A rendere il festival del cinema di Rotterdam un appuntamento imprescindibile per la cinefilia mondiale, non sono soltanto la grande libertà nelle scelte di programmazione e l’occhio di riguardo per le proposte asiatiche, ma anche una particolare attenzione per la storia.
Testimonianza ne fu la bella retrospettiva di qualche anno fa chiamata appunto History of Shadows in cui la storia, per una volta, veniva raccontata dagli sconfitti e che includeva alcuni film che varrebbe la pena di recuperare, dalla rivisitazione del ‘77 di Luis Fulvio (’77 No Commercial Use, 2017), al capolavoro di Lucrecia Martel Zama (2017), passando per l’epica post-coloniale di Narimane Mari (Les Fort des fous, 2017) e all’ormai dimenticato – almeno al di qua dei Pirenei – El desencanto (1976) di Jaime Chavarri, che ripercorre le travagliate vicende della famiglia del poeta falangista Leopoldo Panero.
E all’insegna della storia è stata anche l’edizione di quest’anno, sia per la modalità in cui si è svolta – la solita litania di streaming mal funzionanti – sia perché dalla prima edizione è ormai passato mezzo secolo.
Il discorso sulla diversità degli approcci alla storia contemporanea e al suo continuo risuonare come una grancassa in tutti gli avvenimenti del presente è proseguito con autori di spicco della cinematografia russa come Andrej Končalovskij (Cari compagni!) e di quella balcanica come Jasmila Žbanic (Quo vadis, Aida?) sia con i meno noti Dāvis Sīmanis (The year after the war) e Marta Popivoda (Landscapes of resistance). Cominciamo proprio dalla Bosnia e dal racconto dell’eccidio di Srebrenica che ne fa Jasmila Žbanic in Quo vadis, Aida?, già passato da Venezia e in lizza per l’Oscar al miglior film straniero. L’idea di raccontare il massacro di circa ottomila musulmani da parte dell’esercito serbo-bosniaco guidato da Ratko Mladic è senza dubbio nobile, ma ci si chiede se abbia senso farlo in maniera così classica, ricalcando peraltro i numerosi filmati originali di quella terribile giornata estiva già visibili su Youtube. Siamo nel ‘95, dopo la Guerra del Golfo i conflitti in diretta tv sono ormai la prassi e, solo un anno prima, a confermare la teoria di Jean Luc Godard sulla preveggenza del cinema che proietta la storia[1]1, Patrice Chéreau aveva raccontato ne La Regina Margot un altro grande massacro a sfondo religioso, la strage degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo (23-23 Agosto 1572). Al di là delle perplessità formali, il film pone problemi prettamente ideologici: appiattendo la messa in scena alla versione già proposta dai media si evita di indagare più a fondo le responsabilità dei soldati olandesi. Eppure qualche brandello di storia rimane attaccata alle vesti della protagonista, Aida appunto, una traduttrice locale impegnata a salvare la sua famiglia. Per ricordare quel terribile massacro, però, sarebbe forse più utile recuperare La guerra non ci sarà (2008) di Daniele Gaglianone, uno che a ben vedere le lezioni di storia le ha prese da Straub-Huillet2[2] e che si è interrogato sulle conseguenze di quel conflitto mai interamente risolto, discostandosi dall’approccio umanista e sostanzialmente assolutorio adottato in seguito dalla Žbanic, quasi fosse anch’essa un’inviata dell’ONU.
Per Cari Compagni! invece, le immagini per raccontare il massacro di Novočerkassk del 1962 Andrej Končalovskij se le ha dovute inventare, dato che 50 anni fa la televisione in Unione Sovietica era pura propaganda e parlare del KGB che spara sui lavoratori di una fabbrica in sciopero non era immaginabile. Come in Quo Vadis, Aida? anche qui la protagonista usa il suo ruolo istituzionale per cercare di salvare la famiglia, muovendosi in preda a una nevrosi creata dallo scontro tra gli affetti privati e un’ideologia così totalizzante da ammantare buona parte del cinema sovietico – almeno da Stalin in poi – di un raggelante risvolto tragicomico. Ciò che atterrisce – e che accomuna i due film – è il vago sforzo del potere di trovare una parvenza di legittimità tra le vittime: il paternalismo del Partito Comunista in Cari Compagni! riecheggia nel grottesco teatrino di Mladic all’Hotel Fontana e il suo indirizzarsi da statista alla popolazione di Srebrenica. Analogamente l’occultamento sistematico dei cadaveri da parte dei due regimi denota una spietata volontà di cancellarne le tracce, lasciando ai posteri il loro riconoscimento e ai cineasti il compito di riportare in superficie ciò che resta dei misfatti sepolti dalla memoria collettiva.
