenti polemici!
Ma più se ne parla più sembra impossibile riuscire a sintetizzare l’immenso mare di storie, pensieri, personaggi che questo libro porta con sé. Non le citazioni, non gli estratti sono importanti: è la summa che costruisce il discorso, e con esso anche il nostro modo di assorbirlo, di viverlo. Abbiamo così scelto solo due temi, per far capire cosa il lettore leggerà, e più nel profondo andrà poi a introitare. Macho ci ricorda che il verbo nehmen in tedesco, essenziale nella composizione della parola suicidio, significa sia prendersi che togliersi, in questo caso la vita. E che il vero aspetto inquietante della morte è che è interruzione, non compimento. Quindi: meditate gente, meditate: ma non lasciatevi sfuggire questo libro, questo stupefacente viaggio dentro alla madre di tutte le tentazioni (Suicidio, ultima dea?) – per sconfiggerla.



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