C’è voluta una pandemia per costringere l’Europa a uscire dalle routine consolidate e dai veti dei Paesi “frugali”. Il Recovery Fund potrebbe porci di fronte, dopo la cesura nella storia mondiale rappresentata nel 1989-90, a una nuova svolta. Naturalmente, è impossibile prevedere se i fondi Next Generation Eu riusciranno a contribuire alla realizzazione storica del sogno europeo o se, invece, si trasformeranno nel simbolo di un’altra grande occasione sprecata. Quello che per il momento si può osservare che l’effetto immediato del pacchetto di aiuti è stato quello di avere disinnescato la retorica sovranista. Almeno per ora, i fautori del “sovranismo di protezione” – che predicano il ritorno ai recinti statali e che guardano all’Europa come a una piovra tecnocratica interessata unicamente a imporre regole di concorrenza o efficienza economica indifferenti ai valori e agli individui – sembrano ritrovarsi spiazzati.
Perché l’intesa raggiunta a Bruxelles è così importante? Perché per la prima volta i Ventisette hanno dato mandato alla Commissione europea di indebitarsi a loro nome per una somma ingente. Si è cioè dato il via libera alla emissione di debito comune su larga scala. Ciò significa, in buona sostanza, che l’Europa ha agito in nome di un “popolo” europeo capace di condividere, come accade a ogni popolo su scala nazionale, gli oneri e i benefici della cooperazione sociale. È questa la novità che bagna le polveri dell’euroscetticismo sovranista.
Sino a oggi, infatti, l’unificazione europea si è configurata come un progetto promosso dalle élites sopra la testa delle popolazioni. Il deficit democratico che graverebbe sull’Unione Europea non dipende da eventuali errori di costruzione, ma dall’assenza di un demos europeo, ossia di una comunità politica omogenea culturalmente integrata. La politica democratica, così suona l’obiezione, può funzionare solo nel contesto di comunità politiche basate sulla fiducia e la solidarietà, ossia quando si può fare affidamento su risorse socioculturali che non è dato riscontrare nel contesto di una comunità politica transnazionale. È possibile risolvere problemi attraverso l’azione e processi decisionali collettivi solo a condizione di presupporre un popolo europeo come struttura di riferimento culturale e cognitiva. Se questa manca, mancano anche le condizioni che generano quei legami di solidarietà che possono operare da collante fra i membri di una collettività specifica. Ad alimentare l’euroscetticismo vi è infatti l’idea che le identità politiche presuppongano un comune senso di appartenenza a un demos stabile nel tempo e connotato in senso etno-culturale, al quale attingere per reperire le risorse di solidarietà sulla cui base costruire la compagine politica.
In realtà, le identità politiche non sono affatto fisse e immutabili, ma costituiscono un “noi” che si può formare in molti modi diversi: attraverso relazioni flessibili che possono sia prolungarsi sia modificarsi nel tempo, conflitti d’azione che si cerca di risolvere consensualmente alla luce di regole o principi condivisi oppure articolando un certo tipo di domande o rivendicazioni con l’obiettivo di costruire una volontà condivisa. Stimolati dalla comune percezione di circostanze eccezionali, come la pandemia, gli atteggiamenti degli attori verso la situazione che si tratta di affrontare possono essere socializzati e unificati dallo scambio di prospettive, tanto da produrre una identità collettiva che può essere provvisoria, ma che può anche protrarsi nel tempo.
Questa molteplicità di circostanze risulta particolarmente evidente nei processi di deterritorializzazione della democrazia, soprattutto in quelle aree funzionali di governance dove esistono dei demoi che non coincidono con i limiti degli Stati e nelle quali le diverse comunità di destino finiscono per sovrapporsi. È per questo che appare irrealistico ancorare la comunità politica a una popolazione immaginata come una datità statica e immutabile. Queste aree aperte e dinamiche non hanno altra scelta se non quella di funzionare con una certa dose di sperimentalismo, per cui non se ne afferra pienamente il significato se le si valuta secondo le categorie ricavate dalla storia degli Stati nazionali. Le comunità sono realtà molto più varie e variabili di quanto previsto dalle tassonomie istituzionali ordinarie, e per questo possono coincidere con un collettivo socialmente circoscritto di cittadini all’interno di un ambito statale geograficamente determinato oppure intrecciarsi e sovrapporsi con altre comunità nel più ampio quadro di una comunità sovranazionale de-statalizzata, la quale potrebbe soddisfare i criteri di legittimità democratica anche al di là della dimensione nazionale.