Il sonnambulismo[3]3 e la follia del potere sono temi che tornano anche nell’ironico The year before the war di Dāvis Sīmanis, ambientato nell’Europa nel 1913 ma estremamente contemporaneo nel suo minare le fondamenta dell’impianto culturale europeo con furore dissacrante e iconoclasta, passando dalle due correnti di pensiero principali dell’epoca, il marxismo e la psicanalisi, fino alle avanguardie artistiche degli anni Venti. Nella scissione di Hans, un uomo ordinario che si ritrova a essere protagonista degli avvenimenti dell’epoca, si possono rintracciare le stesse preoccupazioni identitarie – politiche o artistiche che siano – che infestano il mondo ancora oggi.
Un dialogo tra passato e presente che trova spazio e centralità anche tra le corrispondenze di Landscapes of Resistance, girato tra Berlino e la Serbia da Marta Popivoda. Sebbene il film affronti il tema della memoria in maniera più greve, questo poetico saggio di resistenza racconta le lotte della partigiana jugoslava Sonja contro il nazifascismo in un momento cruciale per rinfrancare l’opposizione alla recente ondata di nazionalismo serbo e al suo disprezzo per le minoranze. Un bell’esempio di come, innestandosi sul passato, le utopie formali e ideologiche servano a percorrere sentieri – estetici o politici che siano – ancora poco battuti. A una prima analisi di queste quattro opere, ciò che balza subito agli occhi è la provenienza geografica: quell’Europa dell’est ancora così lacerata da tensioni che durano secoli.
Accostando Landscapes of Resistance a Les Sorcières d’Orient di Julien Faraut, altro film in programma a Rotterdam, ci si accorge quanto fuorviante e vetusta sia diventata la definizione di documentario. Dopo aver raccontato le gesta di Joe McEnroe in The realm of senses (2018) Faraut torna ancora dalla parte dei vincenti con un bel film sulla nazionale di pallavolo femminile giapponese che vinse le Olimpiadi casalinghe del ‘64. Una squadra dal record impressionante di vittorie la cui leggenda ha da dato vita a una serie di celebrazioni, dai manga agli anime (come dimenticare Mila&Shiro?), che si sono protratte per anni e che esaltano, per una volta, un certo orgoglio giapponese working class, i cui sacrifici hanno portato il paese ai ranghi di potenza mondiale dopo la disfatta imperialista. La ricerca estetica di Faraut combina i film sportivi dell’epoca alle memorie delle campionesse, integrando i cartoni animati e i Portishead, in un crescendo onirico che regala sequenze memorabili.
Esaurito il filone storico-politico, le sorprese vengono dalle zone più disparate del mondo, a dimostrazione di un’apertura che da sempre costituisce la cifra stilistica del festival e della città (Rotterdam è pur sempre un porto). Ci si imbatte quindi in un gioiello che viene dalla Corsica dal titolo I comete (A Corsican Summer), primo lungometraggio di Pascal Tagnati e film di delicatezza rara in cui la sfaccettata descrizione di un’estate corsa sul lago di Tolla diventa elegia della paesitudine. La lingua corsa si mescola al francese in canti, affabulazioni, discorsi che vanno dal nazionalismo, al sesso, al calcio, il tutto catturato in camera fissa fino al bel piano finale che afferma la discrezione con la quale il regista osserva la sua terra.
Una discrezione che si fa impudenza nel film vincitore di questa edizione del festival, che ormai sembra premiare solo film indiani o cinesi, girato da un altro esordiente Vinothraj P.S e dal rivelatorio titolo di Pebbles. Anche qui siamo in un piccolo villaggio e anche qui le tensioni familiari, complice l’alcool, esplodono con l’alta temperatura. Ma lo stile di Vinothraj P.S, che si snoda tra camera a mano e lunghi piani fissi sul paesaggio del Tamil Nadu, stempera con benevolenza gli scatti d’ira di un uomo fallito che assumono così una dimensione comica, accentuata dalla venalità dei casus belli (una sigaretta fumata in corriera, uno sguardo maldestro).
La levità di questi due film, testimoni fedeli della salute del cinema d’autore contemporaneo (basta saperlo cercare), suggerisce l’abbandono di uno sguardo etnocentrico e auspica l’esplorazione dei confini dell’impero. La calma che si posa sulle inquadrature finali, dal forte richiamo figurativo, invita all’osservazione di vite comuni, che scorrono lente – queste sì fuori dalla storia – ma non per questo meno degne d’esser contemplate.
[1]Esposta brevemente in una conversazione tra Godard e Serge Daney avvenuta nel 1988 e disponibile sulla piattaforma dell Cinémathèque française Henri https://www.cinematheque.fr/henri/film/125365-entretien-entre-serge-daney-et-jean-luc-godard-jean-luc-godard-1988/
[2]Le numerose inquadrature in soggettiva delle vie di Sarajevo sono analoghe a quelle per le vie di Roma di History Lesson (1975) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, film anch’esso presente nella retrospettiva History of Shadows curata da Gerwin Tamsma e Gustavo Beck nel 2018
[3]Il riferimento e al titolo del libro dello storico Christopher Clarke I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, Laterza, 2013