Non al denaro non all’amore né al cielo, LP del cantautore Fabrizio De André, esce nel 1971. È il suo terzo concept-album, un disco dalla forte coesione interna, le cui canzoni non costituiscono una semplice raccolta ma sviluppano un discorso unitario. I nove brani, in effetti, sono ispirati a nove poesie dell’Antologia di Spoon River, libro scritto dall’americano Edgar Lee Masters, pubblicato nel 1915 e tradotto da Fernanda Pivano nel 1943.
Abbandonati gli studi umanistici, Edgar Lee Masters intraprende la carriera di avvocato; e proprio in tribunale ascolterà le storie che, in parte, daranno vita al libro. L’Antologia racconta la storia di un villaggio, Spoon River, attraverso le voci dei suoi morti: ogni poesia è un epitaffio, che racconta una vita (solitamente mancata, segnata dal rimpianto), e che nella relazione con le altre, nell’insieme, compone uno spietato resoconto della provincia americana.
Masters scrive centinaia di epitaffi – nei momenti più disparati e nei ritagli di tempo, sul margine dei giornali o sul retro delle buste – raccontando fatti spesso reali capitati ai suoi conoscenti:
un giorno il direttore di un giornale di St Louis, che pubblicava autori di grande avanguardia, gli suggerì di leggere l’Antologia Palatina, la raccolta di epigrammi e epitaffi greci tanto rivelativi di intimità e di passioni. Nacque così in Masters l’idea di servirsi della forma di epitaffi per far narrare da ciascun abitante di un villaggio la sua storia e insieme la storia del villaggio; e un giorno che la madre andò a trovarlo e gli raccontò per ore e ore le più recenti vicende di antichi amici quasi tutti travolti dalla tragedia o dalla morte, Masters scrisse la prima poesia. (Masters 2014, nota introduttiva, XII).
Il libro, una volta pubblicato, conosce un successo clamoroso e troverà in Cesare Pavese un estimatore fondamentale per la sua diffusione in Italia. Fernanda Pivano entra in possesso del libro proprio grazie a Pavese (allora collaboratore della casa editrice Einaudi):
Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River: me l’aveva portata Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. Si era tanto divertito alla mia domanda; si era passato la pipa dall’altra parte della bocca per nascondere un sorriso e non mi aveva risposto […] l’Antologia di Spoon River la aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. (Masters 2014, nota introduttiva, V).
Solo qualche anno più tardi, dopo aver rivisto più volte il suo lavoro, Pivano mostra le sue traduzioni a Pavese, che subito fa pubblicare il libro da Einaudi (nel 1943), col titolo – per eludere la censura fascista – di Antologia di S. River. In Italia il libro avrà una vasta diffusione nei decenni successivi, capitando fra le mani di un giovane Fabrizio De André. Nel 1970, al momento di lavorare a un nuovo progetto discografico, Faber decide di selezionare alcune poesie, rielaborandone il testo, per farle diventare canzoni.
Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto diciott’anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi ci trovavo qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso e a non essere sinceri; nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare. (Non al denaro non all’amore né al cielo 1971, note di copertina).
Oltre a De André, il progetto discografico coinvolge anche il paroliere Giuseppe Bentivoglio e il giovane musicista Nicola Piovani (che lo accompagneranno, poi, nella scrittura del successivo Storia di un impiegato del 1973). Non al denaro non all’amore né al cielo segna, in questo senso, una svolta nella carriera di De André: d’ora in avanti deciderà di collaborare sempre con altri cantautori o musicisti per scrivere le sue canzoni (nell’ordine Francesco De Gregori, Massimo Bubola, Mauro Pagani, Ivano Fossati).
Nicola Piovani, all’epoca ventiquattrenne, si occupava già della scrittura di musica per il cinema. Non pare improbabile, quindi, che nella scrittura delle musiche di Non al denaro non all’amore né al cielo vi sia qualche influenza cinematografica.
