La protezione della vita e la narrazione salvifica ai tempi della pandemia

Nell’ultimo anno, chiunque, da qualunque parte del mondo e in qualsiasi momento abbia voluto dare un’occhiata alle ultime notizie, non ha potuto fare a meno di trovare articoli e aggiornamenti riguardanti la pandemia di Sars-Cov2. Una bulimia monotematica che rende conto dell’enorme impatto psicologico, sociale e politico-economico prodotto dal virus sul globo intero. Un evento che, senza molti altri termini di paragone, svela paure e vulnerabilità, rivela insicurezze e fragilità. È una chiamata in causa trasversale della società, ben diversamente da come possono fare gli ordinari fatti di cronaca, politica o costume e società. La ragione è abbastanza ovvia e pertiene alla viscerale apprensione per l’incolumità propria e dei propri cari, e non solo limitatamente al contagio in senso stretto ma anche per gli effetti che ne derivano, come le restrizioni cui siamo stati e continuiamo a essere sottoposti.

Il filosofo Roberto Esposito è da ormai molti anni attento a questi temi, riflettendo sul delicatissimo rapporto tra comunità e immunità all’interno della riflessione biopolitica, ovvero nell’ambito dell’intersecazione tra la sfera della politica e quello della vita. Di quanto questa compenetrazione sia instabile e variabile abbiamo avuto prova in questi mesi: da una parte l’azione politica, con le sue misure restrittive preveniva il contagio, dall’altra la genetica socialità dell’uomo cercava di emergere non appena possibile come poteva. Abbiamo assistito alla compressione dei corpi nello spazio ristretto e definito delle loro mura domestiche: qui non potevano contagiare nè essere contagiati. È in questa oscillazione del corpo come artefice e vittima dell’infezione e in questo confinamento della sua funzione sociale e della sua vicenda esistenziale che si accorciano gli spazi della communitas e si ampliano enormemente quelli dell’immunitas. Questa contrapposizione è studiata all’interno del libro di Esposito Immunitas, ristampato proprio nel 2020 da Einaudi, dopo la prima edizione del 2002 e dopo l’ampio dibattito sviluppatosi in questi anni sul tema. In sintesi, dall’ambito biomedico, dove si fa riferimento alla neutralizzazione di un agente estraneo da parte dell’organismo, e dal linguaggio del diritto, dove si indica l’esenzione da un obbligo in virtù della propria posizione politica, l’immunità transita nel lessico della sociologia e della filosofia per riflettere sulla messa al riparo della società da un rischio (o da una serie di rischi) tramite precise misure predisposte per il suo bene.

Roberto Esposito, Immunitas, Einaudi, 2020.

Ma di quale “bene” si tratta? E come cambia il soggetto che ne è coinvolto? Il corpus di restrizioni di questi mesi ha di fatto ridisegnato la fisionomia delle nostre società nel segno di una salvaguardia sanitaria e sociale. La prevenzione dall’altro e dell’altro è divenuto primo obiettivo dell’agenda politica, che, messa tra parentesi la cornice di vecchi problemi, si è sostanzialmente trasformata in operazione di tutela anticontagio. Il paradosso è quello di negare la società per il bene della società e in questa asimmetria comunità-immunità si sviluppa la contraddizione: quanto l’espandersi dell’una può ledere l’altra e viceversa? Affrontare la questione dal punto di vista etimologico può aiutare a inquadrarla meglio: munus, dal latino obbligo/dono, è il termine presente sia in senso affermativo nella parola “comunità”, per riferirsi ai vincoli che tengono coesa e unita una collettività, sia in senso negativo nella parola immunità, alludendo al venir meno di questi legami a causa di una salvaguardia superiore. Dunque: come e dove fissare i rispettivi confini semantici e politici, in un momento in cui è massima la contraddizione connessa alla convivenza delle due dimensioni?
Il primo nodo da affrontare è quello del rischio. Nel diritto, così come in ambito biomedico, trova giustificazione il dispiegamento di determinate misure come risposta al delinearsi di un rischio. La violazione della legge rappresenta l’oggetto dell’azione giuridica, che non solo descrive e connota la natura dell’infrazione, ma anche determina le punizioni previste, esercitando così (o cercando di esercitare) un potere dissuasivo e regolativo delle libertà del singolo. Specularmente in medicina, l’individuazione di un agente patogeno e delle modalità di contrarlo diviene giustificazione delle precauzioni adottate per starne il più possibile lontano.