È la rinuncia a prendere atto di questa molteplicità di prospettive che porta a escludere la possibilità che un governo democratico possa emergere anche a livello europeo, poiché l’Europa manca dell’omogeneità che sarebbe indispensabile per il funzionamento di un sistema democratico. L’identità europea, al contrario, non può essere immaginata come una realtà stabile e definitiva fissata da categorie pre-politiche; può, invece, essere modellata dal discorso pubblico e dalle pratiche politiche. L’Europa non può che configurarsi come un processo in corso, una politica emergente, il risultato di un’interazione dinamica tra sfide esterne, risposte interne e pratiche di cittadinanza, che si svolge in contesto nel quale decisioni, omissioni, progetti, crisi e effetti indesiderati si intrecciano gli uni con gli altri..
In che modo i cittadini europei possono acquisire quel senso di solidarietà civica transnazionale che potrebbe contrastare l’euroscetticismo populista e “sovranista” e superare il problema del superamento del cosiddetto “deficit democratico” europeo? Per cominciare, occorre rinunciare all’idea che le identità politiche, intese quali espressioni del senso di appartenenza degli individui, derivino unicamente da interpretazioni collettive del passato attraverso il processo immaginario di creazione delle tradizioni e delle memorie condivise, e propendere piuttosto per un orientamento pragmatico. Il “noi” in cui i cittadini si riconoscono dipende dalla rete di pratiche informali dell’interazione quotidiana e dalle interdipendenze formali definite dai ruoli sociali, per cui l’identità collettiva tende a coincidere con la serie di pratiche stabili e reciproche di identificazione tra le persone e le istituzioni. La forza inclusiva dell’ordine europeo è assicurata dal contesto di interdipendenze e connessioni sovranazionali che portano a separare la dimensione dell’integrazione politica dei cittadini da quella dell’appartenenza culturale, etnica e nazionale. L’Europa può ricavare la propria forma di legittimazione non solo da riforme istituzionali, ma anche da pratiche condivise, come la mutualità del debito, ed è verosimile che la sua costruzione sia più una questione di pazienza e di aggiustamento delle istituzioni che di richiami al potere costituente del popolo.
Quando l’Ue si impegna a chiedere al mercato il denaro per finanziare obiettivi politici straordinari crea l’opportunità di compiere maggiori progressi nella legittimazione delle sue pratiche di quanto possa fare una Costituzione, generalmente appesantita da una visione statica dell’idea di sovranità. L’integrazione della democrazia su scala europea può avvenire tramite forme di interazione politica capaci di fare in modo che le loro differenti prospettive cultural-nazionali su una certa questione non siano incommensurabili. A essere decisivo, in una collettività di individui legati da processi di comunicazione su aspetti della vita politica e sociale che non si lasciano confinare entro il perimetro dello Stato nazionale, non è ciò che esiste, ma ciò che può sorgere – per esempio, oggi, attraverso la solidarietà di un piano finanziario di emergenza.
Non è necessario che l’identità politica comune condivisa di un popolo preceda l’edificazione delle istituzioni democratiche: si può invece supporre che nasca proprio da queste istituzioni. È nel quadro di una concezione “costruttivista” dell’identità di una comunità politica che può essere possibile immaginare istituzioni transnazionali suscettibili di promuovere l’integrazione delle identità nazionali e culturali. Per questo non vi è motivo per rinunciare a credere che l’azione politica collettiva, i destini condivisi, le esperienze comuni e le interazioni reciproche, anche attraverso forme conflittuali di divergenza di interessi, possano essere capaci di delineare una forma di comunità politica capace di coinvolgere la solidarietà dei cittadini al di là delle loro frontiere. La politica continentale messa in campo contro la dimensione universale della pandemia può essere un primo passo in questa direzione.