Lo stesso Piovani, in un’intervista, espone il metodo di lavoro del gruppo: «i testi [De André] li scriveva con Giuseppe Bentivoglio, lavorando sulle traduzioni della Pivano, poi decidevamo che taglio dare alle musiche. Si creava un provvisorio giro armonico, poi cominciavamo a complicarlo, e qualche volta a tormentarlo» (Piovani in Romana 2009, 66); racconta della composizione di una musica in particolare, quella del Suonatore Jones, ultimo brano del disco:
Il suonatore Jones la scrissi una mattina molto presto, di getto: è comprensibile, nacque da un testo così toccante, che parla d’un tale che vive dando la sua musica agli altri. Anch’io sognavo di passare la mia vita dando musica agli altri, così mi rispecchiai in quei versi. (Piovani in Romana 2009, 66)
Il suonatore Jones è il personaggio positivo del disco: se gli altri falliscono la propria vita, o si lasciano trascinare da sentimenti negativi (su tutti: l’invidia), lui accetta il proprio destino di musicista e non si preoccupa di coltivare le proprie terre, perché passa la vita a suonare, partecipare ai balli, e così finisce l’esistenza terrena con i campi alle ortiche, incolti, con un violino spezzato dall’usura, e soprattutto con ricordi tanti e nemmeno un rimpianto. Detto ciò, mi interessa ora la musica: perché il testo, nella canzone di De André, è anticipato da un’introduzione esclusivamente musicale ed è seguito da una coda strumentale, in cui brilla voce femminile.
Piovani afferma di aver scritto la musica una mattina presto, di getto; e tenuto conto del suo lavoro nel mondo del cinema, è interessante confrontare le due parti strumentali del Suonatore Jones con un tema del compositore Ennio Morricone: quello dedicato al personaggio di Jill McBain (interpretato da Claudia Cardinale) nel film C’era una volta il West di Sergio Leone, uscito nel 1968 (tre anni prima di Non al denaro non all’amore né al cielo). È curioso che il giro armonico iniziale della canzone sia parecchio simile a quello che apre il tema di Morricone; e curioso è l’impiego del cembalo in entrambe le composizioni. Il finale del Suonatore Jones, poi, con la melodia eseguita da un soprano femminile, ricorda certamente quella che sviluppa la seconda parte del tema di Morricone; ma soprattutto, ad eseguire entrambe le parti è la stessa voce femminile, il soprano Edda Dell’Orso, fidata collaboratrice di Morricone che viene chiamata, da Piovani, per incidere il finale della canzone deandreiana.
In questo caso, Piovani compie quello che si potrebbe definire un omaggio al compositore Morricone (che, pure, riceverà l’Oscar onorario, alla carriera, nel 2007). E non è improbabile che De André abbia ritenuto l’omaggio perfettamente coerente, utile alla lettura del personaggio e della canzone. In fondo, in entrambe le operazioni – quella di De André e quella di Leone – viene rielaborato un soggetto decisamente americano. E potremmo aggiungere che esiste una relazione fra il Suonatore Jones ed il personaggio della prostituta, Jill McBain, in C’era una volta il West. Certo anche quest’ultima ha una funzione positiva nella storia (è, anzi, il personaggio che muove l’intreccio): la donna, che arriva nel West dopo aver fatto la prostituta a New Orleans, diventa vedova il giorno stesso in cui raggiunge il suo nuovo marito, che viene ucciso insieme ai suoi figli; non si perde d’animo e coltiva il sogno del defunto: quello di costruire una città là dove un giorno passerà la ferrovia, e ci sarà una stazione. È il rovescio del suonatore Jones, che rifiuta di coltivare le proprie terre[1].