La minaccia di un pericolo è dunque la giustificazione di un nuovo modello regolativo nel rapporto rischio-sicurezza. Il sociologo Ulrich Beck fin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso ha riflettuto sul tema col celebre libro La società del rischio, arrivato in Italia per Carocci, e volto a mettere in luce la ricorrenza con cui il rischio è a tal punto protagonista delle società moderne che la sua gestione è divenuta una delle prime prerogative politiche, se non la prima in assoluto.
Lo abbiamo osservato bene in questo periodo in cui si è realizzata una sovrapposizione inscindibile tra azione politica e tutela sanitaria, tanto che il concetto d’immunità è la categoria linguistica che meglio di ogni altra può riassumere la fase che stiamo attraversando, aiutandoci a capire, se non per dovere d’interrogazione civica quanto meno per questioni di dignità filosofica, da cosa siamo effettivamente minacciati come corpo individuale e sociale, ma soprattutto cosa accettiamo di sacrificare per avere in cambio questa sicurezza.
La riposta è palese. A essere immolate senza troppa esitazione sono quelle libertà individuali precedentemente non regolate, il tessuto di idee e valori che di fatto personalizzano un’identità, la discrezionalità delle relazioni e dell’affettività, la libera disposizione del proprio tempo, dello svago, dello sport, della cultura. In sintesi: quel che rappresenta l’essenza di un soggetto è oggi in-essenziale per le logiche securitarie. È su questo disequilibrio che s’insinua e interviene l’azione della politica immunitaria. Tutto ciò che individualizza, particolarizza e differenzia un soggetto dall’altro rappresenta il primo terreno sacrificale, e non solo nei termini di una rinuncia alle proprie possibilità di fare e progettare, ma soprattutto nei termini di una non titolarità a poter parlare per sé e per le proprie necessità. Come pensare di poter esporsi, rivendicando un qualche personale bisogno quando tutto, e davvero tutto lo spazio rimanente oltre le regole del vivere in società è ormai occupato da nuove norme emergenziali? L’ennesimo paradosso della vicenda immunitaria è proprio questo: accettare misure che a gamba tesa irrompono nella vita personale senza poter in alcun modo obiettare che questo avvenga e fino a che punto. Il rischio assolve qualsiasi cosa. Giustifica ogni trasformazione. Svilisce ogni bisogno. Mette a tacere ogni bocca che non sia quella di coloro che s’intendono di rischio. L’enorme presenza mediatica di esperti in questo periodo affonda le radici proprio in questi livelli discorsivi e può verificarsi solo a condizione che i non-esperti guardino con ossequio alle loro parole, abdicando di fatto all’intima e personale cura di sé.

Roberto Esposito, Termini della politica vol. I. Comunità, immunità, biopolitica, Mimesis Edizioni, 2018.