Il lungo sodalizio fra Leone e Morricone dà vita a sei film fondamentali per la storia del cinema: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971), e infine C’era una volta in America (1984). A partire dal terzo film, l’ultimo della “trilogia del dollaro”, Leone riuscirà a fare in modo di girare le riprese avendo già le musiche di Morricone composte. È il regista stesso che accenna al loro “metodo di lavoro”: alla domanda “come lavora con Ennio Morricone” risponde:
non gli faccio mai leggere il découpage. Gli racconto la storia come se fosse una fiaba. Poi gli comunico il numero di temi di cui ho bisogno. Ogni personaggio deve avere il proprio… Ma gliene parlo alla romana: con tanti aggettivi. Faccio dei paragoni. Gli spiego tutto. Poi lui si mette al lavoro e mi propone dei temi molto brevi, che mi suona al piano. Spesso si tratta di un’operazione ripetitiva e pesante, perché servono molti tentativi prima di raggiungere un accordo. Il più delle volte gli chiedo di essere lineare, in modo che io possa variarli o ricombinarli. Capita che io prenda la metà di un tema e la metà di un altro per fonderli in uno solo. Bisogna arrivare a soluzioni nelle quali i temi possano incrociarsi senza disturbarsi fra di loro. (Leone 2018, 123-124)
È fondamentale il fatto che Leone voglia girare con le musiche già composte; e ancor più che giri le scene con, in sottofondo, quelle musiche (racconterà che gli stessi attori, inizialmente scettici, poi vorranno recitare sentendo le musiche di Morricone: per migliorare l’interpretazione, intuire il “colore” delle scene e sentirne il ritmo). In un’intervista, Leone stesso affermava che, più che il suo compositore, Morricone è il suo co-autore: questo per dire dell’importanza delle sue musiche, e pure della funzione che svolgevano nella creazione dei personaggi e, alla fine, dei film.
Il caso della produzione di un film e della produzione di un album discografico mi sembrano simili: in entrambi, vi sono numerose componenti, l’operazione è complessa e articolata e impiega un numero rilevante di persone, con ruoli differenti. È normale che un regista non possa occuparsi di tutto; così come è frequente che un cantautore costruisca attorno a sé un gruppo di lavoro per produrre un disco. Si tratta, in maniera diversa ma simile, di un prodotto che nasce, prende vita, viene realizzato attraverso una “pratica sociale”: per cui certamente è il regista a dare l’impronta decisiva al film, e il cantautore a scrivere le canzoni e cantarle: ma la loro autorialità è, in parte, ceduta, condivisa. Questa osservazione nulla toglie al loro ruolo: anzi, semmai, lo rende in maniera più completa – ed è notevole vedere come, nonostante tutto, Leone e De André abbiano una forza autoriale, un “marchio”, perfettamente riconoscibile ed evidente in tutta la loro opera.
Le canzoni di Non al denaro non all’amore né al cielo dimostrano di avere una storia complessa, e il loro contenuto (d’arte e di vita) segue un percorso lungo e articolato. Le vicende e le voci della periferia americana vengono raccolte da Edgar Lee Master, che le sublima in epitaffi e pubblica un libro di poesie; queste vengono tradotte da Fernanda Pivano, e sulle traduzioni Fabrizio De André lavora – insieme all’amico Giuseppe Bentivoglio – per scrivere testi di canzoni, che vengono poi musicate dallo stesso De André insieme al giovane Nicola Piovani. Le storie dei personaggi del disco passano attraverso questi passaggi per arrivare al notevole risultato del disco. In tutto questo, nel Suonatore Jones inserisce la citazione-omaggio ad un film uscito qualche anno prima, C’era una volta il West,che pure ha come oggetto la storia americana: una sorta di circolo che rende, se ce ne fosse bisogno, quella canzone ancora più densa e significativa.
[1] E in fondo, se ripensiamo all’Antologia di Spoon River, possiamo dire che il film di Leone è, fra le altre cose, il film di un villaggio di frontiera e di una storia di morti. Così racconta il regista: «volevo realizzare una danza macabra che si basasse su tutti i miti del western tradizionale: il vendicatore, il bandito romantico, il ricco proprietario, l’uomo d’affari corrotto e la puttana. Utilizzando questi cinque simboli, avevo intenzione di mettere in scena la nascita di una nazione» (Leone 2018, 141).
Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi, Torino, 2014.
Sergio Leone, C’era una volta il cinema. I miei film, la mia vita, a cura di Noël Simsolo, trad. di M. Matteri, il Saggiatore, Milano, 2018.
Cesare G. Romana, Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con Fabrizio De André, Arcana, Milano, 2009.