Se già Max Weber aveva messo in luce – com’è giusto che sia – la completa neutralità e il completo disinteresse della scienza e della tecnica per il soggettivo valore della felicità, la capillare razionalizzazione delle misure anticontagio ha definitivamente dimostrato che, dichiarato un rischio e denunciata la sua pericolosità, oltre allo sguardo della scienza e della tecnica non può esserci proprio null’altro. Sono letteralmente cancellate tutte quelle categorie della salute soggettiva non materialmente misurabili. È la salute del numero a contare. Oggi la politica è divenuta massimamente scienza di numeri, conta di contagi. E questo, nell’ambito della presente analisi, implica almeno tre differenti effetti. Primo, che il concetto di sicurezza coincida con quello di non-contagio. Secondo, che il non-contagio sia assenza di malattia e patologia. Terzo, che l’apriori dell’esistenza non sia rappresentato dalla dimensione patologica stessa, ma dalla salute. Siamo anni luce lontani da quelle riflessioni sulla vita e sul rapporto esperienziale della malattia che hanno fatto della salute un concetto polimorfo e polivalente: il nome di Georges Canguilhem, uno dei più grandi maîtres à penser nella Francia del secondo dopoguerra, è tra i più evocativi in questo senso. Scrive nel suo celebre testo Il normale e il patologico: “Semanticamente, il patologico è designato a partire dal normale, non tanto come a- o dis- ma come iper- o ipo-.” Il filosofo francese non solo mette in guardia dalla stima di una natura qualitativa del patologico, ma anche e soprattutto ne sottolinea il valore variabile e in costante mutazione. Sono cioè le diverse sfumature del pathos esistenziale a delineare, a seconda dei momenti, uno stato di maggiore o minore salute e non il contrario. In questa riflessione, in cui risuona tra l’altro un’evidente eco del pensiero nietzschiano, è paradossalmente la vita a dover essere considerata un’enorme e personalissima risposta immunitaria al patire. Ecco perché non ci può essere alcuna biologia, oggettivamente descritta, costruita e architettata, senza una precedente biopatia come innato, individuale e soggettivo sentire.

Ma se queste considerazioni possono sembrare eccessivamente filosofeggianti, fuorvianti e inappropriate rispetto alla pandemia in corso, vale la pena ricordare che persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in epoca anteCovid, approcciava il concetto di salute in senso multifattoriale, descrivendolo come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità”. Questa definizione, oltre a sbarrare la strada a qualsiasi concetto positivo (dal latino positivus, posto, affermato) di salute, consente di entrare in un ulteriore nodo riferito all’immunità. Si tratta di quello smembramento del “sé” prodotto dalle misure restrittive: difendersi e difendere l’altro dal virus implica una sostanziale e considerevole condanna del corporeo. Non toccare superfici che anche le mani “contaminate” dell’altro hanno toccato, non abbracciarsi perché stando vicini è maggiore il passaggio delle cosiddette “droplets”, non parlarsi senza la barriera della mascherina, non allargare la propria cerchia di contatti, non avere incontri se non con congiunti, non creare o partecipare a momenti aggregativi. Nell’ambito emergenziale il corpo è veicolo di contagio. Ma fuori dalle logiche emergenziali è il perno della socialità, dell’affettività, della sessualità, delle personali caratteristiche fisiche, dell’attività sportiva e professionale. Questa spaccatura, questa scissione della materialità corporea, è l’altra faccia della prassi politica securitaria, la quale raggiunge massimamente i suoi obiettivi se preserva quantitativamente il corpo biologico. Non importa se proprio quest’esasperazione della conservazione gli si ritorce contro sotto forma di annegamento del soggetto emotivo e relazionale. Non importa se un corpo al sicuro sarà per certo oggetto di non-contaminazioni ma solo a condizione di rimanere prigioniero di quella stessa gabbia securitaria.

Così, divieto dopo divieto e restrizione dopo restrizione, si è ormai ispessita la corteccia protettiva, e non in relazione a quella che in medicina si è soliti chiamare “immunità specifica o adattiva” a seguito dell’incontro/scontro con un agente estraneo da cui il corpo è uscito vittorioso, ma attraverso un’immunità tutta difensiva e preventiva: il nemico è solo tenuto distante, non affrontato. Il confine tra dentro e fuori deve essere netto. Definito. Senza negoziazioni. Non differentemente dall’atteggiamento narrativo verso la questione. Ci sono gli scrupolosi esecutori delle regole e le file di disubbidienti.
Non è un caso se a mezzo media il tema “Covid19” è stato spessissimo ridotto a una soap opera della colpa, in cui in ogni puntata andava in scena un processo di colpevolizzazione diverso con cui rispondere dell’innalzamento della curva epidemica. Un teatrino non dissimile da quello allestito sui social, fucine dell’ideologia da tifoseria e fabbriche del pensiero manicheo: i luoghi dove oggi per eccellenza il dibattito e la discussione si appiattiscono su una dicotomia asciutta e asettica di opinioni. Negazionisti/rigoristi; vaccinisti/non-vaccinisti. Vietata ogni interlocuzione: anche in questo caso il contagio è pericoloso. È  rischioso esporsi senza protezioni. Meglio rimanere nella campana rassicurante della propria bolla digitale. Anche questa è immunità.

Nel testo La democrazia dei followers pubblicato per Laterza proprio nel 2020, lo storico Alberto Mario Banti mette chiaramente a fuoco il fenomeno dello svuotamento di pensiero individuale, acuitosi e aggravatosi nell’ambito della pandemia. Scrive: “Forse dovremmo chiamarla una “democrazia dei followers”, popolata di persone che pendono acriticamente dalle labbra dell’opinion maker di turno, come da quelle della influencer più in voga, senza avere la capacità di sviluppare risorse cognitive proprie; anzi, senza nemmeno volerlo.”

Alberto Mario Banti, La democrazia dei followers, Laterza, 2020.

Nella comunicazione dei social – ma fa le sue vistose e colorite comparse anche nel mondo dello spettacolo – il personaggio carismatico del momento viene elevato a rappresentante delle masse a colpi di visualizzazioni, like, condivisioni e ricondivisioni virali. Generalmente la sua popolarità è costruita su schiere di followers e seguaci, che, ammaliati dal vocione perentorio e didascalico, neutralizzano letteralmente il proprio contributo alla discussione in favore di chi con successo si è già pronunciato al loro posto: è il regno del consenso facile, dell’approvazione prêt-à-porter.
Media e digitale, con le loro narrazioni e metanarrazioni preconfezionate, oggi rappresentano l’ennesimo apparato della politica immunitaria, forse il più potente perché potentissima è l’ingerenza di questi strumenti nella nostra vita. È  qui che si realizza la salvifica messa al riparo del singolo dalle forze del male, è qui che il trasporto delle immagini e la sensazionalità dei racconti con eroi e antagonisti consegnano allo spettatore un messaggio rassicurante per la sua incolumità. Lo abbiamo visto quando i canti dai balconi, i disegni con l’arcobaleno, i motti “andrà tutto bene” e gli hashtag #iorestoacasa costruivano un mondo meno pauroso, più sopportabile, con l’happy ending già all’orizzonte. E infine è qui che la propaganda diviene convinzione di robusta costituzione, distacco dall’infezione delle parole e dei punti di vista altrui: è una delle massime espressioni, se non la più eminente, di quell’immunità sistematica che oggi le nostre società claudicanti e sofferenti c’impongono di assumere; è la conseguenza fisiologica dell’esposizione a situazioni di instabilità e vulnerabilità in cui è necessario irrigidire le barriere protettive, innalzare le fortezze difensive e rimanere nel proprio. Solo in questo modo la rottura del munus comunitario non provoca dolore, non destabilizza ma al contrario elargisce consolazione e protezione. È solo venendo a conoscenza delle insidie del “fuori” che si apprezza il rinsaldamento del “dentro”. Il limite è sicuro. Monitorabile. Tutto ciò che esula da questa controllabilità ricade nel filtro del rischio. Lo aveva già intuito più di trent’anni fa Ulrich Beck nell’analisi della cosiddetta Risikogesellschaft e oggi ce lo confermano persino alcuni degli esperti più consultati, quando oltre a non dirsi ottimisti sul decorso di questo virus, già prefigurano l’arrivo di ulteriori epidemie. È il passaggio dal rischio-evento alla rischio-narrazione come dispositivo di sensibilizzazione sociale e giustificazione delle trasformazioni in atto. Ma è soprattutto il tavolo su cui si gioca la partita più delicata e importante per il futuro: quanto il contrasto di un pericolo può valere l’epochè delle forze vitali; quanto la protezione della vita può richiedere il suo azzeramento.



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